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Caso Cucchi, i parenti: "Vogliamo la verità"
"Morto dopo l'arresto, le foto del pestaggio"
Roma, le accuse della famiglia. I medici del carcere: è caduto dalle scale

di Alberto Custodero


«Stefano Cucchi come mio figlio Federico e come Gabriele Sandri». È Patrizia Aldrovandi a unire quei tre tragici destini dal denominatore comune di una morte avvenuta per mano di «una giustizia ingiusta». Aldrovandi, 18 anni, nel 2005 massacrato di botte da quattro poliziotti che, «nonostante la condanna - denuncia la madre Patrizia - sono ancora liberi, in servizio, pagati dalla collettività». Sandri, 26 anni, ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente della Stradale. Cucchi, ultimo caso, 31 anni, morto in carcere dopo l´arresto dei carabinieri che lo hanno sorpreso con una ventina di grammi di droga. E dopo aver subito fratture alla spina dorsale, al coccige, alla mandibola, e una brutta ferita all´occhio sinistro. Il giorno della morte al reparto detenuti dell´ospedale Pertini gli avrebbero negato anche la Bibbia.
I suoi genitori, in cerca di giustizia e verità, hanno deciso ieri di divulgare, in una conferenza stampa al Senato (invitati dall´associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi), le foto shock del cadavere del figlio, scattate all´obitorio. Il volto tumefatto: una maschera violacea attorno agli occhi, uno dei quali schiacciato nell´orbita, sulla palpebra un ematoma bluastro, la mandibola spezzata. E poi le immagini della schiena, fratturata all´altezza del coccige.
Chi ha ridotto così un uomo che, al momento dell´arresto, consumato dalla droga e dall´anoressia, sofferente di epilessia, pesava appena 43 chili? Nessuno, a due settimane dal suo arresto (catturato la notte del 15 ottobre, è morto in prigione il 22), sa ancora chi gli abbia procurato quelle lesioni mortali. Oppure, come se le sia procurate. La procura di Roma ha aperto ieri un´indagine. I carabinieri hanno avviato un´inchiesta amministrativa interna. Il Garante dei detenuti ha presentato un esposto.
Alcuni esponenti politici hanno rivolto al ministro della Giustizia un´interrogazione urgente. E il Guardasigilli, Angelino Alfano, alla Camera, mercoledì scorso, ha già fornito la versione del governo. «La visita al Regina Coeli - ha riferito Alfano - ha evidenziato la presenza di ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione e arti inferiori». «Il medico del carcere - ha aggiunto il ministro - ha poi dato atto nel referto di quanto riferito dal detenuto: Stefano Cucchi ha detto di una caduta accidentale dalle scale». Ma quando sarebbe caduto se, stando alla versione dei familiari, quelle ecchimosi al volto erano già presenti all´indomani del suo arresto da parte dei carabinieri?
«Alle 12 del 16 ottobre - raccontano i genitori - al processo per direttissima, il suo volto è molto gonfio. Alle 14, visitato presso l´ambulatorio di Palazzo di Giustizia, gli vengono riscontrate "lesioni in regione palpebrale, alla regione sacrale e agli arti inferiori». L´Arma, tuttavia, chiamata in causa (anche se indirettamente), dalla versione della famiglia, respinge ogni accusa. In una memoria presentata in procura, i carabinieri al pm riferiscono che «quando Stefano si trovava nella camera di sicurezza della caserma della compagnia Casilina, ha accusato dei malori. Subito è stata chiamata un´ambulanza del 118 il cui medico ha fatto una accurata visita stilando un referto che parla di epilessia e tremori senza, però, riscontrare ecchimosi o lesioni. L´uomo ha rifiutato ogni cura ed eventualmente anche il ricovero. Dopo la visita Cucchi s´è girato dall´altra parte e ha detto "voglio continuare a dormire". E così ha fatto finché è stato portato in tribunale».
La sua morte è diventata ora un caso politico per l´intervento di parlamentari di entrambi gli schieramenti, Pd, Idv e Pdl uniti per chiedere alla magistratura di fare chiarezza e accertare le responsabilità.

