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Gli aguzzini in carcere e il carcere come aguzzino
Stefania Carnevale
trascrizione, non rivista dall’autrice, dell’intervento di Stefania Carnevale (Università di Ferrara) nel corso della presentazione del libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone Quando hanno aperto la cella, il Saggiatore 2011

1. Status detentivo e obblighi di protezione
Il libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone trae la sua forza dalla giustapposizione. Nell’avvicinare e riordinare una serie di episodi, anche lontani nel tempo e apparentemente svincolati l’uno dall’altro, emergono similitudini e si scorgono collegamenti. Ogni capitolo apre il sipario su una storia di morte durante la detenzione o a causa della detenzione; e, come il tassello di un puzzle, si annoda agli altri sino a formare un’immagine inquietante, che, per il giurista, solleva numerosissime questioni. Le vicende prescelte, prese singolarmente, potrebbero dare l’impressione di avvenimenti orribili ma isolati. Il loro sapiente accostamento lascia invece emergere un fenomeno diffuso e perdurante: quello dei soprusi perpetrati dallo Stato e dai suoi rappresentanti nei confronti di persone private, a vario titolo, della libertà.
Avere in custodia una persona significa – anzitutto – custodirla: non solo imprigionarla e isolarla; ma anche preservarla ed accudirla. Una riflessione di natura giuridica non può che muovere da questo duplice significato.
Agli apparati dello Stato, che hanno in custodia decine di migliaia di individui, spetta il primario compito di custodirne l’integrità. La privazione della libertà personale implica pertanto un preciso dovere di assicurare tutela al corpo del ristretto, che necessita di rispetto e protezione. Occorre così salvaguardare anzitutto la vita, l’integrità fisica, la salute e la dignità dei detenuti. I doveri dello Stato non si esauriscono però in questo compito, talmente basilare da apparire persino superfluo ricordarlo. Vige infatti l’obbligo di garantire una serie di altri diritti fondamentali di cui la persona in vinculis mantiene la piena titolarità. I luoghi di detenzione, invero, non dovrebbero essere zone di sospensione dei diritti, bensì luoghi di riconciliazione con il diritto, di riaffermazione del diritto, di educazione al diritto. Lo status di detenuto comporta soltanto una compressione della libertà di movimento e, in parte, di quella di comunicazione con l’esterno; ma dovrebbe assicurare al contempo la fruizione di molti altri diritti, tutelati a livello costituzionale e ordinario: al lavoro, allo studio, al mantenimento dei rapporti familiari, al culto, all’associazionismo, alla corrispondenza.
È inutile soffermarsi oggi su questi aspetti, poiché il libro di Manconi e Calderone denuncia la negazione dei diritti primari dell’individuo, narra storie di violenze gratuite, di omissioni di soccorso, di richieste d’aiuto inascoltate, di giustizia negata. Mette insieme però situazioni molto diverse: morti in carcere (durante l’espiazione della pena o nel corso di una custodia preventiva), morti in ospedale, morti nelle camere di sicurezza della polizia, morti in strada. E racconta di decessi dovuti a ragioni diverse, anche se – come si vedrà – interconnesse: c’è il provocare la morte e il lasciar morire; c’è l’usare violenza e il non curare; e c’è, soprattutto, il non curarsi del detenuto.

2. Individuazione dei principali filoni tematici
Per avviare una riflessione giuridica su questi temi, occorre allora dapprima discernere i diversi fenomeni toccati dal volume, per poi metterne in risalto i punti critici e soffermarsi su possibili soluzioni.
Il libro pone anzitutto l’accento sugli aguzzini nelle carceri: la maggior parte degli episodi riportati fanno supporre l’esistenza di morti violente, dovute cioè all’uso intenzionale o sproporzionato della forza ad opera di appartenenti a diverse forze dell’ordine. Ma Quando hanno aperto la cella si sofferma anche un altro fenomeno, che pone problemi differenti: quello del carcere come aguzzino. Si porta cioè l’attenzione sullo sfacelo del sistema carcerario, il cui ormai endemico stato di emergenza rende la pena inumana e reintroduce, surrettiziamente, la pena di morte, comminandola casualmente; o, peggio ancora, somministrandola ai più deboli, ai detenuti fisicamente o pisicologicamente più provati: in carcere il tasso di suicidi è elevatissimo (già 51 dall’inizio del 2011), così come nettamente superiore alla media è quello delle malattie mortali contratte a causa delle degradanti condizioni detentive. Si tratta di una pena capitale affidata alla selezione naturale carceraria, dove si svolge una primitiva lotta per la sopravvivenza.
