È ora di parlare di “Rieducazione” fuori del carcere di Luciana Scarcia
Dopo le recenti notizie sulle vicende di corruzione e malaffare nelle pubbliche amministrazioni, lo scioglimento del Consiglio comunale calabrese e, ancora più terribile, l’arresto dell’assessore lombardo per voto di scambio con la ‘ndrangheta, verrà modificata la percezione che il cittadino ha dei fattori di allarme sociale? Si correggerà il modo distorto con cui si guarda alla delinquenza come fenomeno circoscrivibile ad alcune categorie sociali e al carcere come al luogo in cui rinchiudere anime perse? Quanto meno è auspicabile che, per coerenza e vergogna, aumenti l’attenzione verso chi, costretto a dar conto delle proprie azioni criminali, sta scontando la pena in condizioni disumane.
La frequenza e la gravità dei casi di illegalità diffusa e di collusione con la criminalità organizzata pongono l’urgenza di azioni concrete di contrasto che non siano solo di natura giudiziaria (giacché non si tratta solo di ripulire le istituzioni dalle mele marce), né provengano solo dalla sfera politica (per quanto competano in via prioritaria a questa); ma richiedono anche una riscossa culturale e etica, perché è in ballo la tenuta stessa della democrazia. Lo scempio delle istituzioni e la diffusione dell’illegalità non consentono più di circoscrivere il problema a una classe politica corrotta, o ai delinquenti di professione. Per quanto riguarda la prima, dire “sono tutti uguali” non solo è falso, ma soprattutto è un alibi per evitare la fatica dell’esercizio dei propri diritti, giacché la libertà è anche un onere etico e psicologico, e ha un costo: la responsabilità individuale verso la collettività in cui si vive. Per quanto riguarda i secondi (i delinquenti di professione) è sempre più difficile sostenere che si tratti di una categoria a parte da rinchiudere in un luogo lontano, in quanto le motivazioni che inducono alla delinquenza non sono generalmente molto diverse da quelle che animano l’agire degli amministratori, politici, imprenditori corrotti; se si gratta sul fondo si vede che i disvalori sono comuni: il denaro prima di tutto (magari anche il lusso) e il potere, in quanto affermazione (o illusione di realizzazione) di se stessi. Solo che spesso chi finisce in carcere ha l’attenuante di provenire da situazioni di emarginazione e sofferenza sociale. E allora bisogna uscire dall’ipocrisia che il principio della Rieducazione riguardi solo il carcere. L’art. 27 della Costituzione: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” – che intendeva dar vita a un’istituzione penitenziaria che costituisse un tassello della società democratica – insieme agli altri articoli della Parte Ia, delineava un modello di società democratica inclusiva, tale da accogliere anche chi aveva inferto una ferita alla collettività; presupponeva dunque una cornice sociale caratterizzata da valori condivisi, dai quali il comportamento criminale aveva deviato e verso i quali bisognava riorientarlo. Non possiamo certo dire che quel modello di società abbia costituito l’orizzonte entro il quale ha operato il precedente governo, né che quei valori costituzionali risultino oggi efficaci nell’orientare le condotte della maggioranza degli Italiani. Per contrastare il degrado della coscienza democratica non è sufficiente l’affermazione delle regole, ma serve l’adesione convinta a quei valori dai quali le regole discendono; non basta puntare a una maggiore efficienza nei servizi e al ripristino della legalità laddove è stata violata, ma è necessaria una maggiore circolazione di pensiero, insieme a più formazione in tutti i campi. È su questo terreno culturale e etico che c’è molto da fare per tutti. I valori democratici di Giustizia, Libertà, Solidarietà possono ridiventare parole che orientano i comportamenti quotidiani a condizione che ci sia un’intenzionalità educativa da parte non solo degli specialisti del settore, ma anche di chi ha la responsabilità, a tutti i livelli, di trasmettere valori e formare opinioni, senza dare per scontato che siamo una democrazia matura. Quando in carcere si realizzano dei percorsi positivi di recupero, alla base di tali esperienze c’è sempre una riflessione sulle grandi questioni della vita, che a sua volta richiama il riferimento ai valori che tengono unita una collettività. Quello che si impara dal carcere è che serve un esercizio continuo della capacità di scelta tra giusto e ingiusto, tra utile e dannoso, in sostanza tra bene e male. È tale esercizio di pensiero che educa alla libertà e alimenta la coscienza democratica. Ed è questo compito che deve accompagnare la creazione di opportunità economiche e risorse materiali, per ritrovare fiducia e speranza nel futuro.
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