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«Non abbiamo picchiato Cucchi»

Agente penitenziario nega le botte: quando è arrivato aveva macchie rosse in viso

ROMA — N.M., 40 anni, da 12 al Nucleo di Traduzione e piantonamento uffici giudiziari di piazzale Clodio, è uno dei tre agenti di polizia penitenziaria che il 16 ottobre scorso ebbero a che fare, nei sotterranei delle celle del tribunale, con Stefano Cucchi: «Ma quale pestaggio? Quello che vi ha raccontato il detenuto è una follia. Noi Cucchi non l’abbiamo toccato e se quella mattina andò in bagno ce lo portarono i carabinieri. Noi, lì dentro, apriamo e chiudiamo le celle. Ma la custodia dell’arrestato fino a dopo l’udienza di convalida è di competenza solo degli 'operanti', cioè del personale che l’ha colto in flagrante». Insomma, se davvero il pestaggio avvenne in quei minuti, ossia al rientro di Cucchi dal bagno — come ha raccontato il detenuto africano S.Y. ai pm — lo possono dire solo i militari. I due carabinieri che operarono quella mattina, in verità, hanno già dato la loro versione ai magistrati: «Consegnammo materialmente Cucchi ai colleghi della penitenziaria al momento dell’ingresso in cella, alle 9.30. Poi non avemmo più alcun contatto con lui, se non più tardi, alle 12.50, quando andammo a riprenderlo per portarlo in aula. Questo prevede il regolamento». Le versioni, come si vede, non coincidono. Gli indagati in questa brutta storia finora sono «due-tre», dicono in Procura. Massimo riserbo. Il racconto del testimone, però, vacilla paurosamente (interrogato anche ieri dai pm sembra anche aver modificato alcune parti). N.M. s’indigna: «Ha detto di aver visto l’aggressione dallo spioncino della sua cella posta di fronte a quella di Cucchi. Ora io vi invito tutti a venire a vedere. Le 15 celle, infatti, non sono poste l’una di fronte all’altra, ma sono tutte allineate, una di fianco all’altra lungo un corridoio strettissimo. E di fronte c’è solo un muro. Gli spioncini, inoltre, si aprono dall’esterno: dunque, come avrebbe fatto il detenuto da dentro a vedere gli schiaffi, i pugni, i calci mentre lì sotto, tra l’altro, non c’eravamo soltanto noi ma andavano e venivano altri detenuti accompagnati da decine di forze dell’ordine. Possibile che nessun’altro abbia visto?».

«In 12 anni di servizio io non ho mai preso un richiamo, una punizione — così continua lo sfogo dell’agente raccolto ieri dai suoi colleghi —. Ho moglie e figli, sono una persona perbene. Quel giorno, quando Cucchi tornò dall’udienza, ero in portineria e mi accorsi che il ragazzo era strano, aveva macchie violacee, rossastre sotto gli occhi. Quando ci fu il passaggio di consegne tra noi e i carabinieri, stilammo il verbale: lo facemmo spogliare per perquisirlo, è la prassi, e lui era così magro che sembrava un malato allo stremo. Però camminava da solo, non mi sembrò avesse problemi. Gli facemmo la domanda di rito: stai bene? Disse che gli faceva male la testa e la schiena, che voleva una pasticca. Così, alle 13.30, chiamammo il medico del tribunale».

Il medico del tribunale si chiama Giovanni Battista Ferri: «Gli agenti — racconta — avevano notato qualche segno sul viso. Erano piccole ecchimosi sotto le palpebre inferiori. Camminava male, un po’ storto. Gli chiesi: che hai? Disse che gli facevano male l’osso sacro e la gamba sinistra. Allora gli domandai: che ti è successo? Rispose che era caduto dalle scale, ma era evasivo, ebbi l’impressione che non dicesse la verità ». Già, la verità. Il sottosegretario Giovanardi chiede scusa alla famiglia Cucchi per le sue dichiarazioni sulla droga come causa della morte. E Stefano Pedica, senatore dell’Idv, in visita alle celle insieme alla sorella e al padre di Stefano, nutre perplessità sulla ricostruzione del detenuto africano ma soprattutto parla di «omertà» mostrata finora da parte dei carabinieri e della polizia penitenziaria. Sì, omertà. Proprio una brutta parola.

Fabrizio Caccia Lavinia Di Gianvito
Corriere della Sera 12 novembre 2009
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