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Carcere insostenibile
Perché la condizione delle carceri e le politiche carcerarie riguardano tutti, più di quanto si creda. Il Settimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia ci insegna molte cose sulle difficoltà incontrate da una “cultura della sostenibilità”
Mario Salomone
Direttore di “.eco”
Cosa c’entra il carcere con l’ambiente? L’obiezione (un abbozzo di rifiuto…) è stata posta a chi scrive da un’addetta alla distribuzione di copie dell’ultimo rapporto di Antigone (Da Stefano Cucchi a tutti gli altri. Un anno di vita e morte nelle carceri italiane. Settimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, “Antigone”, anno V, n. 1, Edizioni L’Harmattan Italia, pp. 288, euro 22). Cercheremo dunque di spiegare il legame alla gentile addetta e ai nostri lettori, ai quali comunque il nesso è senz’altro più chiaro. La reazione dell’addetta suddetta è paradigmatica di un pensiero a compartimenti stagni (che è tra i grandi ostacoli per una “cultura della sostenibilità”), come la condizione delle carceri è paradigmatica di questioni che ci toccano tutti, molto da vicino.
Innanzi tutto, le carceri italiane non sono senz’altro un ambiente sano e vivibile. Mancano spesso i servizi di base (l’acqua, la doccia, il gabinetto). Manca lo spazio: le permanenze (intorno alle 70.000) sono quasi il doppio della capienza regolamentare. Un direttore di carcere racconta che gli è capitato di far dormire gli arrestati sul pavimento della palestra, senza brande, materassi e nemmeno una coperta. Le cucine, va da sé, non a norma. Insomma, i luoghi dove sono ristretti quanti hanno violato (o si presume abbiano violato) la legge sono… fuorilegge, come spiega uno dei capitoli del rapporto grazie a una iniziativa di ispezioni dirette promossa da Antigone, A buon diritto e Carta. Non parliamo poi degli ospedali psichiatrici giudiziari, di cui il rapporto ci restituisce immagini sconvolgenti: (ad Aversa) «I tre letti di contenzione erano fissati al suolo, questi letti avevano un materasso di schiuma con una copertura di gomma ed un’apertura centrale che permetteva ai pazienti di liberarsi quando era necessario. Un secchio per raccogliere gli escrementi era posto sotto l’apertura in oggetto» (p. 101).
Il carcere, così come qualsiasi altro luogo (scuola, ospedale, azienda, condominio, centro commerciale, ecc.), è un ambiente, da rendere “sostenibile” in tutti i suoi aspetti, architettonici, fisici, energetici, relazionali, organizzativi (“.eco” è stata la prima a introdurre in Italia il tema delle scuole e delle università “sostenibili”, tanto che il sintagma “educazione sostenibile” fa anche da sottotitolo alla testata).
I problemi delle carceri italiane sono molti e complessi ed è difficile sintetizzarli in una recensione al denso e ricco volume pubblicato da Antigone. Sono una delle piaghe scoperte della società ed è giusto, per ragioni tanto umanitarie quanto di politica generale, conoscerli e discuterne, spiegandoli ai giovani (Susanna Marietti, Patrizio Gonnella Il carcere spiegato ai ragazzi, ManifestoLibri) ma anche agli adulti.