I due temi, degli aguzzini in carcere e del carcere come aguzzino, s’intersecano poi con quello – trasversale – delle omissioni di cure, o delle cure che diventano a loro volta tortura e causa di morte.
Sono tutti fenomeni diversi, che dal punto di vista giuridico chiamano in causa problematiche differenti. In questa sede, potrò solo sfiorarne alcune.
In effetti, le vicende narrate portano alla luce violazioni sistematiche di una moltitudine di norme del nostro ordinamento, ai più diversi livelli.
Quello costituzionale, anzitutto, dove si consacrano il diritto alla vita, alla dignità e alla salute; dove si prescrive che la pena non può consistere in un trattamento contrario al senso di umanità, si ripudia quella di morte e s’impone un finalismo rieducativo alle sanzioni penali; dove si vieta esplicitamente di usare violenza verso chi si trovi in stato di custodia e si prescrive la punizione dei responsabili; dove si proclama la presunzione di non colpevolezza prima della condanna irrevocabile e dunque si concepiscono limitazioni preventive della libertà come extrema ratio; dove i trattamenti sanitari vengono subordinati al consenso del malato. E il catalogo non esaurisce il novero delle norme costituzionali coinvolte in questa materia, sorretta da una imponente architettura di principi enunciati nella fonte primaria. Si tratta del terreno forse più costituzionalmente sensibile di tutti, dato che il rapporto individuo-autorità qui si fa delicatissimo: perché l’individuo si trova in balia dell’autorità, le è affidato completamente.
Le vicende descritte in questo libro implicano poi una serie di violazioni di norme internazionali (Convenzioni, Trattati), che ribadiscono la tutela di quegli stessi beni e aggiungono, come vedremo, prescrizioni ulteriori. E adombra infine trasgressioni del codice penale, del codice di procedura penale, della legge di ordinamento penitenziario, violazioni di regolamenti, infrazioni deontologiche.

3.  Analisi dei fenomeni: gli aguzzini in carcere
Le vicende riportate nel libro presentano molte differenze. Ma prevalgono sulle diversità i tratti comuni. Alcune costanti vengono evidenziate dagli Autori; ma ve ne sono anche altre sulle quali vale la pena soffermarsi.

1) Un primo dato ricorrente riguarda le caratteristiche del detenuto vittima di violenza e del reato per cui si trovava ristretto della libertà: le morti sospette su cui il libro dirige l’attenzione hanno colpito persone con problemi di tossicodipendenza, o con disagi di natura psichiatrica, oppure stranieri; individui detenuti per aver commesso (o per essere sospettati di aver commesso) reati bagatellari: il furto di una borsa in spiaggia, il concorso in una piccola rapina, lo spostamento di transenne da una strada, episodi di piccolo spaccio.
Gli autori mettono bene in risalto come i processi di stigmatizzazione e creazione del “nemico dell’ordine costituito” varino nel tempo: dall’anarchico cappellone degli anni 70 al tossicodipendente e lo straniero di oggi. Le carceri, del resto, sono sempre la fotografia fedele degli spettri della società. Occorre solo aggiungere che questi soggetti, già emarginati dal contesto sociale, vengono ulteriormente isolati all’interno del microcosmo del carcere mediante il ricorso a due strumenti: l’isolamento e i trasferimenti.

2) L’isolamento, in molte delle vicende narrate, viene piegato a finalità che non gli sono proprie e applicato al di là delle rigide regole previste dalla legge di ordinamento penitenziario. La misura sarebbe consentita solo per ragioni sanitarie, onde evitare contagi all’interno del carcere; o come sanzione disciplinare, a seguito di una procedura rigida e complessa e dietro stretto controllo medico; o ancora, per le sole persone sottoposte ad indagini, su indicazione dell’autorità giudiziaria, per scopi che attengono all’attività investigativa.
