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Gran Canaria. L’ultima emozione

Nat75

Ore 10:00, apro un occhio e allungo la mano verso il comodino alla ricerca del fumo e delle cartine, è un gesto istintivo che ripeto da ormai quasi 30 anni, credo che prenda vita attimi prima che io sia cosciente. Per quanto le cerchi non riesco a trovarle, non so come, ma le ho scordate in giro da qualche parte, così chiamo Gianni e gli chiedo di portarmele, ma lui fa di meglio, viene e me ne porta una appena fatta. Resto sdraiato sul letto altri 10 minuti e, mentre faccio qualche tirata, con la mente anticipo la giornata che mi attende, poi finalmente mi alzo, mentre dalla cucina Gianni mi dice che è pronto il caffé e mi ricorda che entro le 13:00 dobbiamo fare un paio di telefonate; per fortuna c’è lui a ricordarmelo, altrimenti chissà a che ora me ne sarei ricordato!

Gianni e io ci conosciamo da quando avevamo 25 anni, 20 anni or sono per l’esattezza. C’incontrammo per caso in uno dei locali della bassa Padana. Si trovava in compagnia di alcuni miei amici, anche loro, come me, alla ricerca di evadere dalla monotonia di quel paesino attraverso l’assunzione di qualsiasi sostanza capace di trasportarci il più lontano possibile dalla realtà delle nostre vite, vite troppo uguali a quelle dei nostri padri per appartenerci: grigie, invariate, basate esclusivamente sul lavoro e la famiglia, assediate da responsabilità e doveri. Per anni andai avanti lasciandomi trasportare dal tempo, e dall’idea fissa che un giorno tutto sarebbe cambiato, ma senza rinunciare per un solo momento alla libertà di sperimentare nuove e intense sensazioni insieme ai miei amici. A quei tempi, era l’eroina a farla da padrone, le droghe sintetiche erano ancora lontane, e la cocaina si trovava solo in certi ambienti, nel nostro era ancora una chimera. Nel frattempo lavoravo, e tra un’avventura virtuale e l’altra trovai il tempo per innamorarmi e sposarmi. Con mia moglie i primi anni fu ok, sapeva essermi complice, senza farsi troppo coinvolgere, ma dopo la nascita di nostra figlia, il suo atteggiamento cambiò radicalmente, ciò che prima era normale diventò tabù, e così la vita coniugale che conducevo iniziò a starmi troppo stretta, a soffocarmi.

Da tempo indossavo abiti che non erano miei, il rapporto con mia moglie oramai era in crisi, se non c’eravamo ancora separati era solo perché entrambi aspettavamo che uno dei due si decidesse a fare il primo passo, e poi avevamo una figlia di 6 anni, andavamo avanti per dovere e codardia, tra noi ogni tanto c’era del buon sesso, ma l’amore, quello che agli inizi ci aveva travolti, era morto da tempo. Così andammo avanti per un po’, fino a che tutto si concluse definitivamente il giorno in cui ritirammo i risultati delle mie analisi sulla HIV. Lei era incinta. Di quel momento ricordo solo l’attimo in cui, con un rapido gesto protettivo, le sue mani strinsero il suo ventre, mentre nel silenzio una lacrima scese in gran fretta giù dai suoi occhi, a presagire quelle che di lì a poco sarebbero venute abbondanti. Non ci furono parole, il viaggio di ritorno lo facemmo nel più totale dei silenzi. Ero sconvolto.

Nei mesi successivi aspettai solamente la nascita di nostro figlio per sincerarmi delle sue condizioni di salute. Per nostra gioia nacque sano come un pesce. Non vedendo più ragioni per continuare a vivere in famiglia, durai un altro paio d’anni andando e venendo a mio piacimento, fino a che decisi di trasferirmi a Modena, dal mio amico Gianni. Col passare del tempo mi allontanai sempre più dalla mia famiglia, ogni tanto telefonavo per sentire come stavano, ma sapevo che potevano contare tanto sui miei genitori quanto su quelli di mia moglie, sempre molto presenti sin dalla nascita della prima figlia, e di sicuro io ho approfittato di questa sicurezza per andarmene, senza provare tanti rimorsi.

