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Viatico, non epitaffio

Federico Abati


La trasgressione
Era la fine degli anni Ottanta, ogni idea era una guerra, ogni strada un campo di battaglia. Venivamo dai movimenti di massa degli anni precedenti, imbevuti di ideologie, di consapevolezza delle nostre forze e dei nostri diritti; anche la cultura musicale che veniva dall’estero, sparando a tutto volume le sue rabbie, influenzava, e indirizzava, la voglia di schierarsi: non c’era spazio per la mediazione, e nessuno la cercava. Gli anni di piombo ci avevano solo sfiorati, e molti di noi, nostalgici di quegli anni, cercavano di urlare i loro messaggi con la trasgressione.
Davanti allo specchio mi guardo e cerco di convincermi da solo: devo farlo devo farlo devo farlo. Infilo il pollice in bocca, sollevo la guancia, con la mano destra spingo e infilo quel cazzo di spillone dentro la guancia una volta per entrare e una volta per uscire dall’altra parte; il sapore del sangue mi spaventa più del dolore ma anche la reazione che avrà mia madre mi fa un po’ paura. Però davanti allo specchio il colpo d’occhio è bello: la cresta tirata su con la gelatina, il collare di filo spinato e lo spillone d’ottone – d’oro non me lo potevo permettere –, pantaloni scozzesi  maglietta e anfibi neri: ero un punk sputato, uno di quelli che avevo visto nelle foto di Trafalgar Square, che mi avevano ipnotizzato, liberi sporchi fichissimi.
Aspetto che i buchi smettano di sanguinare con lo sguardo freddo e sicuro – mia madre è uscita – penso di beccare gli altri al laghetto dell’Eur, metro più metro meno è quella la nostra zona.
Scendo dal mio terzo piano popolare al volo, godo al pensiero delle facce della banda – stanno ancora all’eyeliner e ai chiodi ficcati nei lobi – il mio arrivo li schiaccerà.
Ce l’ho quasi fatta ad arrivare alla fermata dell’auto ma da lontano arriva imperiosa la voce di mia madre che mi chiama. Oh cazzo cazzo! mi mancava solo un pelo! Non posso fare finta di niente e vado al capestro a passo di marcia, lei con gli occhi spalancati: «Ma come ti sei conciato!?». Questo è l’esordio. « Papà è appena mancato e questo è il modo con il quale dimostri il tuo dolore? È questa l’educazione ed il rispetto che ti abbiamo trasmesso? Ma non provi nessuna vergogna? Io sì, io mi vergogno di te!».
Le sue parole mi bloccano in un fermo immagine dove mi assento dal mio corpo per vedere la scena che mi circonda: i piccoli negozianti affacciati alle botteghe, la gente ai tavolini del bar che interrompe le chiacchiere, nei loro occhi la conferma silenziosa alle parole di mia madre. Devo dire che, nonostante la corazza di accessori, mi sento un po’ indifeso, l’unica uscita decente che mi resta è il silenzio altezzoso con il quale esco di scena.
Cioè! Pure quella doveva tirare fuori mio padre per colpirmi? Quale dolore, quale vergogna? Ma se è proprio perché mio padre è morto che posso fare come mi pare! Capirai, conservatore fino al midollo mi avrebbe staccato la pelle a frustate – vere! – se mi avesse visto anche solo gli anfibi slacciati. Adesso sono finalmente me stesso, e impunemente perché mia madre non si sognerebbe mai di toccarmi, neanche con un dito.
Salgo sull’autobus e vado; alla svolta di Viale America all’altezza della Spaten Bräu il solito plotone di pariolini allineati e coperti come militari perché solo quando sono ammassati si sentono di valere qualcosa – ma qualcosa che?, un giorno glielo voglio proprio chiedere a uno di questi Monclair, uno a caso, tanto mi aspetto una risposta conforme ed autorizzata dal branco, funzionano così loro! Prima di Viale Beethoven smetto di godermi la curiosità di uomini, donne e bambini e scendo, sono abbastanza carico per fare la mia parte.
