Il caso di Luca Bianchini Luigi Manconi Se per una ipotesi oggi inaudita, ma che non può essere esclusa in assoluto, Luca Bianchini fosse vittima di un errore giudiziario (che so? A causa di un complotto di Rupert Murdoch), il suo diritto costituzionale alla difesa sarebbe stato già irreparabilmente leso dal trattamento mediatico subito. Basti pensare a come lo sguardo invadente delle telecamere abbia già mandato in onda su tutte le tv le pagine più private del suo supposto diario, assicurando così un imponente vantaggio alle tesi accusatorie; e a come il possesso di un “ampio materiale pornografico” sia stato presentato come prova schiacciante. Tanto varrebbe dar fuoco alle edicole. (E tralascio la secolare disputa scientifica intorno al quesito: il consumo di pornografia è fattore incentivante o disincentivante rispetto all’esercizio della violenza sessuale?). Ma qui non si vuole insistere sullo stato desolante in cui versa, nel nostro paese, il sistema delle garanzie processuali: si vuole, piuttosto, tentare di ragionare su cosa possa dirci la vicenda dello “stupratore seriale”. Innanzitutto va chiarito che l’errore di Ignazio Marino non è stato quello di utilizzare, a fini di dibattito congressuale, un episodio criminale. No, l’errore del medico Marino è stato quello di non affrontare il “caso Bianchini” da medico, bensì da politico di professione. Un errore classico di politicismo (tentazione irresistibile in particolare, per chi ha, della politica, un’esperienza recente). Certo, è possibile – eccome – una lettura “politica” di questa crudelissima vicenda, ma su un piano radicalmente diverso, fuori dalla logica ordinaria delle lotticine di corrente e delle colluttazioni congressuali. Da questo punto di vista devo dire di aver molto apprezzato le parole dell’assessore provinciale democratico(già Margherita), Patrizia Pristipino. Nessun tentativo di nascondersi dietro un dito, di ridimensionare la portata della conoscenza amichevole con Bianchini, di occultare la drammaticità della scoperta. Che non è la scoperta di un mascalzone che coltiva una doppia morale: un’esistenza quotidiana e una militanza politica irreprensibili e, poi, un’attività criminale fatta di corruzione e di tangenti, come tanti altri lestofanti, piccoli e grandi, della vita pubblica italiana. Nulla di tutto ciò. Siamo in presenza, piuttosto, di una tragedia umana, che va affidata alla diagnosi (e alla terapia, semmai una terapia fosse possibile) degli specialisti della psiche. Ciò che si può dire, da profani, è che si tratta, va da sé, di una acutissima psicopatologia, espressione di un disturbo della personalità, che rimanda a un vissuto, sul quale è la medicina che in primo luogo deve pronunciarsi, una volta messo l’interessato in condizione di non nuocere ulteriormente. Ma la vicenda dice ancora due cose importanti. La prima: se il quadro caratteriale e relazionale di Bianchini, almeno nei suoi tratti visibili, è quello descritto da quanti lo conoscevano, arriviamo appena a immaginare quali abissi dell’animo e della mente possano celarsi dietro i comportamenti abituali delle persone con le quali intratteniamo rapporti e condividiamo esperienze. In altre parole, quanto sia fragile e incerto il concetto di normalità e come esso possa risultare semplicemente l’abito che si indossa, per consuetudine sociale, a coprire un organismo malato e profondamente sofferente. Insomma, la malattia, la patologia, la mostruosità possono essere componente ordinaria della nostra quotidianità. Seconda considerazione: la mostruosità tende costantemente a mimetizzarsi, a cercare l’anonimato nei comportamenti collettivi e nella vita sociale. Sotto questo profilo, la politica può essere, per un verso, la maschera e per l’altro – azzardo - una sorta di tentativo di terapia da parte del soggetto affetto da patologia. Infine, la lezione più terribile, e, insieme, istruttiva che questa vicenda ci consegna: la politica non può salvarci. La politica può essere un’attività bellissima e appassionante, capace di dare gratificazioni straordinarie e piacere quotidiano. Ma non è in alcun modo in grado di guarirci. Non può salvarci l’anima e nemmeno può cancellare la disperazione quando accade di soffrirne o ridurre il male di vivere, quand’esso ci affligge. Se abbiamo imparato, cioè, che la politica non può dare la felicità, né quella individuale, né quella collettiva (il paradiso in terra, una società di uguali, la liberazione dal bisogno..), dobbiamo anche accettare che essa non può emanciparci dal dolore e dalla malattia. Può, nel migliore dei casi, renderci più consapevoli di tutto questo. E non è poco.
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