In breve tempo tra me e Gianni nacque una solida amicizia, e insieme incominciammo a crearci una vita diversa, fatta di sogni, viaggi e forti emozioni, lui voleva scappare dalla monotonia che entrambi caricavamo sulle nostre spalle da troppe generazioni, io invece volevo solo scappare da me stesso, stare in movimento, mantenere il cervello confuso e annebbiato con qualsiasi sostanza esistente. Negli anni ’80, di HIV ho visto morire tanti amici cari uno dopo l’altro, l’informazione era minima e confusa, l’unica certezza era che si moriva in poco tempo e in modo penoso, e io non volevo morire in un modo così squallido, se ciò doveva accadere volevo che fosse vivendo alla grande, e nutrendomi di forti emozioni.

Iniziammo col fare qualche piccola storia di fumo e Extasy. Facevamo viaggi verso l’Olanda a rifornirci, e là vivevamo settimane folli in modo sregolato andando da locale in locale, poi di nuovo in Italia a vendere come pazzi, agli inizi in Padana, poi in gran parte dell’Italia settentrionale. In breve tempo eravamo diventati fornitori ufficiali del 60% di tutti i Rave che si organizzavano nel nord del paese. Lui alternava la nostra attività d’import export con dei lunghi viaggi di piacere a Gran Canaria, e ogni volta che tornava, non vedeva l’ora di ripartire, veniva in Italia solamente per fare i soldi necessari a mantenere le sue vacanze. Passava delle ore a raccontarmi le meraviglie di quel posto. Adorava quel paese spensierato, mi parlava della gran voglia di vivere che avevano tanto i Canarii come i turisti che frequentano l’isola, e non perdeva occasione per ricordarmi che là conosceva le persone giuste, persone che facevano proprio al caso nostro, l’ideale per sparire per un po’ dall’Italia, e allo stesso tempo guadagnare soldi divertendosi e prendendo il sole.

Ci mise poco a convincermi, così, senza pensarci oltre, partii con lui a conoscere la sua oasi e ad innamorarmene perdutamente anch’io. Facemmo qualche business di media portata, giusto per rendermi conto delle potenzialità del luogo. Quando un po’ di tempo dopo lui tornò in Italia, io rimasi là, prigioniero di quell’incantevole luogo e della mia insaziabile linfa vitale. Restammo in contatto, ogni tanto lui veniva da me in vacanza, mentre altre volte durante l’anno ero io a tornare a Novellara. Anche se non lavoravamo più insieme, non ci siamo mai persi di vista, e andammo avanti così fino a pochi mesi fa, quando un nostro amico residente in sud America ci contattò, proponendoci di rimettere in piedi la nostra vecchia società e così, eccoci qua, di nuovo insieme a dare vita all’ennesima avventura, come ai vecchi tempi.

Ore 11: 00. L’isola ha già ripreso vita, mentre sorseggio il mio caffé ancora in mutande, mi affaccio al balcone e, come ogni mattina, resto affascinato dall’oceano che si intravede dietro le montagne. «E pensare che dalla finestra più alta di casa mia a Novellara non si vede altro che terra e alberi» dico a Gianni arrivato in quel momento. «Nebbia permettendo» mi corregge lui. Qui con una vista del genere non posso che sentirmi padrone del mondo, ed è proprio per provare emozioni del genere che sono scappato dal mio passato.

