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Girarsi verso il volto del condannato

Rendersi conto della gioia o del dolore, di un amico o di persone lontane e rese presenti alla mia vita, non è solo frutto della ricerca di spiegazioni e di ragioni o dell’indagine di cause e diversi fattori intervenuti. Rendersi conto è anche, forse soprattutto, accostarsi  al
dolore e alla gioia nella sua immediata interezza, nel suo essere vissuto specifico e irripetibile (né deduzione, né intuizione, né assimilazione a mie simili esperienze). (E. Stein, 1986)
Non è un approccio “teoretico” all’altrui dottrina, quello cui siamo chiamati, è piuttosto un accostamento all’umanità che si manifesta a noi. Quello che ci rivela a noi stessi.
Ma  non siamo solo tra noi: tra noi ci sono altri. Stranieri tra noi. La presenza del “terzo” crea un problema in più: ma anche una potenzialità in più: la possibilità e l’obbligo di fare la giustizia, attraverso le  istituzioni. La possibilità e l’obbligo di farsi prossimi anche di altri, che non mi guardano ma  mi riguardano, che non conoscerò mai ma che possono essere resi qui di fronte a me, attraverso istituzioni giuste. (P. Ricoeur, 1998)
Esperienza al cuore di se stessi quella della convivenza tra noi: è in una vicinanza, in una interconnessione inedita che si danno il “tra noi” della familiarità che ci riunisce e il “tra noi” dello spazio aperto, della distanza e della presenza d’altri. Altri tra noi, già in noi oggi. “Siamo tra noi” e “altri è tra noi”. (E. Lévinas, 1998, 2002) Siamo tra noi: consistiamo, ci individuiamo nell’elezione alla responsabilità cui l’altro ci chiama. Vigilo sulla sua fragilità, mi riguarda, non sono sostituibile. Altri è tra noi: si impara la socialità della molteplicità, della politica, della giustizia. L’amore precede la giustizia, ma non la sostituisce, né la evita o la relativizza.
Esperienza dell’alterità, che mi porta a cogliere: “io sono: eccomi!”, nell’abnegazione dell’essere-per-l’altro. E significazione delle istituzioni, del diritto, del Codice come forme necessarie della cura responsabile dell’”altro tra noi” (del “terzo” come dice Lévinas): una è condizione dell’altra.
Quella che si realizza è una “identificazione non intenzionale” che  avviene “al di qua del volere” e gli dà orientamento e forma. Io, straniero sulla terra , ora divengo dedito, storia unica: è l’autorità del fragile, suprema, che mi ordina. Non è la libera decisione di una scelta che manifesta l’autosufficienza del soggetto, la centratura in se stessi.
Fin qui siamo nella “società intima”, della pura responsabilità, prima della reciprocità. Ma quando entrano in gioco gli altri  dell’altro, “che non mi guardano” e “che mi riguardano”, occorre costruire l’ordine della giustizia, la società politica, il sapere. A salvaguardia e a riconoscimento “dell’altro che è tra noi”. Occorre confrontare, giudicare, essere equi; anche condannare.
“Ecco l’ora della giustizia, inevitabile, che la stessa carità esige. L’ora della Giustizia, della comparazione, degli incomparabili che si riuniscono in specie, in genere umano”. .È l’ora delle istituzioni abilitate  a giudicare, l’ora degli Stati in cui le istituzioni si consolidano e l’ora della Legge… l’ora dei cittadini uguali dinanzi alla legge”. (E. Lévinas, 2002)
Sempre assumendo l’ambiguità dell’umano che, comunque, ci chiede di non ridurre a uno l’unicità di ogni donna e ogni uomo.
“La giustizia rimane giustizia solo in una società in cui non c’è distinzioni tra vicini e lontani, ma in cui rimane anche l’impossibilità di passare a fianco del più vicino; dove l’uguaglianza di tutti è portata dalla mia disuguaglianza, dal surplus dei miei doveri sui miei diritti. L’oblio di sé muove la giustizia”. (E. Lévinas, 1983)
Se, dunque, occorre educare al sostenere associandosi (al)la debolezza e finitezza d’altri, sacrificando  interesse e compiacenza ed essere, occorre anche assumere quella sorta di anonimato del codice applicato a tutti proprio della realtà sociale e istituzionale. È una limitazione della carità che impedisce di mancare nei confronti di chi è “terzo”, non immediatamente prossimo. Ricordando però che lo Stato in cui la giustizia si connette alla misericordia è quello in cui dopo la condanna, dopo il giudizio, "c’è spazio per la manifestazione di un pensiero a favore del condannato”. L’eccedenza della carità rispetto alla giustizia è in questo “girarsi verso il volto del condannato!” (E. Lévinas, 2002)
Educando le piccole e i piccoli dell’uomo, perché questo sia l’atteggiamento diffuso nell’ethos civile, in esperienze in cui si sia condotti al “ritorno all’interiorità della coscienza non-intenzionale (…) alle sue possibilità di temere l’ingiustizia più della morte, di preferire l’ingiustizia subita all’ingiustizia commessa, e ciò che giustifica l’essere a ciò che lo rassicura” .