Si ha invece la forte impressione che in un grande numero di casi l’isolamento venga utilizzato, fuori dalle procedure e dai presupposti di legge, per indebolire la vittima, occultare prove, agire indisturbati sul corpo del detenuto.

3) Anche i trasferimenti vengono piegati a finalità altre: queste storie parlano di detenuti portati – apparentemente senza ragione – lontano, sempre più lontano, dalla famiglia, dagli affetti.
Il potere di trasferire è uno strumento potentissimo nelle mani dell’amministrazione penitenziaria, fonte di innumerevoli abusi. È il modo in cui la legge lo configura a facilitarne l’uso distorto: la decisione di allocare un detenuto in un istituto o un altro è a totale appannaggio dell’amministrazione penitenziaria, che emana provvedimenti immotivati sui quali non è attivabile alcuno strumento di controllo.
Sulla carta, la destinazione ad un certo stabilimento piuttosto che ad un altro dovrebbe essere guidata dai criteri del trattamento rieducativo: andrebbe accordata preferenza ad istituti prossimi al luogo di residenza del detenuto, così che i contatti con la famiglia - che tanta parte dovrebbero avere nel recupero del condannato – possano mantenersi vivi e costanti. Tuttavia, i trasferimenti sono ammissibili per le più svariate ragioni: capienza dell’istituto, compatibilità con il trattamento individualizzato, motivi di sicurezza, ecc. L’indeterminatezza di queste clausole, unita alla imperscrutabilità dei provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria, configurano il relativo potere come assoluto.
Così, da sempre, il trasferimento è facilmente piegato a finalità punitive, o para-disciplinari estranee agli scopi indicati dalla legge: i detenuti reputati pericolosi, scomodi o fastidiosi vengono spostati altrove, senza preavviso e senza obbligo di giistificare la decisione, ed immessi nel labirinto di “circuiti” differenziati” che – fuori dalla regolamentazione legislativa – disegnano la mappa indecifrabile dell’universo penitenziario.

4) Un altro aspetto che ritorna sistematicamente nelle storie raccolte in questo libro attiene all’apparato di giustificazioni date alle morti sospette: in pressoché tutti i casi, la causa viene identificata in mortali atti di autolesionismo o presunti suicidi, con moltissimi punti oscuri.
E qui i racconti si fanno grotteschi: stando ai resoconti ufficiali, dovrebbe esservi una grande quantità di persone che con frequenza inusitata sbatte la testa contro i muri, i mobili, i cofani delle macchine, si ferisce a morte in punti del corpo difficilmente raggiungibili, si provoca traumi e lesioni mortali, casomai a pochi giorni dall’uscita dal carcere e dopo aver invocato più volte aiuto.
Fa impressione come si usino dei problemi concreti e reali della nostra realtà penitenziaria – l’alto tasso di suicidi e di episodi di autolesionismo – per mascherare violenze: gli aguzzini del carcere si schermano dietro al carcere come aguzzino.

5) Emergono poi una serie di figure che danno l’impressione (forte) di avere il compito di ripulire la scena del crimine, conferendo credibilità a queste giustificazioni. Figure complici, conniventi, chiamate ad occultare: sono i medici. Forse è la cosa più scandalosa da dover constatare: pare che questo compito di giustificare le violenze spacciandole per qualcos’altro, e dunque di trasformare gli omicidi in suicidi, spetti al personale sanitario: figure di garanzia per antonomasia, il cui compito precipuo sarebbe proprio di proteggere i corpi dei ristretti. Eppure, queste storie raccontano di referti non firmati, sottoscrizioni cancellate con pennarelli, ripetute omissioni e corredi di spiegazioni talmente poco plausibili da balzare all’occhio del profano.

6) Un ultimo dato costante che caratterizza queste vicende è la cecità della giustizia, che sembra non voler vedere l’evidenza, non aprire gli occhi su fenomeni inquietanti: quasi tutti i casi riportati di morti sospette sfociano in archiviazioni, proscioglimenti, o in indagini nemmeno avviate.

4. ... e il carcere come aguzzino:
È evidente che in carcere si muore molto anche al di fuori di presunti comportamenti criminosi. Anzi proprio perché in carcere si muore così facilmente, il confine fra casi di morti naturali e provocate è così opaco.