Tra la fauna festiva ed occasionale del laghetto cerco il mio gruppo: spicca sul pratino ordinato una macchia nera e scomposta, eccoli lì, lo stereo a palla, si muovono frenetici mentre invece Gioacchino e Marinella sono sdraiati e pomiciano soli al mondo, una chiazza di bottiglie di birra e di alcolici gli arreda quest’isola.
La prima che mi mette a fuoco è Ursula, smette di ballare e mi salta addosso: «Ma sei uno schianto cazzo! Stai proprio una favola così!». Gli altri, chi più chi meno, fanno finta di niente, ma ingoiano amaro vedendola avvinghiata: lei è un po’ il sogno di tutti, bella, bionda e imballata di soldi, non si è mai schierata completamente dalla nostra parte e non è per niente facile farsela, insomma è un frutto proibito.
Sulla scia di questo nuovo potere me la porto appresso, dico: «Sully, ti va di rimediare qualcosa da bere?».
Lei mi fa: «Sì, ma prima andiamo a scollettare!». Ursula se lo potrebbe comprare in contanti un supermercato, ma le piace una cifra chiedere i soldi alla gente, provocare la borghesia dell’Eur con la sua bellezza sporca.
Seguiamo il bordo del laghetto, una tappa per ogni gruppo di persone, giovani, vecchi, lei non se ne fa scappare uno, anche il più improbabile. Alla fine anche questo è un gioco per chi cerca esperienze.
Ecco che siamo arrivati nel raggio d’azione della truppa dei pariolini e lei li punta come un missile teleguidato: dentro di me lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe successo, avevo accettato le mosse di Ursula e quindi anche le conseguenze. Con arroganza incosciente inizia a beccare uno per uno i primi che incontra, io la seguo sempre più in tensione. “Ti prego, ti prego, non farlo succedere! Non adesso. E soprattutto non con me!”. La mia preghiera silenziosa non viene ascoltata, vedo nello stesso tempo un movimento sulla destra e lei con le mani sulla fronte che urla, ai suoi piedi una moneta da 100 lire: «Vi bastano, pelosi di merda?», si premura il lanciatore.
Io mi dico: “E adesso, cacciatore di esperienze, che fai?”. Lei inizia a sfanculare e a minacciare, come se fosse due metri per due, io devo per forza agire, tiro un calcio in faccia al più vicino, la prendo per il braccio e: «Via, via, corriii!». Neanche io sono due per due e penso che se solo uno di quella cinquantina ha avuto la pensata di portarsi appresso la pistola siamo fatti tutti e due, in fretta e senza chiasso, su quel pratino ordinato e assolato di un sabato qualunque; mentre corriamo vedo negli occhi della gente che sorpassiamo il desiderio di trovarsi da un’altra parte e la consapevolezza che quel parco stava diventando un piccolo inferno. Spero solo che lei ce la faccia, che non ceda, il nostro scatto iniziale ci ha dato un po’ di vantaggio sugli altri, ma è giusto giusto quello che ci serve per arrivare nelle nostre retrovie; da lontano vedo il nostro gruppo e urlo, urlo. Non è possibile che siano così fatti da non vederci! Una biondissima vestita di nero e un tipo come me, inseguiti da un codazzo di gente incazzata, non passano inosservati! Infatti ecco Bengi che sveglia gli altri e tutti insieme prendono le bottiglie, i pezzi di legno a portata di mano e ci vengono incontro come angeli vendicatori.
Adesso è tutta un’altra cosa: una banda di punk in azione fa paura solo a pensarla, a vedersela davanti è terrificante se non ne fai parte; io invece mi sento un dio perché io sono quella banda! Andiamo a cozzare di brutto noi e loro, mi aspetto un inasprimento graduale dello scontro come al solito, ma capisco che non sarà così quando prendo nello stesso tempo due mazzate, una alla spalla sinistra e una al polso destro, in quella mano tenevo un collo di bottiglia che adesso mi si è piantato nella coscia. Mi tiro in disparte un po’ scioccato, ma non sento né dolore né paura, allora mi ributto dentro, ci sono un sacco di sirene della polizia tutto intorno a me, si vede che stavano già nei paraggi in attesa di caricare i cellulari, con noi naturalmente. Mi vedo già lì dentro, posso solo fare in modo di arrivarci intero e allora devo menare più che posso, dove capita.