(La Repubblica 30 ottobre 2009)



Potevo salvare il carcerato massacrato

Stefano Cucchi, carcerato. Torturato, morto a 31 anni. Stefano Cucchi. Questo nome ce l'ho stampato nella mente da un po’, ma soprattutto ho in mente la faccia di sua mamma che lo ha perso e non ha potuto stargli vicino nel momento estremo. Neanche un prete ha avuto. Ora il volto di lei è duro. Piange il papà, piange la sorella di Stefano, ma lei è come rigida, forse non si rende ancora conto. Di tutto questo ho la necessità di scrivere. Non c’entrano però le storie pietose di madri che mostrano le foto di figli morti. C’entra un mio privato rimorso, ma anche il dovere che abbiamo tutti di aiutare lo Stato a combattere il crimine, a punire i colpevoli dovunque si annidino. Ma anche a impedire in futuro che ci sia qualcosa che oso chiamare pestaggio, pena di morte preterintenzionale, colposa, volontaria, non so. O se l’evidenza di quanto ho veduto e di cui è stata resa testimonianza è ingannevole, allora si dissipi il sospetto. Si mostri come non ci sia stato il tentativo di nascondere, occultare. Ho visto le foto di questo Stefano Cucchi, morto, uno scheletro con la pelle gonfia di botte. Occhio fuori dalle orbite, segni di mascella spezzata. E ho deciso di fornire anche la mia di testimonianza.
La storia è questa.
Il 16 ottobre, venerdì, Stefano Cucchi, peso 45 chilogrammi, epilettico, arriva a casa sua all’una e mezzo di notte, scortato dai carabinieri. Lo hanno trovato con ventotto grammi di hashish, e qualche grammo di cocaina, più farmaci antiepilettici, scambiati per ecstasy. Arrestato. Perquisizione. Non si trova nulla. I genitori lo vedono. È lui, magro, magrissimo, ma in salute. Viene annunciato per l’indomani il processo per direttissima. I genitori lo vedono con il volto tumefatto. Custodia cautelare in carcere in attesa della prossima udienza il 13 novembre. Da quel momento sparisce alla vista dei suoi cari. Si apprende che viene visitato dai medici di Palazzo di Giustizia, gli riscontrano ecchimosi alle palpebre, Cucchi dichiara di aver subito lesioni all’osso sacro, i medici non vanno a fondo. I carabinieri lo trasferiscono a Regina Coeli. Qui all’ufficio matricola si spaventano, tanto è conciato, lo mandano subito al Fatebenefratelli per esami. Lo riportano a Regina Coeli, lì capiscono che è rotto, scassato, di nuovo al Fatebenefratelli, poi di lì al reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini, sempre a Roma. Siamo solo a sabato, ore 14, e Stefano è in quella cameretta al Sandro Pertini.
I genitori cercano di visitarlo, burocrazie varie, impediscono persino possano parlare con i medici. Non dico vederlo, tenergli la mano, ma sapere come sta. Una volta li tengono nel vestibolo. Quando tornano almeno per sapere, li lasciano in piedi davanti al citofono. Ovvio: è un carcere. Ma siamo anche uomini, persino da detenuti.
Li chiamano giovedì sera. I medici del reparto carcerario del Pertini dicono: «morte naturale». L’agenzia di pompe funebri fotografa quel cadavere ricucito dopo l'autopsia, mai visto nulla di simile, sembra che sia stato calpestato da una mandria di bufali. Luigi Manconi di «A buon diritto» le ha diffuse con discrezione, con il vincolo di non pubblicarle. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha risposto con immediatezza all’interrogazione parlamentare, garantendo un’indagine accurata e penetrante.
Perché il rimorso? Perché che cosa sia il reparto carcerario Pertini lo sapevo bene, l’ho visitato due volte, inorridendo. Ho preferito non fare scandali pubblici, evitare pubblicità, scrivendo al direttore degli istituti di pena, Franco Onta, un magistrato valoroso, e per conoscenza anche al ministro. Noi deputati abbiamo questo privilegio: possiamo entrare gratis oltre che negli stadi anche nelle prigioni, senza bisogno di prenotazione.
Ecco qualche stralcio della mia lettera «in alto».
«Mercoledì 2 settembre mi sono recato nella palazzina (mi scusi per l’imprecisione dei termini) sita nel complesso dell’Ospedale Pertini di Roma e dedicata ai detenuti. Ho incontrato i vari detenuti e il Primario Professor Fierro. Nei quattro anni da che questa struttura è stata aperta, costituendo credo un unicum in Europa, mi è stato detto che io sono il secondo deputato che ci accede in visita ispettiva, ed il primo che abbia girato le varie stanze/celle.
L’igiene, quasi il lindore, di questa casa di pena testimonia una grande cura e l’umanità degli agenti, dei medici e del personale sanitario preposto. Ma questa struttura è certamente peggiore del peggior carcere. Tutto è stato disegnato e regolamentato non in vista della cura dei pazienti, ma esclusivamente per la sicurezza. Il risultato paradossale è che in queste celle sono ristretti detenuti per i quali i medici hanno stabilito l’incompatibilità con la situazione carceraria per finire in una galera al quadrato, senza neanche quel minimo di respiro e di movimento che persino la prigione più dura consente.
Ho in mente in particolare il caso di X.Y., che in quell’ambiente ha visto decadere ulteriormente le sue condizioni psicofisiche, fino al concreto rischio di accadimenti invalidanti. Tutto questo le comunico, e per conoscenza rendo noto all’autorità politica, perché si ponga uno sguardo su queste situazioni che aggiungono pene in contrasto alla Costituzione, tanto più contro chi è in questo momento presunto innocente».
Mi chiedo: se avessi scritto un articolo, alzato la voce in Parlamento magari Cucchi sarebbe stato curato al meglio, lo avrebbero potuto vedere i parenti. Invece niente. Ha chiesto una bibbia, il prete non gliel’hanno dato. Ma un po’ di giustizia se la merita. Anche se era stato un drogato e alla fine pesava 37 chilogrammi.
Lo so. Non è bello guardare dentro le carceri. Fare l’esame di come sono trattati i detenuti. Specie se sei di centro-destra rischi di essere guardato come l’amico del giaguaro, l’utile idiota eccetera. Stefano Cucchi però mi riguarda, come riguarda chiunque ami le persone e desideri uno Stato forte e giusto.

