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Immigrazione e Costituzione
Federica Resta  Luigi Manconi
“La qualità di immigrato «irregolare» diventa uno “stigma”, che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, (…) in base ad una presunzione assoluta, che identifica un «tipo di autore» assoggettato, sempre e comunque, ad un più severo trattamento.”.

In quest’affermazione risiede, forse, il ‘cuore’ della sentenza 249/2010 – la cui motivazione è stata depositata ieri - che ha dichiarato l’aggravante cosiddetta di ‘clandestinità’ incostituzionale per violazione dei principi di ragionevolezza, offensività e materialità, secondo cui, insomma, non si può incriminare una persona per ciò che si è o si pensa di fare ma solo per ciò che si è fatto, sempre che si sia violato un bene ritenuto meritevole di tutela per l’ordinamento.
In quanto del tutto sganciata dal reato cui accede e dal suo disvalore, quest’aggravante determina un aggravio di pena sproporzionato rispetto alle finalità di tutela dell’interesse protetto (il controllo delle frontiere), come già sancito dalla Consulta (sent. 22/07) in relazione alla disciplina dell’immigrazione e, mutatis mutandis, ai reati di mendicità ‘non invasiva’ e ubriachezza abituale  (sentt. 519/95 e 354/02). L’aggravio di pena correlato alla mera condizione di irregolarità è quindi privo di alcun fondamento in quanto basato su di una presunzione assoluta di pericolosità sociale che già la Consulta (sent. 78/07, in relazione al divieto di concessione di misure alternative agli irregolari) ha ritenuto non desumibile da tale status e per ciò solo, ed attivabile anche quando lo straniero ignori (per colpa) la propria condizione di soggiornante irregolare. Né questo aggravio di pena potrebbe giustificarsi in ragione del fine di meglio consentire il controllo del territorio mediante la regolazione dei flussi migratori, perché del tutto in conferente rispetto a tale scopo.
L’aggravante, insomma, ha una “natura discriminatoria” non attenuata ma anzi, asseverata, dall’introduzione del cosiddetto reato di clandestinità, in quanto costituisce la premessa per “duplicazioni o moltiplicazioni sanzionatorie, tutte originate dalla qualità acquisita con un’unica violazione delle leggi sull’immigrazione, ormai oggetto di autonoma penalizzazione, e tuttavia priva di qualsivoglia collegamento con i precetti penali in ipotesi violati dal soggetto interessato”.
Meno netta e, a  volte, tautologica, la sentenza 250/2010, che ha respinto le questioni di illegittimità costituzionale sollevate in relazione al reato di clandestinità, che per il giudice rimettente contrasterebbe anche con il principio di solidarietà umana e sociale (art. 2 Cost.), in quanto criminalizza una condizione personale e sociale di marginalità, a fronte di un comportamento privo di offensività a terzi.  Nella qualificazione come reato di quella che è una mera condizione soggettiva, spesso indipendente dalla stessa volontà della persona, con un regresso all’epoca pre-illuminista si è infatti annullata la più grande conquista del diritto penale liberale: il passaggio dalla colpa d’autore o per la condotta di vita, alla colpa per il fatto.  E proprio su questo punto insisteva l’ordinanza con cui si è sollevata alla Consulta questione di legittimità costituzionale di questo reato. Le eccezioni sollevate sono state disattese principalmente in nome della discrezionalità del legislatore nelle scelte di politica penale, non ravvisandosi lesione di quei principi di ragionevolezza e offensività che neppure le Camere, nella loro sovranità, possono violare, nella selezione delle condotte da incriminare. La Corte, in particolare, ha ritenuto non irragionevole la scelta di elevare da illecito amministrativo a penale l’ingresso e il soggiorno illegali in quanto funzionale alla finalità di gestione delle migrazioni, che costituirebbe espressione peculiare di quella prerogativa essenziale della statualità consistente nel controllo del territorio. Argomento, questo, discutibilissimo: nel perseguimento di questa finalità, infatti, il legislatore non è del tutto libero, ma deve pur sempre realizzare un adeguato bilanciamento tra tale scopo e il sacrificio imposto alla libertà fondamentale per eccellenza (la libertà personale), che risulta inevitabilmente compressa da un simile reato. Che per la Corte, peraltro, non incrimina un mero status soggettivo, ma un comportamento ‘positivo’ di violazione della legge che regola le condizioni di ingresso nel territorio dello Stato. Affermazione, anche questa, discutibile almeno nella misura in cui non presupponga un’interpretazione restrittiva della norma penale, che la escluda cioè almeno quando il comportamento del migrante sia dettato da quei giustificati motivi che escludono persino il più grave reato di trattenimento ingiustificato nel territorio dello Stato.
Aspetto, questo, affrontato dalla Corte con poco coraggio: da un lato infatti si dice che anche al reato di clandestinità si applicano le scriminanti generali (es. stato di necessità) e le cause di esclusione della colpevolezza (es. l’ignoranza inevitabile della legge penale) che escludono qualsiasi altro reato, nonché la causa di improcedibilità per particolare tenuità del fatto prevista per i processi dinanzi al giudice di pace e il principio generale di civiltà giuridica secondo cui “ad impossibilia nemo tenetur” (e verrebbe da dire: ci mancherebbe altro!).
Dall’altro lato, però,  la Corte esclude che al reato di clandestinità possa applicarsi in funzione scriminante quelle più ampie ipotesi di giustificato motivo (es. impossibilità di recarsi alla frontiera) riconosciute per il trattenimento ingiustificato, in quanto, diversamente da quest’ultimo, il primo non presuppone l’esecuzione dell’espulsione da parte dello stesso migrante.
Diversamente dalla n. 249, dunque, quest’ultima sentenza si trincera dietro la discrezionalità del legislatore per attribuirgli scelte che sembrano violare persino quel limite ultimo della ragionevolezza che finanche le Camere devono rispettare.
09 luglio 2010
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