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Antigone, vent’anni dopo
Patrizio Gonnella Stefano Anastasia
Vent’anni non sono pochi. Abbastanza per diventare adulti, «poi ti volti a guardarli e non li trovi più». Così succedeva al Buffalo Bill di Francesco De Gregori.
Ma i nostri vent’anni, invece, stanno lì: statuari, immobili, tetragoni, e coprono come una lunga ombra il nostro presente. Solo l’impossibilità della prova contraria (sarebbe andata meglio se non ci avessimo messo le mani?) ci mette al riparo dal prendere in prestito l’adagio del vecchio Bartoli: “tutto sbagliato, tutto da rifare!”.
Vent’anni dopo la nascita di Antigone (“un’associazione per il diritto penale minimo”, sintetizzava un caro amico nei conciliaboli che la preparavano), la popolazione detenuta è raddoppiata, quella sottoposta a misure di controllo penale triplicata, mentre lì a fianco è cresciuto un mondo di privazione della libertà di persone incolpevoli (e neppure sospettate di esserlo), ma giudicate meritevoli di un simile trattamento per solo per il loro status, per la loro incerta (e sgradita) cittadinanza, per le loro lingue, culture e religioni, per il colore della loro pelle. Tremebondi, vent’anni fa, in Parlamento si discuteva dell’introduzione di un regime di isolamento per i capi-mafia: rigorosamente individuale, temporaneo nell’applicazione, addirittura transitorio nella legislazione. Oggi, a ogni stormir di fronda, si invoca quel “carcere duro” di cui politici e giuristi avevano legittimamente timore vent’anni fa. Vent’anni fa un nuovo codice di procedura penale ci introduceva al sistema accusatorio, a una auspicata parità tra accusa e difesa. Oggi (come cent’anni fa) di codici ne abbiamo almeno due, uno per i cafoni e uno per i signori, “uno per i garantiti e uno per i giustiziati” come ripete un altro nostro vecchio compagno di strada. Vent’anni fa la caduta del muro di Berlino aveva illuso molti che lo stato socialeeuropeo ne sarebbe rimasto indenne. Invece la sicurezza sociale è stata soppiantata dalla prevenzione del rischio di vittimizzazione e la tolleranza zero è diventata il nostro pane quotidiano. Lo stato sociale ha lasciato il posto a quello penale e, nonostante galere e centri di detenzione pieni fino all’orlo, siamo tutti più soli e più insicuri. Qui come altrove la destra ha soffiato sul fuoco della paura e della insicurezza, mietendo consensi e potere. Qui come altrove la sinistra ha subìto e condiviso, pensando di cavalcare la tigre ed essendone, invece, divorata ogni volta che al voto gli elettori hanno preferito l’originale alla sua pallida copia. Avevamo ragione noi, quando dubitammo di manifestazioni popolari che invocavano più manette per tutti (o almeno per qualcuno). Avevamo ragione noi, quando denunciammo il piano inclinato del primo “pacchetto sicurezza” voluto dal centro-sinistra al governo. Avevamo ragione noi, quando denunciammo il pregiudizio nascosto nel nuovo diritto penale d’autore, contro i tossici, gli immigrati, i recidivi. Oggi si raccolgono i frutti di vent’anni di cinismo e miopia. Ma se la ragione postuma è la soddisfazione inutile che si dà ai fessi, mettiamola pure da parte e guardiamo avanti, all’insostenibilità del regime repressivo e poliziesco messo su nella crisi dello stato sociale e alla necessità di rispondere altrimenti alle domande e ai bisogni di sicurezza e coesione sociale. Il voto di domenica e lunedì mostra la crisi di un sistema di potere e di una egemonia, variante italiana della rivoluzione neoconservatrice e del populismo europeo. Le risposte non sono già scritte e l’esito non è scontato, ma una parte non piccola la potrà giocare il modo in cui una opzione garantista, dei diritti civili e sociali, dentro e fuori il processo e l’esecuzione penale, saprà disintossicare la politica e il conflitto sociale dalla vertigine securitaria e dai suoi effetti repressivi e claustrofobici. Ai prossimi venti!

Il manifesto 19 maggio 2011
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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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