I due temi, degli aguzzini del carcere e del carcere come aguzzino, sono perciò strettamente connessi, anche perché condizioni disumane di detenzione producono comportamenti violenti.
Non è possibile in questa sede soffermarsi compiutamente su quella che è stata definita  «l’utopia della rieducazione», perseguita dalla legge di ordinamento penitenziario in attuazione dei dettami della Carta costituzionale. La disciplina predisposta dalla legge del 1975 era (e per molti versi appare tuttora) fortemente improntata al recupero del reo, mediante un intenso “trattamento” intramurario e il massiccio ricorso a misure extramurarie. La pena, e quella detentiva in particolare, dovrebbe tendere alla risocializzazione del condannato per mezzo di attività lavorative, ricreative, culturali e grazie al supporto di specialisti quali educatori e psicologi. Il carcere dovrebbe configurarsi come sistema “aperto” e permeabile al mondo esterno, tramite visite, colloqui, permessi; e prima possibile dovrebbe lasciare spazio a misure alternative, in modo che il problema della pena non sia rimosso ma la sia società intera a farsene carico: la pena detentiva non mira neutralizzazione, bensì al reinserimento del detenuto.
Ma si tratta di un sistema che, negli anni, ha perso molto dello spirito originario: numerosi ritocchi normativi hanno segnato una forte deviazione da quel modello. Probabilmente perché si tratta di un sistema troppo costoso, in termini economici e sociali: recuperare implica sforzi molto  maggiori che neutralizzare. E presuppone naturalmente, come pre-condizione di base, che nelle carceri vi sia quantomeno lo spazio vitale. Non è così: in carcere manca lo spazio, manca il personale, mancano le risorse, le attività, il lavoro, le medicine. Più le carceri si stipano di detenuti, meno c’è spazio per il diritto e per i diritti.
Eppure il legislatore continua a puntare sul carcere: la risposta ai comportamenti devianti si affida sistematicamente alla repressione penale, le sanzioni si vanno inasprendo, di fronte ad ogni episodio che desta allarme sociale si reagisce introducendo limiti alla fruizione dei benefici penitenziari... e in carcere non ci si sta più.
Ci sarebbe invece un nutrito numero di alternative su cui puntare, che non sono alternative alla pena, ma alla detenzione: lo Stato ricorre ad altri modi per punire; non rinuncia pertanto alla sanzione penale, ma decide di sanzionare in modo diverso. E anche più efficace dal punto di vista del recupero, come dimostrano le inequivocabili statistiche in materia di recidiva.
Invece la tendenza degli ultimi decenni è la ipercarcerizzazione; il sovraffollamento è pertanto dovuto a precise scelte normative, sulle quali non mi vorrei soffermare a lungo, perché sono spessissimo denunciate: la ex Cirielli che inasprisce pesantemente la condizione dei recidivi; la Fini-Giovanardi che si accanisce contro i tossicodipendenti; tutta la legislazione sull’immigrazione, che pullula di fattispecie incriminatrici; l’ingigantirsi del catalogo dei reati ostativi, cioè quelli che precludono l’accesso alle misure alternative e di quello dei reati che impongono un necessario passaggio in carcere, anche se poi la misura verrà plausibilmente concessa; infine il moltiplicarsi dei casi di arresto obbligatorio in flagranza, che implicano una grande quantità di transiti di breve durata negli stabilimenti penitenziari, spesso seguiti dal rilascio.

5. Alla ricerca di possibili soluzioni
Di fronte a una situazione così intollerabile, il giurista avverte fortemente la necessità di individuare possibili soluzioni. Cercherò di dare qualche spunto a riguardo, cominciando dal secondo filone tematico, quello del carcere come aguzzino. Anche se i problemi sono qui macroscopici, appaiono paradossalmente più semplici da risolvere, poiché le cause dell’emergenza sono facilmente identificabili.
Non si tratta di problemi irrimediabili: le soluzioni sarebbero a portata di mano. Se non è possibile investire finanziariamente sul sistema carcere, se non si vuole perseguire un diritto penale minimo, se si ritengono inaccettabili i provvedimenti di clemenza, allora occorre quantomeno ripensare alle norme che sono causa del sovraffollamento: ne ho appena menzionate alcune che hanno avuto effetti dirompenti.
