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"Ho visto dallo spioncino gli agenti che lo picchiavano"
Carlo Bonini
ROMA - Ha la pelle nera dell´Africa Occidentale l´uomo che ha visto Stefano Cucchi cominciare a morire in un sotterraneo del palazzo di Giustizia per mano di «due guardie», due agenti di polizia penitenziaria, di piantone alle «camere di sicurezza». Ha i suoi stessi anni, 31. Era stato arrestato dai carabinieri la stessa sera (il 15 ottobre), alla stessa ora, le 23.30, per lo stesso reato (stupefacenti). Ma in un quadrante diverso della città. Tra il raccordo Anulare e Tivoli. La mattina del 16 ottobre, ha visto crollare Stefano sotto due manrovesci al viso. Tra le urla, ha sentito il tonfo sordo dei calci delle «guardie» accanirsi su quel corpo rannicchiato in terra e già fragile. Poi, quando i suoi polsi e quelli di Stefano sono stati chiusi allo stesso schiavettone che dal palazzo di Giustizia li doveva trascinare a Regina Coeli, ha raccolto le sue ultime parole: «Hai visto questi bastardi come mi hanno ridotto?».
In questo incrocio di destini, l´uomo che «sa», si chiama S. Y. (Repubblica, che ne conosce il nome, ha accettato la richiesta del suo avvocato di tutelarne, almeno per il momento, un parziale anonimato), è un clandestino ed è detenuto in una cella del braccio "comuni" del carcere di Regina Coeli. Il 3 novembre, ha consegnato il suo segreto al pubblico ministero Vincenzo Barba. Quattro giorni dopo, sabato 7, nella sala colloqui del carcere ha fissato negli occhi il suo giovane avvocato, Francesco Olivieri, e con una smorfia gli ha confidato la paura di chi ora teme il prezzo di quella verità: «Avvocato, ho raccontato al magistrato una cosa per cui ho paura che ora non mi faranno più uscire di qua».
Olivieri non è ancora riuscito a tirare fuori S. da Regina Coeli. Ieri, ha bussato una prima volta alle porte degli uffici giudiziari per chiedere di sottrarre quel testimone al rischio di una possibile vendetta, di un´intimidazione, perché i segreti, si sa, in carcere durano assai poco. Tornerà a farlo oggi. E ora - nel suo studio di via Tuscolana - promette che non mollerà. «Intanto, sto facendo una colletta per raccogliere il denaro necessario a pagare l´ospitalità della "Casa dell´Amore fraterno". Dieci euro al giorno per poter indicare al giudice almeno un indirizzo in cui disporre gli arresti domiciliari. Poi, comincerà l´altra battaglia. Diciamocelo pure, quella più difficile. La parola di un ragazzo di colore accusato di spaccio contro quella di uomini in uniforme».
Parliamo dell´uniforme blu degli agenti della Polizia penitenziaria, se i ricordi di S. non zoppicano. Almeno due. I due in servizio alle camere di sicurezza del palazzo di Giustizia, la mattina del 16 ottobre.
Alle celle di piazzale Clodio, S. arriva di buon mattino, intorno alle 9. Scende i 20 gradini che dal piano stradale di via Varisco portano ai sotterranei. Supera la pesante porta in ferro laccato, blu cobalto, annunciata da due targhe di ottone («Camere di sicurezza»; «Dap - Nucleo di Traduzione e piantonamento uffici giudiziari»). Quindi si accomoda, da solo, in una delle quindici celle che affacciano sul corridoio che le divide. La sera prima, in un anonimo appartamento nella zona dei giardini di Tivoli, in una di quelle case che i nigeriani normalmente affittano a clandestini trasformati in "cavalli" per spacciare roba da marciapiede, i carabinieri lo hanno buttato giù dal letto per poi infilargli le manette. I militari trovano 13 grammi di eroina, 5 di marijuana, un bilancino di precisione. Per S. non è la prima volta. Insomma, quelle gabbie del Tribunale già le conosce (è stato arrestato per stupefacenti una prima volta nel 2006, per poi essere assolto in appello). E ora, dunque, attende la "chiama" per l´aula delle direttissime. Stefano Cucchi è nella cella di fronte alla sua. Anche lui è solo. Anche lui è stato consegnato dai carabinieri alla polizia penitenziaria sulla soglia della porta blu cobalto. Anche lui è lì per droga. Anche lui aspetta. Poi, accade qualcosa.
S. non sa dire che ora fosse («Tarda mattinata», dice l´avvocato Olivieri nel riferirne i ricordi). Verosimilmente, prima delle 12.35, quando Cucchi entrerà nell´aula del suo processo per direttissima. Ma S., ricorda perfettamente cosa sente. Cosa vede. Il silenzio del sotterraneo si anima all´improvviso di urla. Le urla di Stefano Cucchi. S. si precipita allo spioncino della porta blindata che chiude la sua cella. E - per quello che riferirà prima al pubblico ministero e quindi al suo avvocato - vede quel ragazzo dal fisico esile «trascinato nel corridoio dalle guardie». «E´ andato al bagno» e ora, a quanto pare, non vuole rientrare nella sua cella. I due agenti della polizia penitenziaria - prosegue S. - lo colpiscono al volto. Stefano Cucchi crolla in terra. I due finiscono di dargli una lezione a calci. Quindi «lo trascinano» nella cella chiudendosi la porta alle spalle.
S. ritrova Stefano a fine mattina. Dopo il suo processo per direttissima. Anche lui non è stato fortunato. Il giudice ha rinviato il dibattimento al 18 dicembre e disposto che venga "tradotto" a Regina Coeli. Quando rientra nei sotterranei, Cucchi e già lì. E questa volta i due vengono sistemati nella stessa cella. S. ora può vedere i lividi che gonfiano e macchiano il volto di Stefano. Gli agenti della polizia penitenziaria gli chiudono i polsi allo stesso schiavettone, il guinzaglio con cui devono essere caricati sul furgone diretto al carcere. Stefano gli sussurra una parola all´orecchio: «Hai visto questi bastardi come mi hanno ridotto»?
S. ha visto. Forse non tutta la violenza di quel mattino. Forse solo l´inizio e non la coda, se dovesse trovare una qualche conferma l´ipotesi che di "lezioni" Cucchi ne riceva dai suoi custodi della Penitenziaria una prima e una dopo l´udienza del suo processo. Ma ha visto. E ha deciso di non dimenticare.
La Repubblica 11 novembre 2009
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