Gianni è già pronto per andare a Playa de Mogan, una spiaggia molto gradevole, un tempo frequentata da pescatori, ma oramai divenuta meta turistica. È qui che andiamo ogni giorno a bere il primo drink della giornata, il cielo è limpido e la temperatura è alle stelle. In momenti come questi spesso mi tornano in mente i miei vecchi amici là a Novellara, e provo pena per tutti loro, li vedo rinchiusi dentro le loro case totalmente avvolte dalla nebbia, con i riscaldamenti accesi, i mutui, le loro mille preoccupazioni e le loro abitudini: la domenica pomeriggio, a passeggiare a braccetto con le loro mogli per i centri commerciali, ripetendo a se stessi che sono felici, che le cose funzionano bene, fino a che non s’imbattono nell’offerta di qualche agenzia di viaggio, che offre 6 giorni su un’isola da sogno chissà dove, lontano da tutto ciò che li soffoca. Ma, mentre loro sognano, io vivo, non saprei dire se durerà di più il loro fantasticare o la mia bella vita, ma adesso, oggi, in questo preciso momento, io sto vivendo intensamente il mio sogno, e anche se non so quanto durerà, per me è più che sufficiente, perché quando il futuro è incerto, il presente è tutto quello ci resta.

11:35. Montiamo in macchina, guida lui, io ancora mi devo riprendere dalla notte appena conclusa, e pensare che ci sono andato leggero, ho preso 2 extasy e non più di 2 grammi di coca (gli spinelli non contano), niente di scandaloso, sicuramente sarà stata la tequila mischiata con il rhum a farmi venire questo maledetto mal di testa.

Andare verso Playa de Mogan mi mette sempre di buon umore, quel susseguirsi di montagne che costeggiano il mare, i gabbiani, il vento nei capelli, la radio che suona uno dei miei brani al momento favorito, la spensieratezza contagiosa che emanano i turisti: è qualcosa d’indescrivibile.

Arrivati a Playa de Mogan ci rechiamo al bar di Massimo, un italiano 55enne che anni fa, intuito il pericolo rappresentato dall’abitudine di tutti i giorni, scappò dallo stress della grande città, venendosi a rifugiare qui, e inventandosi una nuova vita. Arrivò qua 25 anni fa, con una valigia e una 24 ore, da una parte le mutande, lo spazzolino e tutti i suoi sogni, dall’altra i risparmi leciti e non, che aveva accumulato in anni di scorribande. Adesso ha una casa su due piani a 100 metri dal mare, una bella moglie, due bambine di 8 e 13 anni e un bar che va alla grande. Se era stata una scommessa l’aveva vinta, e sotto certi aspetti in alcuni momenti io lo invidio.

Domandiamo di lui, ma come al solito non c’è, è ancora a letto a smaltire la festa della sera prima. Tanto per non venire meno alle buone abitudini, ci beviamo due o tre cuba libre, mentre buttiamo via 4 o 5 mila pesetas nei video poker, nell’attesa di andare a mangiare una bella zuppa di pesce, tipica della zona. In Italia si scandalizzano per via che alcuni baristi pagano illegalmente i ticket vinti con del denaro, qui il problema lo hanno risolto, facendo pagare le vincite direttamente alle macchine.

13: 00. Prendo la macchina e guido per 10 minuti in direzione di playa de Tauro, e mi fermo alla seconda cabina telefonica che trovo: un paio di telefonate, la prima di lavoro, per sentire se è tutto a posto, la seconda di puro piacere, entrambe mi soddisfano, così, non avendo altro da fare, ritorno al bar a prendere Gianni per andare a mangiare al Puerto Ventura.

Finito di mangiare, e dopo aver bevuto un bicchierino di rum tipico dell’isola vado in bagno, e mi faccio una tirata di coca, sentire il sangue che mi scorre, il cuore che batte, e l’aria che filtra nei polmoni mi fa sentire più vivo che mai, è il massimo dopo una buona mangiata: la ciliegina sulla torta.

14:30. Facciamo ritorno al bar di Massimo. Finalmente si è alzato, appena ci vede ci viene incontro a braccia aperte, indossa un paio d’occhiali tondi da donna per nascondere le occhiaie, in testa ha uno strano cappello di paglia e in bocca una canna di marijuana che profuma da Dio, ci prepara due cuba libre e ci racconta un paio di nuovi pettegolezzi del posto, poi prima di andarcene ci mettiamo d’accordo sull’ora d’inizio dei festeggiamenti, e ci congediamo.