Il “dentro”, specchio di inadeguatezze diffuse ovunque

Il dibattito di presentazione del rapporto, lo scorso gennaio 2011 a Torino, ha permesso di fare emergere una serie di questioni che interessano tutti e che si prestano a un interessante lavoro educativo. Il carcere è uno specchio delle trasformazioni e delle contraddizioni della società, addirittura un loro osservatorio privilegiato. Pietro Buffa, direttore della casa circondariale di Torino (una città dentro la città) ama ripetere che osservando flussi e composizione degli ingressi è possibile scorgere con largo anticipo i segnali di fenomeni che poi si manifesteranno in modo più evidente a livello di intera società.
Vediamo dunque le questioni che più si prestano a stabilire una relazione tra quanto succede nelle e alle carceri e quanto succede altrove.
L’impressionante aumento della percentuale di stranieri tra la popolazione carceraria, ad esempio, non è dato tanto dal fatto che gli immigrati delinquono di più, ma che meno riescono ad accedere a misure alternative alla detenzione, pur avendo pene brevi da scontare. O, se moltissimi degli “ingressi” escono entro tre giorni non è dovuto a un carcere “porta girevole” (stile “polizia e magistratura con le mani legate”) ma all’impossibilità di risolvere tutto in fretta con un rito per direttissima. Metà dei sottoposti a misura cautelare, dice Buffa, non abbiamo neppure il tempo di vederli o di saperne il nome: nessuna funzione “riabilitativa” è possibile in questi casi. E arresti (quasi sempre di “esclusi”, di classici rubagalline e ladri di biciclette, perché chi ha buoni avvocati in genere se la cava) e recidive sono dovuti, magari, a una società, “fuori”, dove regnano le stesse inefficienze e le stesse mancanze di mezzi che troviamo “dentro”. Tra ordinamento carcerario e “carcere reale”, da un lato, e sicurezza dall’altro c’è uno stretto legame. Cattivi servizi sociali e sanitari, mancanza di case di edilizia sociale, mancanza di microcredito per persone non “bancabili”, disoccupazione, cattive scuole, degrado urbano e ambientale e quant’altro sono la fabbrica di soggetti deboli, condannati alla marginalità e alla devianza.
Nel nostro modello culturale non si valuta il “costo opportunità” (ovvero il vantaggio economico, oltre che sociale, degli investimenti nei servizi e per uno stato civile ed efficiente), non si conteggiano le “esternalità” di un carcere che “inquina”, così come non si conteggiano le esternalità di un’economia che saccheggia risorse e alza il termostato del pianeta, il costo per la collettività del PM10 o della diossina nel latte. Una spesa per buone carceri in grado di rieducare (oltre che, beninteso, per soluzioni diverse dalla cella), così come per la riduzione dei rifiuti, per una mobilità sostenibile, per la difesa del suolo e della biodiversità o per una ricerca e un’istruzione al livello richiesto dalle sfide del futuro sono tutte spese che non rappresentano costi, ma risparmi e investimenti, con ritorni in termini di coesione sociale, sicurezza, salute, qualità della vita. Vuol dire un PIL fatto di cose buone e non anche di spese “difensive” o “reattive” (come gli allarmi antifurto, le porte blindate, gli incidenti stradali, le medicine e le cure mediche, la ricostruzione dopo i disastri, gli psicofarmaci, i soldi sprecati nell’acquisto di cose inutili o di scarso valore,… – insomma, tutti i segni di disagio e patologia della vita contemporanea).
Le politiche (o meglio, la clamorosa assenza di una politica) per il carcere sono dunque un tassello di una più generale visione (o assenza di visione) del futuro, di un’idea di società: cos’è una società “sostenibile”, cosa vuole dire costruire un paese civile, moderno, vivibile, accogliente, “saggio”, capace di visione larga e di lungo periodo?
Così come, fortunatamente, nella società italiana vediamo molti fermenti positivi, molte iniziative “dal basso”, molta capacità di amministrazioni locali, associazioni, comitati, imprese, singoli cittadini e cittadine di rimboccarsi le maniche e di cominciare a costruire un mondo migliore senza aspettare che si muova prima qualcun altro, anche nelle carceri italiane non mancano esperienze interessanti che hanno a che fare con la sostenibilità: interna (gli edifici, gli impianti, l’organizzazione generale), ancora interna sotto forma di percorsi formativi, fiorire di laboratori di lavorazioni artigianali a chilometri zero e ecocompatibili (cancelleria, abbigliamento, uso di materiali riciclati, orti biologici, catering, smontaggio di rifiuti elettronici, ecc.) ed esterna, sotto forma di cantieri di lavoro ambientali e preparazione ai nuovi “green jobs”.


Uno stato senza carta igienica

Una osservazione e un aneddoto (che dobbiamo anch’essi a Pietro Buffa) per finire, che conferma che il carcere non è un mondo a sé e che impegnarsi.
La prima riguarda un certo “sfarinamento” delle componenti del personale del sistema penitenziario: di fronte a una società e a un potere politico incerti o assenti sulla “missione” da assegnare al lavoro di guardie, educatori, psicologi, medici, dirigenti, funzionari, ecc., viene meno una identità comune, un senso di lavoro di équipe e ogni categoria si muove per sé, corporativamente, alla ricerca di vantaggi o di spiragli di fronte al peggioramento delle condizioni complessive.
Ma la frantumazione sociale (o chiamiamola “sindrome da capponi di Renzo” frutto di un “divide et impera”) è un fenomeno purtroppo diffuso in molti campi e, se va approfondito e studiato meglio per quanto riguarda il personale dell’amministrazione penitenziaria, tocca un po’ tutti e chiama quindi a una ricomposizione dei diversi strati e gruppi sociali.
L’aneddoto è che la casa circondariale di Torino non ha i soldi nemmeno per la carta igienica e deve farsela regalare da una ditta di Novara, accontentandosi di quel che passa il convento (ultimamente: fazzolettini umidi). Anche qui, niente di molto dissimile, ad esempio, dalla scuola, dove i genitori devono tassarsi per comprare carta igienica, sapone e carta per fotocopie.
Tempo fa il sociologo Luciano Gallino aveva definito la situazione italiana in modo lapidario: “Stato povero, società ricca”. Siamo ricchi (siamo nel G8) ma i soldi stanno a Santa Lucia o in Svizzera, centinaia di miliardi di euro frutto di evasione fiscale o economia delle mafie, stanno ormeggiati nei sempre più numerosi porti turistici, stanno alle dita e al collo di dame ingioiellate, stanno sotto i culi (ci si passi il termine, da molti sdoganato) seduti sulle Ferrari o nelle decine e centinaia di case possedute da schiere di commercianti e professionisti evasori, stanno nei bunga bunga.
È sempre avvenuto così: come dice una vecchia canzone popolare, carne umana mandata al macello senza rancio, nelle trincee della Prima Guerra mondiale, mentre i mercanti di cannoni se ne stanno “con le mogli nei letti di lana”, alpini mandati in Russia con le scarpe di cartone nella Seconda Guerra mondiale.
Ora, con la crisi e i tagli lineari di Tremonti, siamo ai saldi finali di uno Stato povero (di soldi – se non per le lobby – e di idee), mentre il 10 per cento degli italiani, come ci dice l’ISTAT, accumula sempre più quote della non piccola ricchezza nazionale.


PER SAPERNE DI PIÙ
http://www.innocentievasioni.net/index.php?option=com_content&view=article&id=359:il-carcere-puo-essere-sostenibile&catid=1:ultime
http://www.innocentievasioni.net/index.php?option=com_content&view=article&id=392:il-carcere-puo-essere-sostenibile-2&catid=1:ultime
http://www.innocentievasioni.net/index.php?option=com_content&view=article&id=467:il-carcere-puo-essere-sostenibile-&catid=1:ultime
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il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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