Circola un bel disegno di legge, ad iniziativa Antigone, A buon diritto e altre importanti associazioni - ma sottoscritto anche dell’Unione delle camere penali - che, chirurgicamente, asporta dal nostro ordinamento le norme responsabili della situazione attuale. Introduce anche le così dette liste di attesa, fondate sull’idea (anticipata dalla Corte costituzionale tedesca) che se il carcere offre condizioni detentive disumane i nuovi ingressi sono ammessi solo a fronte di un corrispondente numero di uscite. Se la riforma tratteggiata da questo progetto giungesse ad approvazione, si avrebbero immediati benefici e pochissimi danni sul sistema dell’esecuzione penale.
Se non provvede l’Italia, saranno gli organi sovranazionali ad imporre una svolta. Da anni le nostre condizioni carcerarie sono oggetto di critiche da parte del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. Di recente, la situazione italiana è anche finita nel mirino della Corte Europea per i diritti dell’uomo, che con la sentenza Sulejmanovic del 2009 ha qualificato il trattamento carcerario subito dal ricorrente come «inumano e degradante». Il libro verde della Commissione europea ha appena avviato una riflessione sulle condizioni detentive nei paesi dell’Unione, dove l’Italia è seconda solo alla Bulgaria per tasso di sovraffollamento.
Anche sul piano interno, qualcosa si sta muovendo: una storica decisione del Magistrato di sorveglianza di Lecce del giugno 2011 ha per la prima volta concesso un risarcimento patrimoniale ad un detenuto che, mediante lo strumento del reclamo, lamentava la disumanità dell’esecuzione della pena: spazi angusti, pochissime possibilità di movimento, nessuna attività rieducativa. È una decisione importantissima, che forse aprirà la strada ad una pioggia di reclami, con obbligo di risarcimento da parte del Ministero della Giustizia.

Le soluzioni alla seconda questione, quella degli aguzzini in carcere, sono forse più complesse da individuare. Un primo, fondamentale, passo da compiere sarebbe non negare l’esistenza del problema: ammettere che esiste non significa screditare le forze dell’ordine. La polizia penitenziaria, in particolare, svolge un lavoro preziosissimo all’interno delle carceri. Gli agenti sono le uniche figure costantemente vicine ai detenuti ed esercitano un ruolo primario nell’opera di rieducazione; sono sottodimensionati, mal retribuiti e pagano un prezzo altissimo in termini di vite umane: il tasso di suicidi per questa categoria professionale è drammaticamente elevato e sono centinaia le aggressioni subite annualmente da chi lavora in carcere. Va inoltre riconosciuto che alla polizia penitenziaria e al personale sanitario si deve la vita di moltissimi detenuti: nel 2010 sono stati sventati più di 1000 tentativi di suicidio e si è dovuto porre rimedio a più di 5000 atti di autolesionismo.
Occorre partire da questi dati, che danno la misura della regola. Una regola che, tuttavia, conosce delle eccezioni. Attuare meccanismi di rimozione e negare questa evidenza nuoce, più che giovare, all’immagine dei diversi corpi di polizia.
Il tema, dal punto di vista giuridico, richiama quello dei limiti, piuttosto evanescenti, all’uso legittimo della forza. A riguardo, può essere utile porre l’attenzione su disposizioni che ci sono e su disposizioni che mancano; perché anche dai pieni e vuoti normativi emergono figure riconoscibili.
La legge di ordinamento penitenziario dedica a questo tema una specifica disposizione (art. 41 OP): l’uso della forza è ammesso solo quando è indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, impedire tentativi di evasione o vincere la resistenza, anche passiva, agli ordini impartiti.
Parrebbe una previsione severa, tesa ad arginare il ricorso alle maniere forti. Ma, a ben vedere, contiene clausole piuttosto indeterminate e flessibili: prevenire atti di violenza; vincere la resistenza, anche passiva, a un ordine. È evidente che la legge legittima in modo piuttosto ampio l’uso della forza.
Significativi sono i silenzi del diritto vivente: nei repertori giurisprudenziali mancano decisioni che segnino con maggiore precisione i limiti di questo potere. Sembra che su questa disposizione le corti non abbiano avuto occasione di pronunciarsi.