Da qui possiamo partire per tratteggiare un’etica della punizione.  Essa ci chiede di reagire al male, personalmente e come società, di non essere acquiescenti sapendo neutralizzare anche con la forza chi può fare, e fare ancora del male.
Ma una reazione al male che dal male stacchi, non usandone e producendone altro, non usando o producendo altra violenza. Segnalando e costruendo l’attesa di vita rinnovata.
Notava Carlo Maria Martini come nella colpa sia già insita la pena (la sconfitta, l’umiliazione) e come la colpa comporti una nuova e più grande responsabilità  per riguadagnarsi la vita.
In questa, e proprio per questo, la colpa non cancella la dignità di un uomo, di una donna: resta aperto il cammino verso una nuova nascita, che non potrà non chiedere  dolore. Ma non fare morire la speranza in chi è nella colpa è una attenzione da curare nel dare forma alla pena.
Se nella tradizione carceraria secolare, e spesso nel senso comune, la pena comporta la totale passività e la completa soggezione del detenuto, i recenti ordinamenti configurano una esperienza della detenzione e pene alternative che siano attraversate da attivazioni, da opportunità, da possibili responsabilità assunte dal detenuto verso di sé, verso gli altri. Dentro e fuori il carcere.
Ci può essere spazio per la promozione di attitudini riparatorie, per impegni ricostruttivi di tessuti di convivenza, lacerati dal delitto. Per tornare a scegliere il bene, a giocare la libertà in responsabilità.
Ci vuole, a fondamento di questo, una visione della giustizia non solo commutativa; ed una pratica della amministrazione della giustizia  penale conseguente.
La carcerazione come forma della pena (solo una delle forme di punizione), quella estrema, d’emergenza, inevitabile quando c’è necessità di controllare la violenza impazzita (che senza argini interni ed esterni può farsi disumana e distruttiva), è forma di responsabilità verso la convivenza, verso quanti sarebbero a rischio.
Anche in questo caso però, la punizione deve mirare, faticosamente e in condizioni difficili, al recupero della ragione e della capacità di relazioni buone. Una punizione è etica se marcata è “la sua funzione pedagogica-medicinale”. (C. M. Martini, 2003)
Una funzione, quella richiamata che non può non richiedere un passaggio delicato di confronto e di assunzione del dolore e della sofferenza arrecata ad altri. E della sofferenza e del dolore per sé e per il proprio essere sfigurato.
L’applicazione morale della pena si ha col suo creare condizioni per la trasformazione, per la riabilitazione d’una figura umana per la ricostruzione di trame di relazione nella convivenza sociale.
Per non lasciar morire la speranza.
Di fronte all’ingiustizia in noi nasce il desiderio di “fare giustizia”, è un desiderio da sorvegliare perché non si trasformi in sete di vendetta. La tutela della società, autentica, quando continua a tenere lo sguardo sulla tutela dei più deboli, chiede vigilanza, e determinazione. Pare certamente più ragionevole e produttivo investire sulle capacità di riprendersi che sulla forza coercitiva pura. Senza illudersi di poter evitare il confronto e lo scontro con  le tensioni, pure profonde,  al non voler cambiare, alla distruttività.
Uomini e donne restano mistero a se stessi, anche nella colpa. Ma lo sono anche nella capacità di nuova nascita: per questo il colpevole non va fissato nella colpa, né identificato in essa.
Maturare progressive dissociazioni dal male, imparare a fare il bene è vivere esperienze, nel tempo, in cui sentirsi valore per sé, per gli altri, in cui scoprirsi utili alla felicità di qualcuno, provare il gusto dell’auto determinazione,  e la volontà e  la responsabilità del risarcimento, della restituzione.
Provare debito, sapere che le cicatrici restano, sensibilissime per chi le ha subite e chi le ha provocate. Non dimenticando che chi le porta sempre è la vittima.
“Trasformare la colpa in responsabilità attraverso la pena”, dicevamo sopra, è la direzione per ri-costituire la dignità umana nella situazione della lacerazione. Ed è opera di uomini ben formati, di educatori ed operatori maturi e capaci, di istituti legislativi, di volontà di soggetti sociali, economici, istituzionali.

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61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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