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Rieducazione: parola usurata ma necessaria
Riflessioni sul convegno di Ristretti

di Luciana Scarcia

Va riconosciuto alla redazione di Ristretti il merito di individuare per i suoi annuali convegni di maggio dei temi importanti. Quest’anno la scelta è andata a quello della rieducazione. Questa parola, a lungo oscurata, negli ultimi mesi ricorre frequentemente, risvegliando una punta di amarezza per l’evidente paradosso di tornare attuale proprio in un periodo in cui non solo il degrado delle nostre carceri mette allo scoperto, più di prima, la generale inosservanza del principio costituzionale, ma cresce anche la domanda di sicurezza e di più intervento penale, in un quadro culturale di perdita di intenzionalità educativa.

La storia di questa parola è indicativa del faticoso sviluppo della cultura democratica nel nostro Paese. Ripercorrendone la storia dal ’48 a oggi risulta evidente quanto accidentato sia stato il percorso di recepimento del 3° comma dell’art. 27 nell’Ordinamento Penitenziario: ci son voluti quasi 3 decenni di disegni di legge, commissioni, sperimentazioni per riuscire a voltar pagina rispetto alla normativa fascista e arrivare a una Legge di Riforma dell’Ordinamento: la 375/1975, la cui attuazione però fu pure incerta e parziale, oltre che lenta;  portata a compimento, e completata, solo nel 1986 con la legge 663 (c.d. Gozzini), dovrà attendere il 2000 per avere il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario. Insomma vita difficile e tempi lunghi ha avuto l’affermazione del principio (umano prima che giuridico) che cambiare si può.
Una volta affermata nella normativa la teoria del “trattamento” – questa sì parola brutta, da cambiare –, in essa si sono riverberate le tendenze culturali che si diffondevano in particolare in ambito formativo: da un’ispirazione neopositivista e deterministica, che pretendeva di dare fondamento scientifico agli interventi sul reo, si è passati all’approccio globale multidisciplinare dell’andragogia, basato sulla centralità del soggetto e sulla negoziazione del percorso formativo. L’impressione però è di una acquisizione di tendenze senza rielaborazione né approfondimento (come del resto è accaduto in altri ambiti, vedi la scuola). In ogni caso, i cambiamenti nel modo di concepire la rieducazione si sono sovrapposti a una struttura che segue una logica diversa, quella della sicurezza, che richiede disciplina, obbedienza e conformità al regolamento e che viene solo scalfita dai nuovi orientamenti pedagogici. Mentre questi si traducono in condotte professionali che, al di là dell’impegno di alcuni operatori, tendono a banalizzare le richieste della normativa, ciò che invece resta solido e immutabile è la funzione afflittiva del carcere.
D’altra parte, in questi decenni la parola rieducazione è stata guardata con sospetto o rifiutata anche dalla parte più politicizzata del mondo del volontariato, perché sinonimo di omologazione, o in virtù di un’istanza libertaria, o per rifiuto della pretesa ideologica di fare “l’uomo nuovo”. Il risultato è stato un avvicendarsi di sinonimi ingeneranti a loro volta altra confusione: socializzazione, riabilitazione, reinserimento…
Il convegno di Padova riporta l’attenzione sulla questione; se non ora quando, mi verrebbe da dire.

Da quando mi occupo di carcere (come insegnante prima e volontaria poi) ho sempre pensato che verso questa parola ci fossero troppo poca attenzione e troppa diffidenza, del resto nella società la parola Pedagogia non ha goduto di grande fortuna. Io penso che nella parola ci sia solo un prefisso di troppo: quel ‘ri’ premesso a ‘educazione’ rimanda a una visione “correttiva” dello sviluppo di una persona, mentre (come le teorie del longlifelearning hanno affermato) di formazione c’è bisogno lungo l’arco della vita, per riuscire a interpretare e governare i rapidi cambiamenti del mondo d’oggi; a maggior ragione questo vale per chi come il detenuto sta vivendo il fallimento di una traiettoria di vita, quella criminale. Quindi preferirei parlare di educazione tout court, ma la necessità di fare riferimento al lessico della Costituzione mi pare argomento sufficiente per non perdere tempo in disquisizioni terminologiche. Invece è più utile entrare nel merito e porsi la domanda: educare a cosa? Alla Responsabilità – si è detto nel convegno –, ma responsabilità rispetto a cosa? Giacché non si è responsabili solo delle proprie azioni, ma anche per gli altri con cui si convive, e pure verso l’umanità prima e dopo di noi e, ancora, della Terra.
Giustamente il titolo del convegno di Ristretti: “Il senso della rieducazione in un Paese poco educato” evidenziava il nesso carcere–società, giacché il fine rieducativo della pena può essere perseguito con efficacia se parallelamente la società riconosce come valore la coesione sociale, che oggi è minacciata non solo dalla crisi economica, ma anche dalla mancanza di una direzione ideale o, meglio, di un confronto tra orientamenti ideali diversi, tra diverse idee di mondo. Per contrastare il naturale andamento delle cose, che, lasciato alle urgenze del nostro sistema economico, va inevitabilmente verso una società sempre più discriminante e diseguale, serve un’intenzionalità educativa, che risulta perciò sovversiva. Quanto più sottile è oggi il confine tra legalità e devianza, e quanto più l’illegalità è non già un fenomeno ma un costume diffuso, tanto più la rieducazione deve uscire dai confini del carcere.
Per questo il passo successivo cui deve portare la riflessione del convegno è: attorno a quali valori si intende costruire il percorso di integrazione nella società. Ecco, io vorrei che si tornasse a parlare dei valori fondanti presenti nella Costituzione: Solidarietà e Libertà; che si trovassero le parole per ridefinirli oggi, in questo contesto sociale deteriorato; che non si dessero per scontati i principi della democrazia e qualunque tipo di intervento volto al superamento della funzione meramente afflittiva della pena fosse accompagnato da motivazioni esplicitate.
E chissà, potrebbe anche accadere che in questo periodo così difficile il carcere da luogo del Fallimento (di chi ci vive e delle istituzioni dello Stato) diventi il luogo dal quale la società più ha da imparare.


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Voltaire

 


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