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Ripartenza

Mr. Mag

 

Ci sono momenti nella vita in cui decidi di astenerti. Momenti in cui  sentirsi il protagonista della tua esistenza si fa così insopportabilmente pesante che l'idea di abbandonare le tavole del palcoscenico della vita, ti sembra l'unica soluzione possibile. Così ti siedi in platea, dimenticandoti d'essere un essere pensante, di essere un uomo con emozioni, opinioni, passivo spettatore delle storie d'altri, appena sfiorato dallo scorrere del tempo. Resti in disparte, nelle retrovie, in difesa, cerchi di tenerti lontano dalle umiliazioni, dalle passioni, dal tempo che non ti vede più presente. Stai lì, spiegazzato, ingrassato, lo sguardo livido, sciatto con quell'ispida barba rossiccia vecchia di giorni a scurirti il viso, e i capelli ormai un confondersi di vertigini senza taglio. Sei solo un lontano ricordo dell'uomo elegante, alla moda, un po' eccentrico, che eri. Placidamente rassicurato dal tuo stato d'inerzia orizzontale, guardi la vita fuori, da una finestra, lontana, oltre il muro.

La tua immagine riflessa ti guarda impietosa, nemmeno la sporcizia accumulata sul vetro in anni d'incuria riesce a nasconderti, il tuo presente è lì, ti guarda dritto negli occhi, arriva a vedere fragilità che non consenti a nessuno di conoscere. Una lacrima ti scende lentamente sul viso, un millimetro dopo l'altro, attira l'attenzione dei tuoi sensi, è calda, ne percepisci il gusto un po' amaro nell'istante esatto in cui la vedi arrivare alla bocca. Non sai contare quante l'hanno preceduta e non sai quante altre ne dovrai versare ancora. Una nuova inutile alba, un altro giorno uguale a quelli venuti prima, la malinconia sembra accendersi, nutrendosi di questa luce lattiginosa che inizia ad avvolgere il mondo. Irreale confine tra la notte e il giorno, dove passato e futuro sembrano ancora potersi sfiorare.

Attivi la memoria, cerchi un ricordo, uno qualsiasi che ti faccia stare meglio. Li scorri velocemente uno dopo l'altro, un po' come facevi con il controller del tuo i-pod, ti bastano poche immagini, un suono e vai oltre, al ricordo giusto. Il sollievo, per quanto efficace, purtroppo non dura mai abbastanza, ogni volta forse un po' meno. Dopo un po' il malessere torna a farsi sentire anche più intenso di prima, purtroppo l'hai capito da tempo che non è nel passato che puoi giocare quest'occasione d'essere o non essere, ma è mattina presto, troppo presto per risolvere questo problema...

Nel silenzio che ti circonda, interrotto ogni tanto dal ritmico russare di uno dei tuoi cinque semi-sconosciuti compagni che ti vivono accanto, bevi lentamente un caffè ormai freddo, in un bicchiere di plastica. Le dita, le labbra cercano ogni volta la sensazione piena del vetro, non ti abituerai mai a questo surrogato che inganna profumi e sapori. Così te ne torni a letto cercando di non far rumore per lasciare che la calma che ti circonda, così rara tra quelle quattro mura, duri il più a lungo possibile.

Sdraiato nel tuo letto, il sapore del caffè ti si spegne piano piano in bocca, cerchi di trovare una posizione comoda, impresa difficile su quel materasso ormai esausto per le troppe esistenze passate di lì prima della tua. Ciò nonostante non è quel materasso a non darti pace. Cambi una posizione dopo l'altra, torturi il cuscino, fino a che non ne puoi proprio più e sei di nuovo in piedi.