(Il Giornale 30 ottobre 2009)

DOPO ALDROVANDI, IL CASO CUCCHI QUESTA VOLTA CHIAREZZA SUBITO
Luciano Ferraro
Stefano Cucchi aveva 31 anni. Federico Aldrovandi 18. Il pri¬mo è morto a Roma nella notte tra il 15 e il 16 ottobre. Il secondo a Ferrara, il 25 settembre 2005. Forse sono solo due personaggi di storie lontane. Ma per ora le loro vicende sembrano avere più di un punto in comune. Le due famiglie, in¬nanzitutto. Gli Aldrovandi si sono battu¬ti a lungo per scoprire il motivo della morte del figlio: Federico non sopravvis¬se ad un controllo di polizia. Ora i Cuc¬chi ripercorrono la stessa strada, fatta di proteste, contatti con i politici che si oc¬cupano di detenuti, interviste televisive. Anche Stefano, come Federico, era af-fidato, come insiste a dire la famiglia, «allo Stato». Era stato arrestato dai cara¬binieri per spaccio di droga. Aveva pas¬sato la notte in caserma. Qualcosa è ac¬caduto quella notte. I carabinieri sosten¬gono che hanno udito il detenuto la¬mentarsi. E per questo hanno chiamato un’ambulanza. Arrivato il medico, Cuc¬chi ha rifiutato le cure, preferendo la cel¬la all’ospedale. Il giorno dopo è stato portato dal giudice. Poi in carcere. E da lì al pronto soccorso dell’ospedale Perti¬ni per un mal di schiena. È morto giove¬dì scorso nel reparto dei detenuti.
La famiglia, che non ha avuto il per¬messo di visitarlo durante la convale¬scenza, prima ha descritto i segni di un pestaggio sul corpo di Stefano. E poi, proprio come era stato fatto nel caso de¬gli Aldrovandi, ha diffuso le foto del ca¬davere dopo l’autopsia. Una decisione presa con l’avvocato Fabio Anselmo. Lo stesso del processo di Ferrara.
Per scoprire la verità su Aldrovrandi ci sono voluti 4 anni e 32 udienze. Fino alla condanna di quattro poliziotti per omicidio colposo: l’avevano percosso e gli avevano tolto il respiro, ammanettan¬dolo a pancia in giù. Tempi così lunghi hanno fatto male a tutti, alla famiglia e alla polizia. Ora, per spazzar via ogni dubbio, è necessario fare subito chiarez¬za sulla morte di Cucchi. Ha fatto bene il ministro della Giustizia Alfano, a chiede¬re «un approfondimento immediato». Ora deve ottenerlo.

