Consegna e nuovo inizio |
Un carcere, una casa circondariale, possono essere un luogo significativo per la formazione di educatori ed operatori sociali? Un luogo da conoscere, nel quale sostare per cogliere dinamiche e processi, per osservare progetti e strategie formative e “trattamentali”. Ma queste osservazioni partecipanti, il rendersi conto della complessità antropologica di questa realtà quale significatività possono avere per orientare saperi e pratica sociali ed educativa. Non è troppo forte il peso delle sofferenze, delle lacerazioni nelle biografie di chi è recluso? Non è troppo duro il confronto con la frustrazione, l’insuccesso, la colpa; e l’atrofia della speranza, del futuro? Non è ridotta a poco o nulla l’efficacia di un’azione formativa? Oppure: non è segnata da una specificità tale da renderla poco significativa?
Le dimensioni della libertà, dell’autonomia, e gli esercizi della co-responsabilità, e i moventi della fiducia scambiata non sono pre-condizioni, addirittura forze decisive, nello sviluppo di una prospettiva di formazione? In questa consegne e nuovi inizi si richiamano necessariamente. Non sono dimensioni, queste, che trovano, nella realtà istituzionale e umana del carcere e della pena un terreno arido e inospitale, quasi refrattario? La pressione della passivizzazione e del controllo sul tempo presente di ogni donna e ogni uomo in situazione di detenzione è fortissima. Questa pressione si intreccia con il peso delle culture di dipendenza (dalla droga, ma non solo, dal denaro, dalle organizzazioni criminali, da problemi psichici,…) che segnano le loro biografie. L’intreccio produce più spesso rinforzi e "ritorni" in circuiti chiusi di quanto favorisca rielaborazioni e affrancamenti. (P. Buffa, 2003) Dall'altro la refrattarietà la si percepisce anche negli investimenti limitati che la società è disposta a fare sul futuro di persone che hanno provocato sofferenza nella convivenza, che hanno agito rompendo trame e norme d'un patto sociale. Anche questo impedisce l’attesa di futuro, il pensiero di una nuova ospitalità di una nuova prova nelle relazioni. Alcuni anni fa, proprio in riferimento a un'esperienza biennale di formazione sviluppata nel carcere di Bergamo che aveva interessato insieme detenuti ed operatori, Vincenzo Bonandrini notava che: "in condizione di separatezza, i soggetti dell'esperienza formativa potevano essere indotti a rafforzare percezioni e immagini di sé, con identificazioni forti ed esclusive, alle proprie categorie di riferimento. In questo caso i movimenti interni, cognitivi e affettivi, i comportamenti di ogni attore, avrebbero avuto una direzione prevalente: dal problema obiettivo – formazione professionale dei detenuti, tirocinio lavorativo, accesso alla condizione lavorativa esterna – ai sé, alla conferma del proprio ruolo e status” . (V. Bonandrini, 1998, p 231) È la trama degli incontri reali, nelle pratiche dell'organizzazione carceraria e negli spazi di progetto e di formazione, è nella trasformazione delle prefigurazioni e delle rappresentazioni, che si possono aprire (o negare) spazi per "alleggerire i riferimenti esclusivi e verticali, verso le categorie forti di riferimento. Per promuovere processi di riconoscimento, e di attenzione tra gli attori coinvolti. Introdurre componenti che aiutino l’istaurarsi di legami più simmetrici e di reciproche, parziali identificazioni è lavorare, sì, su elementi deboli, fragili, ma fondativi. Si possono dare “movimenti di composizione, di cooperazione, aperti ad una fertile produttività, non confusivi né collusivi, così da non ingenerare dolorose sensazioni di perdita delle identità. Un progressivo accedere alla fiducia". (V. Bonandrini, 1995, pp 45-46) Ed è un accedere alla fiducia che tiene sempre sullo sfondo la lacerazione, la frattura con il carico delle ingiustizie, delle sofferenze. E la consapevolezza dell'esposizione della convivenza (del suo patto, dei suoi valori) alla violenza ed alle ingiustizie. Su questo sfondo ogni gesto e parola, e funzionamento organizzativo o adempimento, resta teso e sospeso – lo si coglie con nettezza in carcere - tra strumentalità funzionale (tesa alla sicurezza e al controllo da una parte; ad ottenere condizioni migliori e riduzioni di pena dall'altra) e istituzione di nuovo legame sociale, di nuova reciprocità sociale, di un anuova relazione interumana in dignità e rispetto. In carcere abbiamo visto sviluppare nel corso di esperienze formative un pensiero riflessivo e comprensivo: attorno all'apprendere contenuti, ad una competenza professionale, ad un ruolo lavorativo, o ad una abilità espressiva e comunicativa. In tutti casi ciò ha comportato anche un accompagnare il pensare e il simbolizzare un’immagine di sé. Certamente "rispetto al lavoro", alla professione, ma anche rispetto alla convivenza, al futuro, alle relazioni. In movimenti interiori e confronti conoscitivi. Con seria presenza di supporti e facilitazioni negli educatori e negli operatori, senza coinvolgimento confusivo. Pensare, parlare, produrre attorno a oggetti, attorno e su di sé, ricercando risorse personali, addestrando abilità, collegando esperienze e conoscenze: è (può essere) focalizzare, e successivamente investire, aspetti riparatori e ricostruttivi rispetto a quelle esperienze precedenti per le quali si è nella colpa e si sconta la pena. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
- Michela e le altre
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- Leggete e diffondete: mio padre per l'ennesima volta è in grave pericolo
- Comitato educatori penitenziari: per "alternative al carcere" servono più educatori
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