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Sorvegliati da morire
Alessandro Leogrande
il Fatto Quotidiano 8 luglio 2011
Un libro che fa male quello di Luigi Manconi e Valentina Calderone,Quando hanno aperto la cella. Gli autori ricostruiscono dettagliatamente alcune storie note, come quelle di Stefano Cucchi o di Federico Aldrovandi: tristemente note come, in passato, lo sono state quelle di Giuseppe Pinelli o Franco Serantini. Ma raccontano anche di tanti uomini e donne anonimi, sconosciuti, dimenticati, che sembrano davvero uscire da alcune canzoni di Fabrizio De André, come quella ricordata nel titolo. Sono tante: da Marco Ciuffreda a Marcello Lonzi, da Katiuscia Favero ad Aldo Bianzino. Da Eyasu Hab-teab a Mija Djordjevic. Da Giuseppe Uva a Giovanni Lorusso. Sono storie di persone comuni morte dopo essere state pre¬se in custodia da funzionari dello Stato. Ed è questo, oltre alla nuvola di silenzio, oblio, prove manipolate o inaccessibili che rendono difficile l'accertamento della verità, a fare par¬ticolarmente male. Scrivono Manconi e Calderone: «In questo libro parliamo di alcune vicende di privazione della libertà e di violenza. Non tutte rimandano alla detenzione carceraria, ma tutte richiamano una qualche forma e un qualche istituto di controllo e di repressione a opera dello Stato e dei suoi apparati. Parliamo, pertanto, di persone decedute, oltre che in una cella, per strada o in ospedale psichiatrico giudiziario o in trattamento sanitario obbligatorio». Le procedure di sorveglianza, perusare un'espressione foucaultiana, si ampliano e integrano tra loro. Non c'è solo il carcere, bensì un sistema carcerario e para-carcerario diffuso . I luoghi di privazione della libertà tendono a riprodursi in varie forme e a creare un circuito all'interno del quale chi entra (quasi sempre un marginale, anche se non in tutti i casi) non riesce più a uscirne. È proprio questo circuito, che mette insieme cie, ospedali psichiatrici e strutture peniten¬ziarie "classiche", che oggi va indagato. Ma non solo di que¬sto si tratta. Se degli esseri umani muoiono in carcere, nelle caserme o in strutture para-carcerarie, ciò avviene perché chi aveva il compito di proteggere la loro "nuda vita" non ha fatto il proprio dovere. Questo racchiude una vasta gamma di comportamenti che vanno dalla totale disattenzione nei confronti di chi muore o si uccide all'interno della propria cella alla gravissima complicità in pestaggi o vessazioni che spesso rasentano la tortura. Sono storie di cui in genere si sa poco, perché avvengono in luoghi "lontani" dalla società civile, che sovente scompaiono dall'orizzonte pubblico e dalla sua attenzione. Ma spesso la cappa si rompe: perché ci sono delle foto che ritraggono i corpi martoriati (come nel caso di Cucchi o Aldrovandi) o perché è stato recuperato il contenuto di alcune telefonate verso "l'esterno" (come nel caso di Uva). Soprattutto, si sa qualcosa di quanto accaduto, quando i famigliari decidono di alzare la voce. E qui il libro introduce un nuovo, interessante elemento di riflessione: il ruolo delle donne. Nella stragrande maggioranza dei casi, proprio come avvenuto con Ilaria Cucchi, sono le madri e le sorelle a farsi carico del ricordo pubblico della morte violenta di un proprio famigliare. Queste discendenti di Antigone non si oppongono tout court alla legge dello Stato. Al contrario, trovano la forza per dire allo Stato o a chi in quel momento lo rappresentava: in nome delle nostre leggi, mie e tue, io critico il tuo comportamento perché ha violato quelle stesse leggi. Quando hanno aperto la cella non è solo un libro di dati e analisi. È anche un libro che restituisce il corpo degli scomparsi, la loro esistenza, le loro relazioni. Ed è pro¬prio questa narrazione, che trascende la mera denuncia o il mero accumulo di informazioni, a farsi strategia civile. Luigi Manconi e Valentina Calderone, Quando hanno aperto la cella, Il Saggiatore pag. 256, € 19.
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