Hai bisogno di musica, un bisogno primario, senti il frastuono dei pensieri che ti cresce dentro, apri l'armadietto, tiri fuori tutti i tuoi cd, guardi le copertine, scorri l'elenco dei brani, leggi i testi, scegli con cura l'alleato che ti deve aiutare a far scorrere un altro po' di tempo. L'hai trovato, lì c'è quello che cercavi, questa mattina tocca a Ligabue darti una mano. Indossi le cuffie, digiti play, alzi il volume al massimo e chiudi gli occhi, le dita compiono azioni ormai mandate a memoria. Conosci ogni singola nota, ogni accordo, la melodia, come un punteruolo, una canzone dopo l'altra, aggredisce i pensieri peggiori, blocchi di ghiaccio nella mente, li polverizza, delicatamente, lentamente. Respiri in quattro quarti, segui la ritmica del basso, l'assolo di chitarra elettrica ti graffia l'anima, finalmente stai lì disteso, liquido tra le crome di un pentagramma, le palpebre chiuse, gli occhi aperti nell'universo parallelo della tua immaginazione, che nulla ha del grigiore claustrofobico che hai intorno.

La fantasia colora il reale, lo rende sopportabile, castelli in aria in cui ti perdi sin da bambino, ogni volta che il mondo diventa troppo complicato da affrontare. Da solo, in compagnia solo dei tuoi pensieri, non importa dove, ogni posto può andar bene, sdraiato al sole in un campo di grano o seduto dietro la tua scrivania con il viso semi nascosto dallo schermo del tuo computer. Chi non ti conosceva bene, guardandoti perplesso, perso in chissà quali pensieri, ti considerava complicato, chi ti conosceva bene, curioso, e cercava nei tuoi occhi una traccia dell'avventura in cui apparivi immerso. Nessuno ti ha mai chiesto di smettere, anche se non capiva bene il tuo modo di fare e quest'universo, in cui strofinando un pomello d'ottone tutto è possibile, è diventato il luogo dove ricerchi il bandolo della matassa, il tuo rifugio.

Qui dentro, schiacciato da queste mura di ferro e cemento, assediato dal senso di colpa e dalle tue paure peggiori, hai trasformato quel rifugio di castelli di cristallo, fatti di merlature aggraziate, in un possente bastione di pietra scura, che tutto tiene lontano da ciò che senti importante e che vale la pena proteggere. Questo è il tuo fosso di Helm, l'ultima difesa.

 

[....]

Quella mattina, malgrado l'inverno inoltrato, il sole era tiepido, sembrava già primavera, di denaro te n'era rimasto poco e quel poco non potevi più darglielo, eri andato nel suo ufficio, come ti aveva richiesto di fare, tranquillo, diecimila euro la sanguisuga li aveva presi solo cinque giorni prima, pensavi che finalmente ti lasciasse in pace, almeno per un po'. Purtroppo era solo un'altra idea sbagliata, l'ennesima illusione, questa volta era peggio, voleva ancora più soldi, e li voleva subito.

I colpi sul petto sempre più forti, lo sguardo incattivito, ti parla senza alzare la voce, ma il tono non lascia dubbi: sei in trappola, in fondo a una bottiglia a cui stanno per mettere il tappo. Quando gli rispondi che non hai altro da dargli, va oltre: non sei solo tu l'oggetto delle sue minacce, ti parla di tua moglie, di tuo figlio, conosce la via dove abiti, ti dice, ridendo, quello che potrebbe capitargli se non paghi, non fa nemmeno lo sforzo di mascherare la sua minaccia. Quando l'aiutante di quell'uomo si mette davanti alla porta per impedirti d'andare via, la paura t'esplode dentro, la senti invaderti i pensieri, ti scorre nelle vene come un fiume in piena, è ovunque, ovatta i suoni, il mondo si fa nebbia, ti trasforma in altro, in qualche cosa che non conosci, sei diventato l'orso, il tuo soprannome, con tanto d'artigli e zanne, con l'unico istinto di venir fuori di lì.

