Cella 211. Commento di Luigi Manconi Questo Cella 211 di Daniel Monzón (Spagna 2009), ora distribuito in Italia dalla Bolero è un gran bel film: quello che un tempo – quando si era piccini – avremmo definito “all’americana”. Trama intensa, talvolta mozzafiato e action, molta action. Nonostante le apparenze, non è un film sul carcere: è, piuttosto, una bella storia criminale, ambientata in un penitenziario. E fa venire in mente un formidabile e inquietante thriller di qualche tempo fa, Il fine ultimo della creazione di Tim Willocks (Mondadori, 1995). In Cella 211, tanta azione, come si è detto, una violenza sempre immanente e sottilmente avvertita e talvolta dispiegata; e, soprattutto, un clima costante e soffocante di sopraffazione tra custodi e custoditi e tra custoditi e custoditi. Un vero e proprio prison movie, dove tutti i fattori si ritrovano perfettamente combinati, ma dove, accanto all’impronta “americana”, la sceneggiatura e la regia sono capaci di ricorrere alla finezza psicologica e alla complessità dei caratteri, proprie del cinema europeo. Prendete un film come The Castle (2001) con Robert Redford, una vera e propria battaglia medievale dentro una prigione militare, e affidate la regia non a Rod Lurie ma, che so, a Mimmo Calopresti: e avrete Cella 211. L’ambientazione carceraria spiega e legittima l’efferatezza di atti e comportamenti, ma consente allo stesso tempo di vedere come in quel microcosmo da incubo si riverbino le tensioni e le lacerazioni che attraversano la società esterna, quella dei liberi. In Spagna, il film ha avuto un notevolissimo successo di pubblico e ciò si deve, in primo luogo, a quanto si è detto a proposito della forza drammaturgica del racconto. Ma forse c’è una ragione più profonda. Mentre in quel paese l’esperienza della detenzione politica è durata fino alla metà degli anni ’70 e continua per la minoranza basca, rendendo il carcere per così dire familiare, in Italia non è così da sessant’anni. E qui la popolazione detenuta è oggetto di un processo di rimozione: viene sottratta allo sguardo pubblico, direi occultata, perché la sua eventuale visibilità può turbare. E può turbare proprio perché ricorda a chi è (momentaneamente) libero che il male e il bene non sono nettamente separabili l’uno dall’altro, col semplice ricorso a un muro che si vorrebbe invalicabile. E intanto, proprio nelle ore in cui a Roma si presentava il film spagnolo, nel locale carcere di Rebibbia il diciannovesimo detenuto, dall’inizio dell’anno, si toglieva la vita.
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- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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