(Corriere della Sera 30 ottobre 2009)
Massacrato dopo il fermo, i genitori chiedono giustizia
Toni Jop
È dura guardare, ma forse conviene; queste foto atroci dicono molto ed è bene prendere atto di ciò che preferiamo spesso ignorare: le immagini di Stefano Cucchi, o meglio del suo corpo martoriato, sono un po’ la mappa del linguaggio del nostro sistema «di sicurezza». Le ha consegnate ai media Luigi Manconi, ieri mattina; accanto a lui, padre, madre e sorella del ragazzo che un giorno è entrato in buona salute in cella e una manciata di ore dopo ne è uscito senza vita e con le ossa rotte. La famiglia di Stefano non ha rancore, non chiede vendetta, solo verità su quel che è accaduto al loro caro; dicono «Glielo dobbiamo», umano, molto umano, e si rivolgono al governo, ai ministri competenti, facciano il loro mestiere perché non si può morire così a trentuno anni mentre sei tra le braccia dello Stato. Proviamo a ricapitolare la storia, recentissima, che inizia il 15 ottobre quando, di sera, Stefano viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti, a Roma. Gli trovano addosso un po’ di marijuana, pochissima coca, un paio di pastiglie, secondo il padre «di Rivotril», un farmaco contro l’epilessia regolarmente prescritto dal medico. Il giorno dopo, perquisizione in casa, non viene trovato niente di più. Stefano ammette l’uso di stupefacenti davanti al giudice ma a mezzogiorno, quando giunge in aula scortato da quattro carabinieri, ha il volto tumefatto e appare dimagrito. Dopo circa un’ora, emessa la sentenza di rinvio a giudizio, Stefano va verso il carcere ammanettato perché è stato assegnato alla custodia cautelare in attesa dell’udienza fissata per il 13 novembre.
Cella e manette per «roba» ad uso personale, sembra una risposta un bel po’ forte ma, se è così, eccoci di fronte a uno dei tanti specchi del nostro inflessibile paese. Alle 14 lo visitano presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia e gli riscontrano lesioni al viso mentre Stefano lamenta lesioni alla zona sacrale e agli arti inferiori. Via a Regina Coeli. All’ingresso, visita medica: ecchimosi... tumefazione... algia.... Gita all’ospedale Fatebenefratelli, dove le radiografie diagnosticano: «frattura del corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea». Torna in cella con le sue fratture. Il mattino dopo, nuova gita al Fatebenefratelli e di qui all’ospedale Pertini. I famigliari sanno del ricovero solo alle 21. Corrono e chiedono di poterlo vedere. Umana risposta: «Questo è un carcere e non sono possibili le visite», giusto. Chiedono allora come stia il loro ragazzo ma viene loro risposto che conviene tornare lunedì e parlare coi medici. Pazienza? Lunedì: alle dodici, parenti di nuovo al padiglione detenuti del Pertini; stessa domanda: come sta Stefano? Una sovrintendente, uscendo dal reparto telegrafica concede: «Il ragazzo sta tranquillo». Niente colloquio coi medici: manca, spiegano, l’autorizzazione del carcere, tornassero il giorno dopo. Fatto: purtroppo, non li lasciano entrare, si sentono spiegare che serve il permesso del giudice. Accidenti, nessuno glielo aveva mai detto prima, c’è sempre qualcosa da imparare. Siamo arrivati a mercoledì, mattinata di pratiche ma questa volta forse non manca niente, giovedì sarà il giorno buono. Infatti, a metà giornata, mentre il padre è a Regina Coeli per farsi firmare il visto, un carabiniere bussa e chiede alla mamma di Stefano di seguirlo in caserma, le devono dire delle cose. Lei non può allontanarsi, sta badando alla nipotina. Il carabiniere promette che tornerà. Alle 12 e mezza, alla signora viene notificato il decreto del Pm per l’autorizzazione alla nomina di un perito di parte. E perché? Perché Stefano è morto. Corrono all’obitorio, lo spettacolo è devastante, le tracce sono in quelle foto. Fine. Si indaga. Che sarà mai.
(L’Unità 30 ottobre 2009)