Sento una voce fuori dal coro, ansiosa: «Fede, sono qui. Corri!». Mi giro verso la Colombo, la strada sopra di me, e vedo mia sorella che si sporge dal parapetto e si sbraccia per farsi vedere da me. Non sto lì a domandarmi quale strana serie di coincidenze l’abbia portata lì, in quel momento; lei e la sua macchina sono la mia salvezza. Mollo tutto e corro quei quaranta metri che non finiscono più, salgo le scale, arrivo al marciapiede, lo sportello è aperto, imbocco dentro e partiamo di corsa.
Lei sta piangendo, è tesa. Anch’io adesso vedo dall’esterno il casino che c’è là sotto, penso che il colpo d’occhio farebbe effetto a chiunque. «Sei un disgraziato! Sai che dolore gli avresti dato a papà se ti avesse visto? E a mamma cosa le racconti adesso? Guarda come ti sei ridotto!». Io, sul morbido sedile, nella sicurezza da tutti i pericoli che ho scampato mi guardo la gamba destra, i jeans intrisi di sangue indurito… Penso che non lo so se mi va ancora di fare questo gioco.


La vita comoda

È proprio vero che il tempo ti fa guardare le stesse cose con occhi diversi.... Adesso ho 20 anni e, anche se mi sento complice della mia adolescenza piena di ansia e nebbia, ho fatto pace con la vita: stare fuori dai binari non mi aveva portato a niente e mi aveva costretto a dare ragione alla mia famiglia che spingeva per darmi un futuro adeguato alle sue aspettative. Adesso sto cercando di farlo: mi sono sposato con una donna benestante e abito all’Infernetto, una zona borghese di Roma, a dispetto del nome.
Non è un altro quartiere, è un altro mondo rispetto a quello dal quale vengo, un mondo da fumetti: tutte stradine in terra battuta bordate di pratino all’inglese, che entrano nella pineta di Castelporziano e portano a una serie di ville monofamiliari. Visto dall’alto, sembra una cartolina panoramica di Hollywood: tante piscine, tanti campi da tennis, ma neanche una persona a usarli. Sono venuto ad abitare qui grazie alla benevolenza di mio suocero che per spianarci la strada, e per tenerci d’occhio, ci ha regalato un villino su un terreno adiacente al suo.
Lavoro io e lavora mia moglie, tutti e due grazie all’affettuosa intercessione di mio suocero che non ha potuto evitare di mobilitare le sue conoscenze per renderci indipendenti, dagli altri. Ho 20 anni e, prima ancora di iniziare a muovermi, sono già arrivato!
Pochi giorni fa, tornando dal lavoro trovo Lucia ad aspettarmi fuori del cancello di casa dei genitori: l’atteggiamento è impaziente, di chi deve parlare di cose serie; neanche mi fa scendere dalla macchina che mi comunica: «Aspetto un figlio». Era quello che mancava per completare il quadretto della famigliola felice, ma la cornice inizia ad andarmi un po’ stretta. Le chiedo di rifletterci bene, lei ha 23 anni, io 20: «Senti, per quello che mi riguarda... non mi sento pronto a fare il padre, e penso che avremmo dovuto parlarne insieme prima... Tu che ne dici?».
Questa domanda legittima le precipita addosso come un’accusa, lo vedo da come le si incrina il sorriso, quel sorriso che le si era formato nell’attesa del mio salto di gioia. Il mio primo istinto mi porterebbe ad abbracciarla, ma il retaggio di valori che, anche non volendo, mi è entrato nel sangue mi urla dentro che non ho ancora imparato a gestire la mia vita e non potrei gestire quella di mio figlio. Con quella domanda avevo portato in superficie le mie paure e gliele avevo messe davanti.
