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Alfabeto del viaggio (di chi non può viaggiare)

 


Attesa

Come la vita, anche il viaggio è fatto di attese. Ma diversamente che nella vita, nel viaggio le attese sono cariche di eccitazione e di emozioni positive, che prevalgono su quelle segnate dal senso di vuoto, pure presenti nell’esperienza del viaggiatore. Esse hanno una breve durata e cessano nel momento in cui la voglia di conoscenza e di esperienze nuove prende il sopravvento.

In carcere, invece, la vita stessa assume le forme di un’attesa senza fine, che si compie nelle tappe di un percorso la cui meta finale non è nel vivere l’esperienza ma nel porvi fine. Qui il tempo della vita diventa esso stesso attesa, alla ricerca di modi e pretesti per riempirlo. I gesti e le azioni che si compiono nell’arco della giornata non hanno valore in sé, ma sono appuntamenti obbligati per non naufragare in questo tempo dilatato e sospeso, pause all’interno di una più generale pausa della vita.

Ogni momento è un’attesa: dell’apertura delle celle, della lettera dei familiari, del colloquio con l’educatore, della risposta a una domandina …. L’attesa più importante è quella della Camera di consiglio perché potrebbe significare l’inizio di una situazione nuova, di un altro piccolo viaggio. Ma quella più frequente è l’attesa del colloquio con le persone amate: sono queste a dare forme e confini al tempo.

La durata dell’attesa e il tempo variano da un carcere all’altro, giacché le carceri italiane sono tante diverse repubbliche. Qui a Rebibbia - che pure è un carcere ambito da chi deve scontare una pena, lunga o breve che sia – l’elevato numero di detenuti e le dimensioni comportano tempi burocratici di attesa molto lunghi.

[Vai a: racconto L’attesa, riflessione: Il tempo dell’attesa, di AC ]

Bugie

Le bugie fanno parte della vita: se ne dicono per non far soffrire chi si ama, per trarre vantaggio da una determinata situazione, per sottrarsi a situazioni sfavorevoli, per nascondersi dalla vergogna, per esorcizzare la delusione .…

Il viaggio predispone alla bugia, una bugia per così dire “leggera”, nel senso che chi viaggia tende a presentare se stesso in un modo un po’ diverso dalla normale vita di tutti i giorni: cerca di tirar fuori qualità ed energie che lo rendano più affascinante.

La vita in carcere è, per molti versi, un viaggio in cui — chi più chi meno — si mente e si recita una parte che non coincide con quello che si è nella realtà. Il detenuto tende a dichiararsi innocente o a sentirsi perseguitato; spesso assume atteggiamenti di autoesaltazione: l’avvocato che si è scelto è il migliore; lo stile di vita che faceva fuori è da straricchi: case, macchine, donne (ma di queste si parla molto meno)…. Un detenuto, qualche mese fa, non faceva altro che parlare della vita di lusso che conduceva prima, diceva di avere più d’una gioielleria e un giro d’affari di milioni; poi ogni tanto veniva a chiedere le sigarette o un pacco di caffè. Una volta è stato visto mentre cercava di staccare i francobolli dalle lettere (qui arrivano senza timbratura). Quella di staccare i francobolli — a volte anche dalle lettere di altri — è un’abitudine di molti.

Per poter apparire più ricchi, più fortunati, più amati e curati di quanto non siano nella realtà, alcuni mettono sotto stress i propri familiari e si fanno mandare pacchi con prelibatezze d’ogni genere, che probabilmente nella vita normale non mangerebbero mai o quasi. E si arrabbiano pure se ad esempio la moglie non ha fatto le cose come si deve, fanno le vittime: “Io so’ carcerato, nun te lo dimentica’!”. Oppure c’è chi prende il foglio-spesa molte volte nella stessa giornata per poter scegliere e ordinare gli acquisti.

Poi però arriva sempre il momento della verità e se uno viene scoperto come bugiardo, si giustifica dicendo che le bugie servono per consolarsi un po’.

Forse le bugie che si dicono in carcere — e sono tante — sono la spia di una forma di regressione infantile.

[ Vedi anche: l’Alfabeto di A.N.N. ]



Clandestinità

È la condizione cui si ricorre per sottrarsi a una situazione sfavorevole, oppure la conseguenza di uno stato di necessità, ad esempio nell’immigrazione.