Tutti i dubbi sulla morte di Stefano Cucchi

Cinzia Gubbini

I medici non avrebbero mai saputo che i genitori di Stefano Cucchi erano fuori dai cancelli del reparto carcerario per avere informazioni sul figlio. Che è morto
dopo cinque giorni passati lì dentro, senza mai poter vedere un famigliare. Questo è quanto filtra dall’interno dell’ospedale Sandro Pertini. Stefano era stato fermato dai carabinieri la notte tra il 15 e il 16 ottobre. Lo denunciano per
possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Dopo l’arresto viene trasferito
nel reparto carcerario del Sandro Pertini. I genitori si sono recati per tre giorni davanti al reparto. Parlavano con la polizia penitenziaria: chiedevano di entrare. O almeno di poter parlare con un dottore. Veniva risposto loro che serviva un’autorizzazione del pm, che sarebbe arrivata presto. Nessuno ha mai spiegato ai parenti che erano loro a doverla chiedere. Lo capiscono il martedì, il giorno dopo vanno in Procura e ottengono il benedetto permesso. Ma ormai è tardi: giovedì Stefano muore. Fanno in tempo solo a vedere il suo corpo e a rendersi conto che è successo qualcosa: il viso tumefatto, un occhio rientrato nell’orbita e dimagrito di cinque chili in pochi giorni. E’ vero che i medici non sono mai stati informati della richiesta di colloqui? E’ una posizione della direzione sanitaria per giustificare un comportamento irresponsabile e quanto
meno poco umano da parte dei sanitari, oppure dimostra che la polizia
penitenziaria ha fatto «muro», cercando di allontanare il momento in cui i genitori si sarebbero trovati di fronte al volto del figlio pieno di ecchimosi?
E sulle cause delle tumefazioni e delle fratture ora spunta anche la versione della caduta. La voce era già girata nei primi giorni. Da ieri è «ufficiale». Lo ha riferito in parlamento il ministro della giustizia Angiolino Alfano rispondendo
a un’interrogazione del deputato del Pd Roberto Giachetti. Alfano ha assicurato approfondimenti immediati: «Seguirò con estrema attenzione gli sviluppi della vicenda», ha detto, riportando in aula quanto fornito dal carcere di Regina
Coeli, dove Stefano è stato portato il venerdì. Era già malconcio. Tanto che dopo un’ora nella sala matricole viene trasferito una prima volta al pronto soccorso dell’Isola Tiberina. Ma il ragazzo era arrivato in carcere già con un certificato medico: era stato visitato infatti anche in tribunale, su disposizione
del giudice che si era accorto di qualcosa di strano. «Il medico dell'ambulatorio della città giudiziaria - ha riferito Alfano - ha riscontrato 'lesioni ecchimotiche in
regione palpebrale inferiore bilateralmente’ ed ha avuto riferite dal Cucchi medesimo lesioni alla regione sacrale ed agli arti inferiori, queste ultime non verificate dal sanitario a causa del rifiuto di ispezione espresso dal detenuto». Passa quindi nelle mani del medico di Regina Coeli: «il referto redatto in istituto - continua Alfano - ha evidenziato la presenza di ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione e arti inferiori».
Perché era ridotto così? Secondo quanto riferito dal medico del carcere Stefano avrebbe detto di essere caduto dalle scale il giorno precedente. Cioè il giovedì, quando è stato fermato dai carabinieri. Ma dove? Nella stazione di polizia
di Capannelle dove è stato interrogato? Nella cella di sicurezza di Tor Sapienza dove ha passato la notte? Ammesso che la caduta sia vera queste sono le uniche due ipotesi plausibili, visto che dopo il fermo i genitori lo hanno visto a
casa, dove il ragazzo era stato portato dai carabinieri per la perquisizione
della sua camera. E stava bene. Il giorno dopo, in tribunale, invece il padre si accorge subito del suo viso gonfio. Ma le fonti dell’Arma finora non hanno parlato di alcuna caduta. Dicono che la notte in cella di sicurezza fu chiamata
un’ambulanza, ma perché lui stava male e diceva di soffrire di epilessia.
Epilessia, una caduta, oppure le botte, come sospettano i famigliari? Dove sta la verità?
La relazione di Alfano prosegue puntualizzando quanto già si sa: al pronto
soccorso vengono fatte delle lastre ed emerge «frattura vertebrale L3 dell'emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea». Stefano rifiuta il ricovero (eppure in tribunale aveva tentato in tutti i modi di evitare il carcere e di essere destinato a una comunità) e torna in cella. Il giorno dopo, però, i
dolori sono talmente forti che viene di nuovo portato al pronto soccorso
e quindi ricoverato in ospedale. Dove muore il 22 per «morte naturale». I risultati dell’autopsia parlano però di molto di più: sangue nella vescica, nello stomaco e un polmone compresso. Chi lo ha visto nel reparto carcerario racconta inoltre di un paziente cataterizzato, che non poteva neanche alzarsi dal letto. Con che codice è entrato Stefano in quella palazzina? Quel reparto non è pensato per le emergenze, non c’è la rianimazione, non c’è la Tac. I detenuti in condizioni gravi vengono normalmente trasferiti nei reparti «civili» delle palazzine A e B. Stefano non si è mai mosso dal reparto carcerario. Ieri il pm titolare dell’indagine, Vincenzo Barba, ha acquisito la cartella clinica, la trascrizione verbale dell’udienza e la sua registrazione. Ma soprattutto ha
disposto una consulenza medico legale per fare luce sulle cause della
morte.