Lei, forse, nelle mie parole vede solo un rifiuto e corre dentro casa dei suoi. Io rimango lì sul vialetto a pensare che forse dovevo essere meno brusco: insomma cerco di prepararmi un discorso riconciliatore per quando si sarà calmata. Dopo un po’ esce di nuovo e, con passo militare, mi si piazza davanti e dice: «Abbiamo deciso che le tue paure sono ingiustificate e io voglio essere madre, voglio un figlio da te e lo voglio tanto che sono disposta a fare a meno del tuo consenso». “Abbiamo deciso...”, poiché, certo, non aveva usato il pluralis maiestatis, capisco subito che si è consultata con il padre e che almeno metà del suo discorso non è suo... e forse me lo dovevo aspettare; ma quello che veramente mi raggela è l’ultima parte... Rimango senza parole, nella consapevolezza che non vuole un figlio da crescere insieme, ma ha già pianificato tutto senza di me... e quindi non mi ama.
Il peso di questo ricatto dei sentimenti è troppo, sento la terra che cede sotto i piedi e tutta la frustrazione che mi darà scegliere tra la vigliaccheria di abbandonarla con nostro figlio da crescere e la vigliaccheria di rimanere sapendo quello che adesso so. È meno doloroso rimanere, per questo figlio che verrà, per farle tornare il sorriso di prima, e anche per non abbandonare questa vita comoda.

Comincia per me un brutto periodo, mi sento inadeguato come futuro padre e cerco di compensare con il sesso, provo a essere almeno un buon marito e dalla risposta che ricevo sento che le mie attenzioni hanno successo. Mi butto sul guadagno, trovo un secondo lavoro per portare più soldi, comprare la seconda macchina, i mobili nuovi, tutti quegli accessori che pensavo mi avrebbero gratificato.
Ma presto mi accorgo che le cose non vanno. Un giorno mio suocero entra per due volte di seguito in casa nostra mentre siamo a letto, senza neanche bussare (lei era stata così premurosa da lasciargli il mazzo di chiavi di scorta) e io devo ricacciare indietro la mia rabbia davanti all’assenza di reazione di lei, che squisitamente nuda fa gli onori di casa. Quello stesso giorno inizio a pensare che la situazione è quanto meno strana, che c’è troppa confusione di ruoli... ma non voglio diventare morboso.
Qualche sera dopo, rientro dal lavoro stanco morto, parcheggio davanti al nostro cancello e do un’occhiata alla casa: sa di deserto. Certo mia moglie starà in casa dei suoi, che faccio: la raggiungo o no? Non vorrei essere importuno e poi non mi va di rischiare il confronto con quel Dio-padre. Che solitudine questa casa, triste e disordinata: da quando sta in aspettativa per maternità si sente in vacanza e fa tutto in modo approssimativo. Quando torna mi incazzo. Lavoro tutto il giorno per trovare questa accoglienza..... Oh, non vorrò mica fare la parte del marito che brontola, dopo che lei magari ha passato una bella giornata serena con la sua famiglia, nel suo ambiente? No, non farò scenate, non voglio che faccia il confronto tra l’illuminismo dei suoi e la cafonaggine del marito... La prenderò con eleganza, tanto mi sto abituando a sorvolare, su tutto...

È nata nostra figlia. Il travaglio è stato doloroso per mia moglie e umiliante per me: dopo aver fatto insieme il corso di preparazione al parto, mentre accompagno le sue contrazioni tenendola per mano, lei a un tratto mi caccia via dalla sala parto: «Mandami papàà! Non ce la faccio più... Ho bisogno di lui!».
Le mando il padre e mi metto in un angolo a guardarli... È vero, mi dico, lui è un medico, il rapporto padre-figlia è molto forte, il dolore del parto può giustificare qualsiasi reazione della gestante... Ma è vero pure che cercare sempre di capire gli altri sta diventando davvero pesante... So che mia moglie non starà mai con me come sta con il padre.
Gli sguardi impacciati dell’ostetrica e delle sue assistenti mi stanno facendo ingoiare in modo amaro quella che doveva essere l’esperienza più bella della mia vita; avevo sempre pensato che generare un figlio fosse il connotato principale dell’essere umano, la tangibilità della sua esistenza, ma in quel momento non provavo niente, ero solo stanco, di tutto.
Dopo la nascita della bambina comincio a verificare che i miei dubbi iniziali sono fondati: tra me e lei c’è una figlia che vuole affetto, tempo e spazio. All’inizio ero orgoglioso della nostra creatura, dell’approvazione di chi ci stava intorno; adesso sento la mancanza di qualcosa, forse proprio di quell’affetto, di quello spazio che non sono più miei.
