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At Folsom Prison
La prima volta del rock in carcere. A Folsom Prison con Johnny Cash.
Silvio Di Francia
Immaginate Adriano Celentano, a metà degli anni sessanta nel carcere di San Vittore, davanti a un pubblico di soli detenuti, attaccare “Si è spento il sole” e avrete una pallida idea di cosa fu il primo concerto rock in un penitenziario, tenuto da Johnny Cash nel 1968.
“Devo farvi i complimenti per essere gente veramente dura e per sopportare tutto questo" – disse Cash rivolto ai detenuti -; alzò un bicchiere pieno d’acqua torbida del penitenziario, poi lo frantumò in terra con la dedica: “Questo è per il vostro direttore”. E attaccò: “early one morning while makin’ my rounds, i took a shot of cocaine…” (Cocaine Blues).  Era il 1968, il luogo il penitenziario di Folsom in California e sul palco Johnny Cash, accompagnato dalla band e dalla sua compagna June Carter.
Come molte saghe del rock, anche questo evento è avvolto dalla leggenda e dal mito. E’ la prima volta di un concerto rock gratuito in una prigione ed è il primo clamoroso successo discografico tratto da un concerto live. Il disco che ne scaturì si chiamò, appunto, “At Folsom Prison” e fu un successo sorprendente anche per la casa discografica, decisamente contraria – si disse – all’iniziativa di Cash. Anche la scelta del penitenziario di Folsom non è casuale: Folsom prison blues fu il primo successo di Cash del 1956, ispirato da un film minore (Inside the walls of Folsom, uscito in Italia con il titolo Tortura) visto da Cash durante la leva militare in Germania.
Ci sarebbe poco da aggiungere se non per il fatto che Johnny Cash era tutto meno che un autore impegnato nelle battaglie per i diritti civili. Non era un Pete Seeger, tantomeno un figlio della “Woodstock nation”. Semmai un maledetto del rock ‘n roll e del country, popolare in america quanto Elvis Presley, sconosciuto in Europa; un bianco del sud povero e depresso, maschilista e razzista quanto basta, con la bandiera del Sud sulla targa dell’automobile, diffidente verso quelli del nord, ricchi e raffinati. Johnny Cash, in più, aveva, rispetto ai contemporanei, Presley, Lewis, Orbison, un di più di aura da fuorilegge del rock; viso dai tratti marcati, rigorosamente vestito di nero (“the man in black”), un recente passato di guai con la legge per possesso illegale di anfetamine, ballate ispirate a storie di marginalità di provincia, sud povero, fughe dalla legge, donne poco comprensive, pochi dollari in tasca. Soprattutto talmente popolare, da guadagnarsi il rispetto degli artisti della controcultura a partire da Dylan. L’anno successivo, comunque, Cash replicò, con un nuovo concerto e un nuovo disco, nel carcere di San Quintino, il più duro – si dice nelle note di copertina – di tutti gli Stati Uniti.
In entrambi i dischi compaiono due prime volte: nel primo concerto Cash interpreta un brano composto da un detenuto di Folsom, tale Glen Sherley (Greystone Chapel), e un brano inedito dedicato al tema dell’omosessualità (A boy named Sue), a conferma dell’intenzione interamente “politica” dell’iniziativa di Johnny Cash.  Nelle interviste rievocative sul successo dei due concerti, Cash spiega come la sua conversione all’impegno a favore dei detenuti non nascesse tanto dalla breve esperienza avuta in carcere, quanto dalla lettura delle migliaia di lettere che riceveva dai fan detenuti. Un punto di svolta, dunque, e il carcere che assume agli occhi di una stella del country rock disimpegnato l’immagine del cerchio più lontano, il simbolo di tutte le emarginazioni. In qualche modo il punto che dà senso alle storie di marginalità e di privazioni che pure sono al centro della tradizione di quella musica.
Per il resto della carriera Cash si allontanò progressivamente dall’immagine di maledetto del rock. Si disintossicò, sposò June Carter, duettò con i maggiori artisti della scena pop americana, da Dylan ai Red Hot Chili Peppers. Morì nel 2003, pochi mesi dopo la moglie June.
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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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