Un’altra presenza normativa da rilevare è l’art. 53 del codice penale. Si tratta di una scriminante, ossia di una previsione che giustifica e rende non punibili i pubblici ufficiali che usino armi o altri mezzi di coazione fisica, quando vi sono costretti dalla necessità di respingere una violenza, vincere una resistenza, o impedire alcuni gravi reati. Ci si trova nuovamente di fronte ad un contenitore piuttosto ampio, che si presta a legittimare uno spettro esteso di comportamenti violenti. La Corte di Strasburgo, da tempo, tiene d’occhio queste clausole a maglie larghe: il supremo obbligo di tutela della vita, pietra angolare del sistema dei diritti inviolabili dell’uomo, imporrebbe agli Stati previsioni molto ben determinate e fortemente restrittive.
Secondo alcuni, l’art. 53 c.p. è addirittura una norma superflua: probabilmente avrebbero potuto bastare altre scriminanti, come la legittima difesa o lo stato di necessità. Eppure, si è preferito predisporre una disposizione in più, calibrata sulle specifiche esigenze delle forze dell’ordine.
Il nostro ordinamento contempla quindi norme che creano una rete di protezione per il pubblico ufficiale che faccia uso della forza. Questa scelta può essere senz’altro condivisibile, ma lo diventa meno quando, al contempo, si omette di introdurre una fattispecie di reato ad hoc per i pubblici ufficiali che abusino della loro condizione di potere infierendo – come aguzzini – sulle loro vittime.
Alludo al reato di tortura, che le Convenzioni internazionali ci imporrebbero di introdurre, ma che l’Italia rifiuta ostinatamente di prevedere. Questa perdurante negligenza appare molto significativa, specie di fronte ad un diritto penale sostanziale affetto da gigantismo: il fatto che manchi proprio il reato di tortura ha il sapore di una precisa volontà di non perseguire i comportamenti devianti delle agenzie di law enforcement.
Anche in questo campo qualcosa si sta muovendo: nel giugno del 2011 la Camera si è impegnata a predisporre con la massima urgenza un disegno di legge volto ad introdurre il reato di tortura nel nostro codice penale (seduta 8.6.2011). Si tratterebbe di porre rimedio ad un ritardo più che ventennale; allo stato, non sembra che il Parlamento intenda mantenere questo impegno.
Ancora una volta, una spinta in tale direzione potrebbe arrivare dagli organismi europei: nel caso Sarigiannis contro Italia (aprile 2011) la Corte Europea ha accertato la responsabilità di alcuni agenti della Guardia di finanza per trattamenti inumani e degradanti perpetrati a danno di due cittadini francesi che, per essere identificati in aeroporto, erano stati portati a forza in una stanza di sicurezza e, a fonte di qualche resistenza, malmenati in modo del tutto sproporzionato. La Corte analizza accuratamente i criteri di «necessità» e «proporzione» che devono reggere il legittimo uso della forza, ritenendoli non integrati nel caso di specie. È un importante precedente perché la nostra legislazione non allude al criterio di proporzionalità.
Sempre fra le novità recentissime, va segnalata l’imminente approvazione un codice etico per gli operatori penitenziari. A giugno del 2011 il gruppo di lavoro incaricato ha licenziato un testo, dove si insiste sulla centralità del detenuto e della sua dignità, nonché sulla necessità di contrastare ogni abuso della forza o di mezzi di coercizione fisica. Questa nuova fonte normativa ha già suscitato reazioni negative da parte di qualche sindacato di polizia penitenziaria, che l’ha tacciato di essere superfluo e pleonastico; l’impressione è che gli obblighi deontologici abbiano creato un certo disagio.
L’introduzione del reato di tortura, l’interpretazione rigorosa della scriminante sull’uso legittimo della forza e il varo del codice etico del personale penitenziario potrebbero sortire significativi effetti deterrenti e facilitare la repressione dei comportamenti devianti.
Ma è possibile immaginare anche altri rimedi, traendo spunto dalle storie narrate nel libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone.