Adesso ha 4 mesi, ho lottato per imparare ad amarla, ho dovuto cancellare tante leggende dentro di me sull’amore paterno e sull’istinto protettivo, ho dovuto costruire il mio rapporto personale con mia figlia giorno per giorno, tra mille sbagli, senza nessuno cui fare riferimento, un lavoro vero e proprio. È diventato un piacere tornare a casa la sera, pregustare il nostro incontro, pensare di prenderla in braccio e farla divertire. Credo che anche lei incominci a capire chi sono.
Un giorno la trovo nella culla che sorride a mio suocero, lui la vezzeggia dicendole: «Sì, piccola mia, fai un bel sorriso a papino tuo, brava!». Non mi ha sentito arrivare, sta parlando di se stesso dicendo “papino”, con un tono che lascia capire che non è la prima volta.
Sto diventando vedovo di mia moglie e di mia figlia.
L’orrore di questa scoperta comincia a macinarmi tutto intero: si può sostituire l’amore di una moglie con quello di un’altra donna, ma mia figlia non la posso sostituire...
Il giorno dopo non vado a lavorare, torno nel mio quartiere, dai miei amici che avevo dovuto allontanare perché troppo lontani dalle nuove frequentazioni indotte dal cambio di casa e dalla vita coniugale. Quasi tutti si erano innamorati della droga del momento, l’eroina, ed erano felici. E io sono venuto qua perché voglio innamorarmi anch’io.


La lotta

Finalmente il pilota aveva dato l’annuncio che stavamo iniziando la discesa e l’avvicinamento alla pista: 4 ore di volo, 3 fusi orari, l’eccitazione e la paura mi avevano stancato, la copertura che mi davano le ripetute dosi di eroina, nel bagno dell’aereo, cominciava a scemare, si affacciava sempre più alla mente la consapevolezza del rischio di quello che stavo facendo, della mia missione. Ormai non potevo tirarmi indietro, l’aeroporto “Ben Gurion”, nella periferia di Tel Aviv, era là sotto. Dopo qualche giro di attesa l’airbus A300, un elefante mai visto, si era allineato e, quasi sul velluto, aveva toccato la pista; stavolta il pilota se l’era meritato tutto l’applauso liberatorio di noi passeggeri, era stato un volo perfetto e fortunato: decollo, atterraggio e poche turbolenze in quota.
Ero partito pensando non al luogo reale verso cui ero destinato ma alle esotiche atmosfere arabe, nelle mie fantasie pre-viaggio avevo immaginato terminal arabescati, costruzioni a punta, gente barracanovestita ovunque e soprattutto tantissime di quelle fiammelle dipinte che sono le tortuose scritte arabe e che su di me avevano un fascino ipnotico: quelle parole enigmatiche e intraducibili trovate mille volte nei libri e nei film fin dall’infanzia si mescolavano alle Crociate, alle scimitarre, ai nomadi dei deserti, ai palazzi di cento stanze, agli harem, ad Aladino e la sua lampada. Chi non aveva, almeno una volta, giocato al feroce guerriero con lo spadone ricurvo, che doveva salvare la principessa triste, chiusa nella cella più alta del minareto? In realtà l’aeroporto in sé era ancora occidentale e ridimensionava l’aspettativa di mondo misterioso del quale era la porta d’accesso; metteva a loro agio gli ospiti, come se dicesse: sentitevi a casa vostra.
Io non riuscivo a sentirmi a mio agio, ero in ansia per l’eroina che mi ero portato dietro per il mio uso personale, ma soprattutto mi pesavano quei 30 milioni di lire, in dollari americani, che letteralmente mi rivestivano, nascosti dentro le scarpe, nei calzini, intorno alla vita stretti alla cintura, soldi che non potevo certo giustificare come “uso personale” e ancor meno come destinati ai profughi palestinesi. Eravamo nel 1989, in piena Intifada, chi mi avrebbe creduto? Avevo 22 anni e nessuna voglia di conoscere le carceri israeliane.
Come ero arrivato là?