16:00. Andiamo sulla spiaggia al Chiringuito di Paco a bere un paio di drink e a vedere chi c’è in giro. Il Chiringuito è una specie di capanna fatta prevalentemente in legno, Paco ne ha fatto un ritrovo sulla spiaggia dove si beve, si mangia e si ascolta musica fino all’alba. Dopo un po’ ritorniamo a casa. L’inquilino del primo piano mi strilla «Ei, italiano, che pasa con el televisor lo compras o no?» me ne ero completamente dimenticato, gli avevo detto non venderlo ad altri che lo avrei preso io, così gli dico che domani pomeriggio passerò a prenderlo.

Natalì, la mia ragazza, di ben 12 anni meno di me, mi telefona e mi dice che gli esami all’università vanno alla grande e che non vede l’ora di essere con me, in settimana sarebbe arrivata; prima che riattacchi le ricordo di portarmi due bottiglie del mio vino preferito.

Alle 19:25 Gianni mi dice che siamo in ritardo. In fretta e furia ci avviamo verso Las Palmas. Pochi chilometri prima di arrivare squilla il telefono: «Pepo, Pepo, la policía arrestò Luis en este momento» E’ Maria, la moglie di Luis, un canario che lavora con noi, tra lacrime e urli mi dice che hanno appena arrestato il marito, mi chiama Pepo, non ha mai imparato a dire il mio nome; io le domando se in casa è tutto a posto, se è pulita lei mi risponde di sì.

«Allora, chiama subito l’avvocato, rompi la scheda e butta via il telefono! Ti contatterò tramite l’avvocato.»

Io e Gianni intuiamo che l’arresto di Luis è collegato con l’arrivo di Luigi dal sud America, ma non c’è modo di avvisarlo, a questo punto l’unica cosa che si può fare è limitare i danni. Di Luigi mi fido pienamente, mentre del canario… «Non me la sento di lasciare Luigi da solo in giro per l’aeroporto con 8 kg di cocaina». Gianni mi guarda per un istante sorpreso, ci siamo già trovati in situazioni del genere e sempre ne siamo venuti fuori in qualche modo.

«Senti, qui siamo messi proprio male, ma non possiamo mollare Luigi nella merda senza provare a inventare qualcosa».

«Cosa proponi di fare?» mi chiede senza togliermi gli occhi di dosso.

«Tu niente, se è tutto compromesso non ha senso rischiare entrambi, se non mi senti entro stasera tramite Massimo, prendi il largo e sparisci per un po’».

«Smetti di dire cazzate e pensiamo piuttosto che c’è da fare».

Così, con l’adrenalina che sale e scende, decidiamo di andare avanti insieme, accada ciò che accada.

20: 00. Parcheggiate davanti all’aeroporto, oltre a un numero infinito di taxi, ci sono anche molte macchine di lusso con autista a noleggio. Vado a parlare con il primo della fila, gli invento una storia lì su due piedi, cosa non difficile, in fondo a loro ciò che importa è solamente che venga pagata la loro carissima prestazione, cosa che ho fatto in anticipo, aggiungendoci una considerevole mancia d’incoraggiamento. Presi gli accordi, torno in macchina, e Gianni mi domanda se è andato tutto bene.

«L’unico modo di saperlo», gli dico «è aspettare.»

Il piano era che l’autista si avvicinasse al punto prestabilito per prelevare Luigi, con un cartello con su scritto “Amici di Roberto Fornari”, mentre noi, poco lontano da lì, lo avremmo seguito con lo sguardo. Roberto Fornari era il nome del fratello di Luigi, morto pochi anni prima in un incidente, a quel punto lui si sarebbe avvicinato e l‘autista gli avrebbe consegnato un mio biglietto con su scritto il necessario per far capire solo a lui quanto accadeva, dopodiché, una volta in macchina, lo avrei chiamato al numero dell’autista, il quale lo avrebbe condotto senza alcuna fretta verso l’antica cattedrale di Santa Ana, e se tutto andava liscio là lo avremmo prelevato con le dovute precauzioni, altrimenti...