Avverti un vuoto nella memoria, come se i tuoi occhi stessero vedendo qualche cosa di già accaduto che avresti dovuto ricordare, come se quell'orrore appartenesse all'azione di qualcuno che non conoscevi. Per qualche istante ti sei sentito un estraneo che si stava osservando senza sapere chi fosse e cosa avesse fatto. Hai avuto paura, non riuscivi a capire.... Quei due uomini a terra, l'affanno, la mano destra indolenzita, la camicia zuppa di sudore come se fosse estate, potevi scappare da lì, lontano, è stato il tuo primo istinto, ma ti sono bastati pochi metri con il rumore nella testa del respiro difficile di quegli uomini per tornare indietro, per cercare di rimediare. Più tardi ti diranno che per uno dei due non è servito.

Il dopo è confuso, sei rimasto lì in attesa di non sai bene cosa, hai risposto a delle domande, e dopo qualche ora ti hanno rimandato a casa. Il buco che avevi in testa ti faceva sembrare un ubriaco, incapace di trovare una direzione. Qualche giorno dopo, la notte, nel tuo letto, il suono cupo del primo colpo t'è risuonato dentro la testa come il peggiore degli incubi; ricordavi solo quello, ma è bastato a renderti consapevole, anche senza ricordare come potevi aver fatto, che a lasciare in terra quei due uomini, nel sangue, eri stato proprio tu.

Qualche cosa dentro s'è rotto, sei un uomo normale, perbene, che sa prendersi le sue responsabilità, ma quello che è successo ti ha trasformato in una controfigura di quello che eri, un incapace che non trova più la direzione giusta della propria vita. Vivi i tuoi giorni condizionato da quella minaccia che come una cicatrice t'è rimasta dentro, nel profondo, e da lì ti spinge ad asserragliarti in casa, trasformandoti in una sentinella che un giorno dopo l'altro vigila sui suoi affetti, senza potersene più allontanare. Anche il lavoro è ormai solo un ostacolo, quella scrivania è tremendamente scomoda, ogni cliente un fastidio da cui liberarsi il più in fretta possibile, ci stai sempre più stretto, quello non è più il tuo posto, devi essere altrove, e la scelta di dimetterti diventa facile, anche se non c'è un altro lavoro che ti aspetta. Il rimorso monta un poco alla volta, come un buco nero risucchia speranze, desideri, il calore della vita, ogni giorno sempre un po' di più. Quando ti strappa anche i colori della tua esistenza, resti solo, in un pozzo buio e freddo, pieno solo di un dolore così intenso, da renderti impossibile anche il solo guardarti in faccia. Non pensi ci sia più niente per te, non lo meriti più, il battito del tuo cuore è così fastidioso, non la smette mai, e tu desideri solo che finalmente t'esploda in petto facendo cessare quello strazio.

Ma il cuore aveva altri progetti, ha continuato a battere, sordo alle tue richieste, come se volesse, con la sua ostinazione, ricordarti chi eri e da dove venivi. Ha continuato a farlo anche quando pensavi che un centinaio di compresse per la pressione potessero essere sufficienti a farlo smettere. Le avevi tritate finemente e sciolte nel succo di frutta, di notte, tardi, quando tua moglie e tuo figlio dormivano, così che nessuno potesse impedirti di arrivare fino in fondo. Avevi letto con attenzione il foglietto che c'era in una delle scatole che avevi svuotato, riportava le dosi letali e i loro effetti, il giorno dopo non l'avresti rivisto. Il cuore, però, sa scegliersi gli alleati migliori, quelli che non ti aspetti; così, sdraiato nel tuo letto in attesa d'addormentarti, hai sentito venire verso di te i passetti assonnati di un supereroe, alto poco più di un metro. L'hai sentito scalare il letto per venire a dormirti accanto. Non hai resistito nemmeno cinque minuti: così indifeso non meritava quel dolore, doveva avere il diritto, un giorno, di potercela avere con te. Non sei così vigliacco da sfuggirgli. Sei corso in bagno, ti sei messo due dita in gola e hai vomitato tutto il veleno che potevi. Ti ci sono voluti dei giorni per smaltire quello che era andato in circolo, e hai mascherato il tuo malessere con un'influenza. Qualche giorno dopo hai messo da parte una nuova dose, più forte, di veleno, ma il coraggio per mandarla giù non l'hai più trovato. Nell'attesa hai solo smesso di curarti l'ipertensione sperando che fosse sufficiente non assumere farmaci per non svegliarsi più.

