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Risarcimenti
Se il garantismo del Pdl valesse pure per la detenzione carceraria si potrebbero sanare due iniquità
Luigi Manconi
I due fini giure consulti Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, la cui cristallina fede garantista è preclara, annunciano la presentazione di un disegno di legge capace di sanare una grave iniquità. Una norma, cioè, che differisca il risarcimento dei danni dovuto da un’azienda a quando la relativa sentenza di condanna sarà definitiva. Dopo la Cassazione, dunque. Idea fichissima (dotata perfino di una sua ragionevolezza), ma che dovrebbe prevedere l’estensione del dispositivo all’intero sistema e, in primo luogo, alla giustizia penale. Di conseguenza la custodia cautelare in carcere (prima che la sentenza sia passata in giudicato) andrebbe limitata esclusivamente ai casi di accertata e immanente pericolosità sociale (ovvero in presenza di una effettiva capacità di ledere terzi). Insomma, toccasse a me decidere sulla questione (risarcimento solo dopo il terzo grado di giudizio versus carcerazione solo dopo il terzo grado di giudizio) risponderei immediatamente: si, facciamo a cambio. (Certo, si dovrebbe attendere la sentenza definitiva anche per incarcerare migranti e tossicomani, ma “in nome dei principi liberali e garantisti” – come direbbe Angelino Alfano - il gioco vale la candela).
Il Foglio, che generosamente ospita questa mia rubrichina, non ha alcuna paura delle parole. Piuttosto, le utilizza con estrema precisione e con acribiosa cura, virtù alle quali anch’io cerco di ispirarmi. Non è, dunque, in omaggio al “quanno ce vo’ce vo’”, bensì per motivazioni squisitamente tecnico-linguistiche che mi trovo a ricorrere, qui, alla formula “clerico-fascista” e al retroterra storico e ideologico che richiama. Il riferimento è, va da sé, al disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, che sta per essere approvato dalla Camera dei Deputati. Se la scelta del Pdl non fosse dovuta a un simoniaco calcolo basso-politicistico, sarebbe perfino peggio, dal momento che la cultura che sembra ispirare quel testo di legge rimanda a una concezione che è propria degli “atei biologisti” (ancorché più o meno genuflessi). L’idea di vita cognitiva e di persona umana che emerge, è quella del materialismo volgare riletto sulla base della più totale sudditanza verso la potenza delle biotecnologie. Il risultato è un mostruoso impasto che, in senso tecnico, va definito appunto clerico-fascista. In senso antropologico, invece, vale ciò che scrive Eugenio Mazzarella, filosofo e parlamentare. A suo avviso, in  quel disegno di legge, la volontà del soggetto sarebbe stata sostituita  da “una dichiarazione anticipata dello Stato, che vincola tutti  (…) a subire idratazione e alimentazione artificiali e sostanzialmente all’accertamento della morte clinica al livello che consente l’espianto. Fino  al collasso metabolico della vita vegetativa, dal momento che non si ritiene sufficiente l’accertamento quale che sia del collasso della vita cognitiva per poter sospendere ogni tipo di cura e sostegno vitale (comprese idratazione e nutrizione artificiali)”. I sostenitori della legge muovono dall’ipotesi che da quel collasso cognitivo, “da questa assenza di coscienza, che è solo una sua latenza, si possa tornare a sé, alla persona. E in nome di questa chance, di questo miracolo insondabile di una vita cosciente che ritorna alla pienezza di sé da uno stato di ultima latenza, prima del nulla o di qualsiasi altra cosa, non si possa negare a nessuna vita, anche a chi abbia dichiarato di volerne fare a meno, questa possibilità di risveglio”. Mazzarella prende in considerazione questa ipotesi, per volontà dialogica e per interesse speculativo, e assume  “questa certezza probabilistica di stato vegetativo permanente come assolutamente non-certezza della sua permanenza”; accoglie, quindi, la possibilità che negli stati vegetativi dichiarati permanenti la coscienza non sia abolita, ma che “semplicemente sia non accertabile né la sua assenza, né la sua latenza, intesa come residuo di presenza”. Poi va oltre e assume che “ci sia sempre e senz’altro, in presenza di una pur minima traccia di attività chimica ed elettrica a livello cerebrale, non abolizione di coscienza, un punto evidentemente di non ritorno - che non porrebbe problemi morali - ma sua latenza”. In altre parole: “un residuo di coscienza che può risvegliarsi”. Il che significa, per il credente, trovarsi al cospetto di “un recesso dove ancora è insediata l’anima, libertà consapevole e principio del movimento: libero è ciò che si muove verso se stesso e gli altri (dove ciò non accade non c’è anima, e la libertà umana o è consapevole o non è)”.  Se quella persona avesse chiesto esplicitamente “in una precedente consapevolezza, di lasciarla andar via, nel tunnel di luce che molti dicono di aver visto e che porta al nulla o a qualcosa, a un’ultima pace dopo il nulla, o a un’altra libertà, e che non avrebbe accettato di stare nel suo corpo consapevolmente chiusa come nella sua tomba”, abbiamo diritto di tenercela, in quella stanza buia, “contro la sua volontà”? Così ragiona (e splendidamente sragiona) un credente: o almeno quel credente che è Eugenio Mazzarella. Ma vallo a spiegare a un’atea biologista come la Dottoressa della Chiesa Eugenia Roccella.
il Foglio 12 luglio 2011
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