(Il Manifesto 29 ottobre 2009)


Il caso Cucchi e la credibilità delle istituzioni

Giuseppe Terranova

Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa. Sono passati oltre due secoli da quando Cesare Beccaria si batteva contro le atrocità giudiziarie, contro la tortura e la pena di morte in nome del valore rieducativo della pena detentiva. Eppure, periodicamente le teorie di Beccaria - che sono parte integrante dello Stato di diritto - vengono messe in discussione dalla cronaca quotidiana del nostro Paese. Giovedì 16 ottobre un giovane trentenne, Stefano Cucchi, è stato fermato a Roma perché in possesso di venti grammi di sostanze stupefacenti. E' morto, in circostanze ancora da chiarire, il 22 ottobre nel reparto detentivo dell'ospedale Sandro Pertini. Giorni interminabili durante i quali i genitori hanno cercato invano di visitarlo e di parlare con i medici che lo avevano sotto cura. Poi l'improvvisa notizia del decesso. A fronte delle informazioni poco chiare e contraddittorie delle autorità, la famiglia Cucchi ha convocato una conferenza stampa in Senato per chiedere di fare luce sulla vicenda. Sono state distribuite anche le foto del corpo del ragazzo scattate dall'agenzia funebre dopo l'autopsia. A quanto pare il giovane in pochi giorni di ricovero avrebbe perso sette chili, aveva il volto devastato, l'occhio destro rientrato nell'orbita, l'arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura. Questi i dati inconfutabili, anche se al momento non ci sono indagati. Intanto parte del mondo politico sembra muoversi. Emma Bonino, Renato Farina, Flavia Perina e Marco Perduca, presenti alla conferenza stampa hanno denunciato l'intollerabile vicenda annunciando - come ha dichiarato Marco Perduca - la richiesta alla Commissione parlamentare per i diritti umani di una missione ispettiva al reparto detentivo del Pertini. Nell'attesa, continuare a scrutare e indagare su ciò che il giovane deceduto era stato e aveva fatto nel corso della sua vita non sembra rilevante.
(Nuova Agenzia Radicale 29 ottobre 2009)
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Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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