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La colpa e la pena

Questa torsione è resa più acuta dal trovarsi in uno spazio, l’istituto di detenzione, in cui il richiamo alla giustizia può ridursi facilmente a una semplice richiesta di “conformità alla legge”. La riduzione della sfera della giustizia alla sfera del diritto ha una lunga storia e una matrice culturale, quella del positivismo giuridico, ancora forte e resistente.
Inoltre un carcere, o una casa circondariale, è lo spazio sul quale si proiettano molte rappresentazioni sociali e molte attese di giustizia segnate dalla logica del contrappasso: al delitto si risponde con la pena, con la punizione, con la sanzione. Il male che squilibra le relazioni richiama la dura sanzione a riequilibrare, almeno simbolicamente il rapporto delle forze. La pena deve, secondo queste attese sociali,  agire come monito per i malvagi e i malintenzionati. Il carcere rappresenta lo spazio simbolico e reale della reazione sociale; e della “restituzione” del male sotto forma di punizione. Dobbiamo anche alla lezione di Gustavo Zagrebelsky una lettura critica della cultura della giustizia  “retributiva”, e solo restitutiva. Che vuole “ripianare” lo squilibrio, che vuole punire; e che può aprire alla vendetta, alla ritorsione. (G. Zagrebelsky, 1992)
Radicate  nelle nostre storie e nella nostra cultura sono anche concezioni e pratiche della giustizia di segno diverso, che vedono nella giustizia  “la risposta al male secondo l’intelligenza di una elaborazione conforme al bene”. (L. Eusebi, 2003) Una restorative justice, una giustizia  “ricostituiva” o riconciliativa. Che ha come scopo del componimento, il nodo da riallacciare: a questo può essere diretta la pena, non alla punizione.
Durante il convegno “La colpa e la pena” svoltosi a Bergamo nel 2000 un motivo era emerso in modo ricorrente nei contributi di giuristi, direttori di istituti di pena, donne e uomini della cultura, teologi: “trasformare la colpa in responsabilità attraverso la pena”. (AAVV, 2000)
Ricostituire il tessuto lacerato chiede passaggi obbligati: quello della riparazione, e prima ancora quello della maturazione dell’ammissione di colpa, del riconoscimento del torto compiuto. Doloroso riconoscimento. Ma il dolore di chi ha recato offesa e violenza non vale come risarcimento, non è il ripianamento del torto, non serve a “pareggiare il conto” con la società. Vale piuttosto come energia, come forza per un percorso di nuovo inizio. Di riscatto.
È l’umanità di chi si è reso colpevole di un delitto, di chi è divenuto pericolo per i rapporti fraterni e ordinati, è quell’umanità che si vuol toccare, che sta a cuore. Con intelligenza, certo, e anche con forte senso della realtà circa la natura umana, le relazioni, il contesto sociale. E la cura per la dignità umana così incerta, sfigurata, proprio per questo quasi del tutto affidata in mano ad altri.
Lavorando con attenzione formativa in carcere si può sentire la possibile comunanza di donne e uomini nell’apertura al senso della giustizia (la “fame e sete di giustizia” di cui parla il discorso della montagna). E nell’esperienza dell’ingiustizia, arrecata, praticata, sentita come colpa, e poi subita, quasi sofferta, si può intuire il possibile cammino per ristabilire un riconoscimento reciproco, e una dignità umana. Nuova possibilità di convivenza, e di riconciliazione.
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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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