20: 35. E’ ora. L’autista si muove, guida fino all’uscita dell’aeroporto, fa il giro della rotonda posta davanti all’ingresso, rientra e si ferma al punto prestabilito. Scende con il cartello, dalla nostra postazione riesco a vedere Luigi avvicinarsi e parlare con l’autista; quindi prende il biglietto, lo legge e lo strappa; afferrate le valigie, le carica in macchina, dopodichè sale su e partono.

«Sembrerebbe tutto a posto» mi fa Gianni. Ma, non appena l’automobile si allontana dall’aeroporto, tre macchine di colore blu le si piazzano intorno, e poi altre auto e altre sirene accese circondano tutto il perimetro. E’ andata male!

A questo punto niente è più sicuro: prima Luis, adesso Luigi… loro sanno troppe cose, ma quante? La miglior cosa in queste situazioni è comportarsi come se conoscessero ogni particolare: abbandonare la macchina dove non sia subito rintracciabile ed evitare luoghi e persone a noi vicine, ma così su due piedi non abbiamo la possibilità di trovare un’altra macchina, perciò per adesso la dobbiamo tenere.

Mentre ci allontaniamo dal luogo dei fatti, ci rendiamo conto che dobbiamo per forza di cose andare al bar di Massimo, là abbiamo soldi e documenti, che ci sono indispensabili adesso che non possiamo tornare a casa.

21:10. Ci precipitiamo a Playa de Mogan cercando di anticipare le mosse della polizia: più passa il tempo, più sarà difficile poterlo fare. Ci incontriamo con Massimo, gli raccontiamo ciò che è successo, e lui ci dice che Mauro, un nostro amico italiano, è ormeggiato a largo di Puerto de Sardina e potrebbe farci uscire dall’isola per un po’.

«L’idea è ottima», gli dico, «ma non me la sento, io e Mauro non è che ci conosciamo così bene da potergli chiedere un favore così grosso.»

«Ma io sì!» dice Massimo, «siamo come fratelli.» Lo chiama al telefono e parlano per dei minuti, poi rivolgendosi a me: «E’ tutto a posto». Mauro sta già battendo rotta verso Tirma, un paesino sul mare a 35 Km da Mogan, dove ci avrebbe preso a bordo tra non più di 1 ora esatta.

22:00. A questo punto non c’è altro da fare che starcene fuori dalle acque spagnole e restare in contatto con l’avvocato per sapere come vanno le cose. L’ultima cosa che vorrei è compromettere Massimo, lui i suoi casini li ha fatti e li ha anche pagati tanto tempo fa. Senza altro da dire ci congediamo, non prima però di aver fatto una bella tirata di coca, giusto per aumentare l’adrenalina che in quel momento stava toccando picchi che io ritenevo inimmaginabili.

Così ci avviamo, ma non appena imbocchiamo la strada verso Tirma, mi rendo conto dallo specchietto retrovisore che delle macchine appena passate in senso contrario a gran velocità stanno facendo inversione di marcia erano dirette al bar di Massimo e probabilmente hanno riconosciuto la nostra auto passandoci accanto. Aumento la velocità, cercando uno sbocco, una stradina, qualsiasi alternativa pur di non dover andare dritto, ma non c’è neanche una cunetta. Dopo neanche 5 minuti vedo un posto di blocco illuminato come un albero di natale; non facciamo in tempo a fermare la macchina che già veniamo circondati da più macchine della polizia che arrivavano da ogni parte. Sarei voluto scappare e vendere cara la mia pelle, ma non avevo possibilità di fuga.

Sapevo che il canario ci avrebbe tradito, ma avrei giurato che lo avrebbe fatto dopo un paio di giorni… Mi sbagliavo. E’ finita.

Vatti a fidare delle persone…

Ci condannarono a nove anni ciascuno, attualmente ne ho fatti 7, strada facendo ho perso tante cose, denari, amori, amicizie, ma mai la dignità e la maledetta voglia di vivere che mi ha tenuto in piedi durante tutti questi anni, ma che disgraziatamente venne a mancare in un carcere spagnolo una sera di quattro anni or sono dopo appena tre anni di galera al mio caro grande amico Gianni Bentivoglio.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


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a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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