Venivo da Roma, la mia famiglia d’origine, il contesto sociale in cui ero cresciuto e i miei studi mi avevano spinto verso la politica attiva, verso quegli ideali che sentivo miei: uguaglianza, tolleranza, lotta per il diritto di tutti a una vita migliore, contrasto all’oppressione e ai privilegi dei potenti; una politica che faceva, che influenzava gli eventi e nella quale potevo trovare il mio spazio di manovra. In realtà ero anch’io un oppresso: dall’eroina, una dittatura che era piacevole come una simbiosi.
I miei fermenti, iniziati con quelle entusiasmanti battaglie che erano le assemblee nell’aula magna dell’istituto scolastico, attizzati nelle manifestazioni di piazza dalla risposta rabbiosa e ingiustificata dei celerini, con i loro manganelli, erano sfociati negli attacchi ai centri sociali dei movimenti politici diversi dal nostro, diventati un nemico a portata di mano che si poteva colpire a differenza dei palazzi del potere, intoccabili. Questi attacchi in realtà colpivano chi si trovava a passare davanti a questi luoghi-simbolo; punizioni senza criterio a persone, a ragazzi come me, colpevoli e non, che mi avevano turbato e costretto a rimettere in discussione i miei riferimenti. Questi dubbi, condivisi durante le mie frequentazioni, mi avevano fatto conoscere un gruppo di delusi che, come me, aspiravano a cose più elevate, cercavano obiettivi ad alta risonanza per le loro velleità di “portatori di giustizia”. Lo sbocco di varie discussioni e scontri era stata questa missione: invece della guerra combattuta con le armi da fuoco, che a ogni sparo allontanavano la pace, coltivare l’educazione alla democrazia, alla consapevolezza dei diritti, propugnare l’istruzione al posto della distruzione e portare una rivoluzione culturale: dove la cultura latita il potere ha gioco facile nell’opprimere le popolazioni.
In quegli anni gli oppressi per definizione erano i Palestinesi, costretti a vivere negli scarti delle occupazioni ebraiche, che si vedevano rosicchiare, ogni giorno, il loro spazio da sempre nuovi insediamenti israeliani. Questa cosa mi attraeva moltissimo: farmi portatore di un ideale nuovo, nato e cresciuto in un ambiente colto, in un Paese con una civiltà tanto evoluta da poterne esportare un po’ là dove gli eventi tragici di decenni di ostilità e privazioni l’avevano fatta regredire alla pura lotta per la sopravvivenza. Mi sentivo un eroe moderno, in un contesto che aveva un disperato bisogno di eroi. Era gratificante al massimo grado.
Lo scopo del piano era finanziare più famiglie possibile, nel territorio più colpito, la striscia di Gaza, permettere a queste famiglie di avviare agli studi i numerosi figli e crescere una generazione nuova con una coscienza diversa, che avrebbe contaminato quella degli altri, fatta di idee e riflessioni diametralmente opposte a quelle che la vita fino a quel momento aveva insegnato loro. Per ottenere questo risultato servivano tanti soldi, erano l’unico mezzo. Di ciò eravamo sicuri tutti ma non potevamo dirci altrettanto sicuri del loro effettivo utilizzo: saremmo partiti in otto, per un totale di 240 milioni di lire, chi ci avrebbe garantito che tutti quei soldi sarebbero stati usati per acquistare materiale didattico, studio e cultura? In un Paese in guerra, abituato ad affrontare i fucili d’assalto con le pietre, a fermare i mezzi corazzati con barricate di fortuna, la tentazione di comprare armi sarebbe stata forte per molti, addirittura scontato farlo, per altri.
Mi ero accorto che, se anche il dubbio aveva sfiorato tutti noi, questa garanzia non interessava a nessuno, e poi stonava con le nostre aspirazioni, le coscienze che dovevano rimanere pulite a tutti i costi. Dall’Italia avevamo ottenuto, tramite il Consolato, di adottare a distanza un bambino palestinese, uno per ognuno di noi, e ufficialmente andavamo a vedere come se la passava il nostro “acquisto”. Per il resto... non ho mai voluto sapere altro, anzi la mia vigliaccheria me l’ha impedito. Ero un tossicodipendente che tra mille contraddizioni aveva trovato una collocazione, uno scopo. In una vita tanto incomprensibile da farmi paura volevo trovare riposo e coraggio, in una veste che mi rendeva finalmente decente ai miei stessi occhi.