Sarebbe anzitutto auspicabile qualche ritocco alla disciplina dei trasferimenti dei detenuti: i continui abusi dello strumento renderebbero opportuna l’introduzione di una qualche forma di controllo sui provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria. Una via percorribile potrebbe essere quella di imporre una stringata motivazione sulla decisione di trasferire, avverso la quale potrebbe invocarsi, con lo strumento del reclamo, l’intervento del magistrato di sorveglianza.
Anche il sistema di comunicazione con i parenti dei detenuti andrebbe perfezionato. L’art. 44 OP impone che del decesso del ristretto occorra dare immediata comunicazione ai congiunti. Ma gli episodi documentati nel libro farebbero ritenere indispensabile l’aggiunta di un art. 44 bis, che imponesse di dare immediata comunicazione anche delle gravi condizioni di salute del detenuto, casomai con la possibilità di concedere un colloquio extra. Si tratterebbe di un importante passo avanti verso l’umanizzazione della pena.
Forse occorrerebbe anche incrementare i sistemi di videosorveglianza all’interno delle carceri: in molti casi, la videoregistrazione tratta dal circuito interno allo stabilimento penitenziario si è rivelata uno strumento di prova determinante. D’altro canto, il rimedio andrebbe ad erodere quei frammenti di privacy ancora concessi ai detenuti, che vanno tenuti cari.
Pare allora preferibile puntare su altri modi per rendere il carcere trasparente. Il più importante è l’introduzione di figure come il Garante dei diritti dei detenuti. Sperimentato a livello locale, attende un riconoscimento dalla legislazione nazionale, che ne chiarisca e ne uniformi i poteri. Su questo organo si dovrebbe scommettere, con convinzione, per evitare situazioni come quelle descritte nel libro. A patto che il suo ruolo non venga costruito come puramente simbolico, limitandolo alla (pur rilevante) opera di sensibilizzazione e divulgazione sui problemi del carcere. Perché rappresenti un efficace strumento garanzia, occorre definire, per legge, l’estensione dei suoi poteri, quali il diritto di accesso al carcere, in qualunque momento e senza necessità di autorizzazione da parte del Direttore e la possibilità di contatti liberi e segreti con i detenuti. Facoltà, queste, già riconosciute dalla legge di ordinamento penitenziario, ma che sono destinate a cadere nel vuoto se l’istituzione dei Garanti non viene imposta a livello di normativa nazionale. Una disciplina efficace dovrebbe anche prevedere la possibilità di adottare provvedimenti dotati di una qualche forza cogente nei confronti dell’amministrazione penitenziaria.
Infine si potrebbero ipotizzare rimedi per facilitare le indagini sugli episodi di violenza e per prevenire troppo facili insabbiamenti. Anche sotto questo profilo, vigono stringenti doveri sottolineati della giurisprudenza di Strasburgo: si tratta dei così detti obblighi «procedurali», in forza dei quali gli apparati repressivi nazionali sono tenuti ad avviare ed espletare delle «indagini effettive» quando la morte è provocata da un agente statale.
Per agevolare questo compito, potrebbe ipotizzarsi l’estensione di una norma del codice di procedura penale che prescrive di spostare altrove la competenza ad investigare e a procedere quando un magistrato è sospettato di aver commesso un reato (art. 11 c.p.p.). Evidente la ratio della previsione, che intende evitare pericolose vicinanze, imbarazzanti contiguità e la conseguente perdita di imparzialità da parte degli inquirenti. La regola potrebbe, con un opportuno intervento legislativo,  applicarsi anche ai un appartenente alla polizia ad assumere la veste di persona sottoposta alle indagini. L’innovazione comporterebbe problemi organizzativi non indifferenti; ma vi sarebbero evidentissimi vantaggi sul piano della serietà dell’indagine e sul necessario distacco degli inquirenti. Come minimo, sarebbe indispensabile prescrivere l’affidamento dell’attività investigativa ad un corpo diverso da quello cui appartiene il sospettato di azioni violente.
Una serie di meccanismi di controllo improntati alla massima severità dovrebbero poi guidare la scelta dei medici chiamati ad intervenire sulle persone ristrette della libertà. Più che mai urgente è interrogarsi sui modi per spezzare il legame di connivenza che troppo spesso lega il personale sanitario alle forze di polizia e per assicurare piena autonomia di operato alle figure chiamate a curare chi subisce violenze e ad accertarne la perpetrazione.
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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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