Spezzato, ombra di un uomo, senza la speranza di un futuro: è così che ti hanno trovato il giorno del tuo arresto, in realtà non eri tu il colpevole che cercavano, pensavano che tu sapessi chi era stato ma che una minaccia t'impedisse di dirlo. Hai visto gli occhi dei poliziotti velarsi di rammarico, quando hai confessato, quando finalmente ti sei tolto quel peso dallo stomaco. Non c'è stato nemmeno il bisogno di metterti le manette, chi ti stava di fronte s'era reso conto che ne portavi già un paio che t'eri messo da solo.

Il comportamento della polizia e il tuo ingresso in carcere, con tutto il suo carico d'incognite e difficoltà, forse ti hanno salvato la vita, obbligandoti a trovare la strada per affrontare quel momento che ti aveva segnato il viso, senza rimandi o vie di fuga tipiche del tuo carattere. Tra quattro mura, da solo, spinto da non so quale forza, hai tolto il coperchio del senso di colpa, e hai ricordato. I tuoi avvocati e i periti ti hanno obbligato a non essere superficiale, a cercare i dettagli, anche quando faceva troppo male, ne avevano bisogno per capire, e ne avevi bisogno anche tu. Hai ricostruito molto, tranne gli ultimi minuti, dei quali hai recuperato solo l'immagine di una stanza vuota dal pavimento grigio. Più ricordavi, più il veleno veniva su, non odio verso chi ti aveva fatto del male, veleno verso te stesso che gli avevi permesso tutto questo. Uno ad uno ti sei liberato dei dubbi che avevi in testa e sei arrivato in quell'aula di tribunale consapevole che se fossi stato un uomo migliore non avresti permesso al panico di trasformarti in una marionetta, se non avessi smesso di pensare avresti trovato una soluzione a quella minaccia. E invece sei esploso come un petardo, sfasciando tutto. A quello che hai fatto non si può trovare né rimedio né scuse.

Dovevi pensare, solo quello...

[...]

Ora, mani sui fianchi e piegato dalla fatica, cerchi di recuperare le forze. Vorresti spiegare il tuo stato di pausa, ma non è semplice dire che ti sei piantato a un bivio, dove due strade, che non ti piacciono, s'incrociano. La prima per qualche metro l'hai già percorsa, sotto la spinta costante della voglia di mollare per non sentire più l'uragano che hai dentro, ma hai fatto una promessa a tua moglie e a tuo figlio, hai promesso che da qui saresti uscito integro, sulle tue gambe, e le promesse sei abituato a mantenerle. L'altra strada, facile da prendere, è in discesa, dall'asfalto perfetto, senza curve, una vita senza progetto, fatta d'attesa, sperando che il tempo faccia il suo corso il più in fretta possibile, senza causare troppi danni. Tuttavia anche questa scelta presuppone la rinuncia al tuo essere, la resa senza nemmeno provarci.