La mia morte


Quante volte si pensa alla morte? Chi non si è mai chiesto, anche oziosamente, cosa vuol dire morire? Ma c’è un momento, un istante preciso, nel quale una persona sa con certezza, in modo ineluttabile e irrevocabile, che sta morendo?
Questo sto pensando stamattina, fine settembre 2000, seduto in poltrona alla finestra della mia stanza d’ospedale; due infermiere stanno rifacendo il letto, bisbigliano tra loro mentre cambiano il lenzuolino assorbente che ho sporcato durante la notte: ho imparato a interpretare tutte le sfumature degli sguardi dopo quattro mesi di ricovero in quel reparto di malattie infettive, tanti pazienti, tante situazioni diverse e tanti sguardi di volta in volta scettici, impazienti, incoraggianti, di simpatia, di rassegnazione e alla fine di compassione. Questa volta la compassione è per me: devo dare un bel misero spettacolo su quella poltrona con una vestaglia da camera che mi cade addosso come uno straccio, del viso è rimasta solo la sagoma del teschio che spinge con i suoi spigoli la pelle sottilissima e gialla; gli occhi in fuori con quell’espressione stupefatta dei malati terminali.
L’Aids mi ha letteralmente spolpato: dopo dieci anni di graduale peggioramento questi ultimi quattro mesi sono stati un veloce colpo di grazia; sono entrato con un’infezione intestinale che, per simpatia, si è portata appresso tutta una serie di altre patologie, ognuna delle quali gravissima presa anche singolarmente.
Il mio corpo e la mia mente avevano lottato con convinzione, alle spalle altre esperienze simili che avevo superato in scioltezza; poi avevo lottato con disperazione contro tutti i segnali che mi spingevano ad arrendermi! Questo mio povero corpo è stato il campo di battaglia di una guerra silenziosa e tragica che mi ha annichilito, non parlo neanche più, anzi non apro letteralmente la bocca così infestata dai funghi che non mi serve neanche più per respirare. L’accesso delle sostanze nutritive, dei farmaci e dei liquidi avviene attraverso un impianto sottocutaneo: un piccolo serbatoio di materiale sintetico con una valvola alla quale sono intubato.
Sotto gli sguardi compassionevoli e offensivi ripenso a una frase che mi aveva detto anni fa una persona, alla quale ho voluto bene, una frase che mi aveva colpito. «Federico», aveva detto un giorno che ero depresso, «ricordati che il valore di una persona non si vede dall’amore che ha saputo dare ma da quello che ha saputo generare». Quella volta quella frase era stata una frustata incoraggiante, ma questa volta, seduto sulla poltrona, mi deprime ancora di più. Sto facendo il bilancio della mia vita, una semplice nota tra dare e avere, e il risultato è triste in maniera desolante: dando per scontato l’affetto di mia madre e dei miei fratelli, che mi hanno visto nascere, per il resto sono solo. La mia donna, che non vedevo da otto mesi, da quando cioè era entrata in comunità, preoccupata dalle notizie frammentarie e ambigue che riceveva dai miei, era venuta in permesso una settimana prima: era entrata indisposta, ed era uscita sconvolta. Il suo pianto era stato così disperato da cancellare in un colpo solo quelle poche speranze che ancora coltivavo, aveva detto: «Ho bisogno di tempo per riflettere». Volevo risponderle che invece io di tempo non ne avevo più, ma sapevamo tutti e due che non ci saremmo più visti. Da una parte ero anche contento di questo: era uscita di corsa prima che le potessi fare più male di quello che le avevo già fatto: sono le persone che ho amato quelle che ho fatto soffrire di più e questo è successo sempre.
Con mia figlia dovrei ricucire uno straccio di rapporto, dopo averla abbandonata a se stessa per tre anni, preso com’ero dai miei mostri personali, ma so di non avere né il tempo né il modo né la forza per farlo e quindi, per mia decisione, deve ricordarmi com’ero quando stavo bene, perciò non la faccio venire. Gli amici poi fanno tutti parte di quel passato che mi ha portato in quella stanza d’ospedale, un passato che voglio dimenticare.
