Ombre insignificanti della città |
Il carcere non rinchiude che una parte, a volte una piccola parte (resta senza autore, impunito, almeno un 85% dei furti, ma restano non perseguiti molti crimini in percentuali significative). Lo sa bene il detenuto, lo sa bene ognuno di noi. Le violenze, le illegalità, le omissioni colpevoli, il peso dell’ingiustizia sociale e dell’iniquità che fanno sistema, che pesano sulle vite più deboli e indifese, pongono questioni cruciali: della corresponsabilità, della tutela della società e delle debolezze, della promozione d’una diffusa coscienza di resistenza al male e all’ingiustizia.. Coscienza di resistenza al male che sostenga gesti di condanna, di indignazione di fronte al crimine, in ogni sua forma; e di presa in carico delle vittime, di iniziativa sociale e politica. Tutto questo rende più complesso, delicato il pensare e l’operare nella direzione della ‘risocializzazione’. Come il pensare e il praticare le forme diverse della pena. Non farlo rischierebbe di produrre un “effetto di insignificanza, di nascondimento e di immunizzazione morale”. Effetto pericoloso e pervasivo. L’insignificanza sociale dell’esperienza carceria, (del suo portato di dolore e di svelamento) potrebbe (anzi può) esprimersi anzitutto per esclusione. In una pratica d’esclusione sociale attraverso un rinforzo dell’istituzionalizzazione e con la creazione (culturale, e nei processi comunicativi oltre che nelle strutture) di una sorta di “detenzione sottovuoto” punitiva, sanzionatoria, segnata da ritorsione. Finalizzata a rassicurare i cittadini. E al confermarli nel loro essere senza colpa alcuna, quindi immuni e senza responsabilità. Ma a questa insignificanza per esclusione potrebbe aggiungersi anche un’insignificanza per inclusione. Già la registriamo negli atteggiamenti e nelle scelte nei confronti delle diversità, dei deficit, delle devianze. Attorno a queste situazioni sociali e a queste condizioni di vita si può produrre un’intensa attività assistenzialistica, appoggiata su riferimenti normativi, tesa all’omologazione, alla delega a iniziative sociali e volontarie, all’inserimento-contenimento sociale. Un’assistenza che poco o nulla modifica nelle funzionalità costituite (nell’organizzazione del lavoro, o nel sistema formativo, …). Anche dal carcere si può pensare di uscire “per via assistenzialistica”, per far tornare, dopo la “correzione” e per via integratoria-assimilatoria, in una convivenza sociale che resta intoccata. È una via assistenzialistica che lascia del tutto ‘confermata’ la società nei suoi meccanismi e sistemi di vita, nelle sue culture e nelle pratiche dei suoi membri. E che reinserisce in un “pieno di significati”, neutralizzando domande, dubbi, ripensamenti. Non restano spazi per nuovi sguardi sulle ombre delle ingiustizie diffuse, e sulle ombre che ogni donna e ogni uomo porta in sé. Un carcere è luogo della città, non esterno ad essa: ne rappresenta un punto di contraddizione e un luogo di rigenerazione e ri-valorizzazione del vincolo sociale, del tessuto di valori, della storia e del desiderio di futuro che la rendono, la città, abitabile. Se la città nascondesse l’ombra che dentro porta, se non si confrontasse e non reagisse contro le ombre che l’attraversano “impunite”, essa vedrebbe scemare la sua capacità d’essere abitabile, specie per le vulnerabilità, le debolezze, le fragilità esposte. Che nessuno possa dire in essa: “io non esisto più per nessuno”. Qualunque cosa abbia fatto. Che nessuna famiglia si trovi lasciata sola, e “reietta”, a sostenere il peso della carcerazione di un suo componente. Donne e uomini detenuti non sono solo destinatari di un intervento giuridico, ma sono persone che continuano a poter offrire, di nuovo e ancora, contributi significativi alla società. Entrare (a lavorare, a ricercare, a studiare progetti in un carcere è esperienza che invita anzitutto a un atteggiamento pensoso: a un buon uso della ragione, all’attenzione alle dimensioni e alle condizioni della dignità umana, a una progettazione attenta della riapertura di storie e di rapporti, nel tempo. Con attenzione: è uno dei luoghi sociali in cui ciò che si gioca, si gioca una volta per tutte, in cui gesti, scelte assumono densità. Lì si ha la forte percezione che ne va della vita, come davanti al nascere, al morire. Al darsi in pegno, reciprocamente, la vita. Come quando ci leghiamo, ci congediamo, quando consegniamo o attendiamo la vita. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
- Michela e le altre
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