Fermo, comodo, nel tuo letto, a guardare il mondo che ti ruota a un palmo dal naso, hai guardato a quell'incrocio senza indicazioni sperando che ci fosse una terza via, nascosta da qualche parte. Una via per riaffermare il tuo posto nel tempo, una via che ti porti a guardare a quell'attimo che ti ha stravolto l'esistenza e a conviverci, forse anche a ripartire da lì per diventare un uomo migliore. Già, farebbe proprio comodo trovarla, già bella e impacchettata, ma non è così che vanno le cose. La vita è cosa complicata, e qui dentro, tra queste quattro mura, da solo, con tante domande in testa e poche scelte, è forse anche peggio. Ti opprime la sensazione che la vita stia passando e tu stia sbiadendo un giorno dopo l'altro, in attesa di riuscire a guardarti negli occhi senza provare disgusto. Devi alzare il culo dal letto prima che anche la forza per montare un sorriso di cera venga meno, prima d'annegare nelle sabbie mobili della malinconia. In vita tua non ti sei mai tirato indietro, il senso del dovere è roba tua, non puoi farne a meno, è così che ti hanno costruito, anche se questa volta fa paura non sapere se c'è un modo per andare avanti. Rassegnarsi al fallimento sarebbe solo un altro dei tuoi tanti errori, devi rimetterti in marcia cercando, sperando che il tuo meglio sia sufficiente.

Una piccola parte di te quel ghiacciaio che hai dentro ha già trovato il modo di muoverlo, piccoli movimenti, che però non puoi ignorare. Ti sei iscritto all'università, il certificato l'hai incollato vicino al letto in modo da poterlo vedere in ogni istante, e quando ti hanno portato i testi, sembrava che volessi nutrirti di quelle pagine sfogliandoli avidamente. E hai scoperto un'altra cosa qui dentro: con una penna in mano e un foglio bianco davanti, la tua vita torna ad affidarsi al vento, ti scorre nelle dita, si fissa con l'inchiostro, e tu esprimi quello che con la voce non ti viene, ti emozioni e il sorriso torna quello di un tempo, morbido, naturale. Chissà se questi sono i primi passi di quella terza via che cercavi, ma per scoprirlo devi alzarti, questo lo sai ancora fare.

Un raggio di sole sembra accorgersi dei tuoi pensieri, rimbalza sul mosaico di specchi che ricopre la porta di fronte al tuo letto, per arrivarti sul viso con il suo calore. La vita intorno a te riprende lentamente il suo ritmo, un caffè appena fatto ti viene offerto, fumante, accompagnato da un saluto. Sorridi e ricambi il saluto, inizi a bere, lentamente, gli occhi sono quelli di chi è appena tornato da un viaggio lontano, non si difendono dalla luce. Ligabue ti canta: "vivere è un atto di fede mica un complimento".

Sei in piedi, ti guardi allo specchio, sei grato al tuo corpo, ti ha portato fin qui, ma ultimamente l'hai maltrattato un bel po', hai guance troppo tonde, anzi tutto è troppo tondo. Fai un passo verso l'armadietto, senza pensarci troppo ne tiri fuori un paio di calzoncini e una maglietta a caso, e li indossi. Tra gli sguardi incuriositi, provi qualche esercizio, di atletico certo c'è poco da vedere, ridi di qualche battuta sugli scricchiolii della tua schiena, allunghi i muscoli più che puoi, come a voler eliminare di colpo tutta la ruggine accumulata nei mesi in cui seri rimasto immobile. Non sei ancora uscito dalla cella, è bastato un po' di riscaldamento e hai già il fiatone, il cuore sembra volerti arrivare in gola, ma non ci badi troppo. Segui all'aria la folla dei detenuti podisti. Saltelli per un po' sul posto, prendi confidenza con quel campo polveroso di terra battuta, saltelli un po' più velocemente e finalmente ti metti in moto.

Corri, corri in equilibrio sul filo di rasoio dei tuoi dubbi, corri incontro a un traguardo senza contorni, corri a rimetterti al tavolo da gioco della vita con le poche carte che ti sono rimaste in mano, pronto a sfidare nuovamente la sorte. Corri, il vento sul viso, un giro dopo l'altro, canticchi il ritornello di Never let me dawn again dei Depeche Mode. E sciogli i muri che ti circondano nell'azzurro del cielo. Domani c'è colloquio.

 

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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