La finestra dalla quale sto guardando si affaccia sul parco dell’ospedale, quegli spazi vuoti dove i pazienti vengono portati a passare il tempo in modo diverso dalla triste permanenza nella stanza, e vedo tanta vita in movimento intorno a quei malati: chissà se i loro conti tornano... Io mi vedo sconsolatamente a terra, sull’altro piatto della bilancia non c’è niente che mi possa riportare su, quel niente che ho io stesso metodicamente costruito: passo dopo passo, giorno per giorno ho creato il vuoto fuori e dentro di me; ero partito da ragazzo a scontrarmi con una vita che pensavo non valesse la pena d’essere vissuta e ho fatto in modo di rendere tale la mia, non sono riuscito a capire il miracolo del vivere, il pregio di una giornata qualsiasi, la bellezza delle persone anche quando bisogna faticare per accettarne i difetti.
Ho rincorso volta per volta simboli, obiettivi, riferimenti, qualsiasi cosa mi desse la sensazione di stare nel giusto, di seguire un principio assoluto; e poi centinaia di volte mi sono scontrato con l’incoerenza mia e degli altri, scoprendo che tutti siamo fallibili e che non avrei mai trovato la famosa guida all’essere uomo. Questa scoperta mi aveva messo davanti un lavoro completamente nuovo, al quale non ero preparato: costruire la mia personalità senza nessun punto di riferimento, sapendo che avrei sbagliato tantissime volte, che sarebbe stato giusto così e che, come tanti altri, non avrei neanche pagato per i miei sbagli. Con questi presupposti avevo incontrato la droga, o forse è la droga che sceglie di incontrarti quando ti vede pronto.
Ora però questa consapevolezza non mi serve più, arriva tardi e a troppo caro prezzo pagata: sono un pozzo di saggezza al quale non si può abbeverare più nessuno.


Epilogo


Da quella stanza sono uscito. Da quella via crucis che sembrava inevitabilmente concludersi con la fine definitiva del mio calvario sono resuscitato.
Nelle mie mani avevo tutta quell’esperienza fatta di sbagli e sofferenze: un bagaglio enorme di conoscenza che faceva di me un dannato uscito dall’inferno per salvare altri dall’entrarci...
Non è stato così, non è successo niente di quello che avevo sognato per la mia rinascita, non sono diventato il nuovo messia per nessuno. Come una cellula cancerogena destinata solo a peggiorare, la mia vita è stata minata a tal punto da farmi rifare gli stessi sbagli, per gli stessi motivi, con l’unica – amarissima – consolazione che ne ero perfettamente consapevole, in ogni istante. Nessuna delle ferite che mi sono rifatto mi ha tolto quel sorriso cinico dalle labbra.
Sono di nuovo in carcere, sarà la trentesima volta che ci ritorno. Sono diventato insensibile, di gomma, questo posto è diventato un’estensione del mio corpo.
Vorrei vivere abbastanza da poter pensare a questo momento terribile con il sorriso distante sulle labbra, quel sorriso che nasce dalla consapevolezza che ormai è tutto passato, che ormai ne sono fuori.
Vorrei avere questa speranza: che quello che sto passando, che la vita mi ha messo davanti per l’ennesima volta e che mi ha costretto ad affrontare, possa servire a qualcosa, a qualcuno; che questa serie continua di fallimenti e risalite non sia solo il mio epitaffio ma anche un viatico, uno stimolo a pensare in profondità per chi entra adesso nel gioco della vita e rischia di farsi schiacciare dalla paura di viverla; che possa servire a chi pensa di sapere tutto e con questa presunzione affronta le cose superficialmente, perdendo dietro di sé tutto ciò che di veramente profondo c’è dentro ogni giornata, ogni persona.
Tutte le volte che mi rimprovero da solo perché faccio gli stessi sbagli o perché ho fiducia nelle persone nonostante le infinite delusioni ricevute, standoci male adesso nello stesso modo della prima volta, mi dico: ancora cerchi la perfezione, la semplicità, la dirittura morale? Non capisci che è e sarà sempre così, che siamo fatti tutti della stessa materia, estremamente complessa, intricata e nello stesso tempo infantile?

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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