Il viaggio è il mezzo che consente di realizzare più compiutamente la clandestinità, in quanto la propria identità viene camuffata o cambiata; come per la Bugia o la Fuga, racchiude in sé una menzogna, un allontanamento dalla verità. Essendo una forma di discrepanza tra apparire ed essere, è anche Illusione.

Il carcere è un mondo a parte in cui si realizza la massima distanza tra verità e apparenza, tra identità e maschera, tra appartenenza e ruolo. Qui, se si vuole evitare di farsi annientare da questa esperienza, bisogna crearsi un mondo proprio, essere molto prudenti e vigili, non dare troppa confidenza al prossimo. Nessuno si mostra per quello che è veramente, sia per diffidenza sia perché come detenuto diventi uno fra tanti, privato della tua identità.

C’è da dire, tuttavia, che si può essere clandestini anche in casa propria (vedi ad esempio Provengano). Il latitante è, per forza di cose, un clandestino, ma nella vita può essere considerato tale anche chi, per insicurezza o paura di essere se stesso, si maschera.

[ Vedi anche: l’Alfabeto di A.N.N. ]

Dimenticare

È l’unico modo per non impazzire, ma può anche essere un effetto della mancanza di coraggio.

Il viaggio, proprio perché sradica dalle proprie abitudini e dal proprio ambiente, potenzia il meccanismo dell’oblio. Quanti viaggi si fanno per dimenticare! Per vincere il dolore di situazioni traumatiche, come ad esempio la morte di una persona cara.

Nel “viaggio” della detenzione, invece, è difficile dimenticare: i ricordi tornano più vivi, anche quelli dolorosi, magari alimentati dal senso di colpa; e questo serve perché, se rimuovessimo tutte le cose negative, non potremmo apprendere nulla dagli sbagli fatti. D’altra parte, però, nella nostra condizione, ricordare troppo la vita o i propri fallimenti ed errori può essere duro da sopportare e fa correre il rischio di diventare ossessivi. Bisognerebbe riuscire a trovare un equilibrio tra il crogiolarsi nel rimpianto e nell’autocommiserazione, da una parte, e l’accettazione della propria condizione e di questa nuova forma di socialità, dall’altra. Ricordare un po’ e un po’ dimenticare…

Quando si entra in carcere, tutte le energie sono concentrate a scoprire come funziona il nuovo mondo, a capire come devi comportarti, a guardarti dagli altri, perché non ti fidi. Il trauma della perdita di libertà è così forte che cerchi di dimenticare il presente, o di pensarci solo per risolvere problemi pratici, e usi molto la memoria per difenderti frammenti di vita e per ripensarla. Ma non sempre serve: i suicidi si verificano soprattutto agli inizi della detenzione (l’esperienza del transito, quell’enorme cella in cui vengono messi i nuovi giunti, è veramente terribile). Per chi è alla seconda o terza detenzione — per l’ habitué, come si suol dire — le cose sono un po’ diverse: quel mondo lo ha già conosciuto e deve faticare di meno per ambientarsi, ma essendo più forte il senso di fallimento personale, spesso preferisce non pensare al passato e cerca di sopravvivere al meglio nel presente.

Comunque sia, per tutti, neofiti o habitués, la detenzione è un viaggio traumatico che, una volta fuori — o per un permesso o per la fine della pena — si tende immediatamente a dimenticare: si cancella tutto, si rimuove… È difficile infatti che, dopo, si sogni il carcere, è più facile che ciò avvenga all’interno.



Evasione

È una delle parole che immediatamente si abbinano all’idea di viaggio. La vita di ogni giorno presenta, in forme più o meno accentuate, momenti di frustrazione, difficoltà, negatività, a cui si reagisce desiderando un cambiamento totale o, almeno, un’esperienza nuova — come può essere un viaggio — che ci distragga dal presente dandoci conforto e nuove energie.

In carcere si evade … In molti modi… Per esempio si dorme più che si può. “Quello che dormi non te lo fai”, si dice riferendosi al tempo di detenzione che viene accorciato se passato dormendo. Oppure si evade abusando delle terapie: Minias, Tranquirit, Valium, Toradoll, Metadone… possono diventare forme di evasione. Una o due volte al giorno, a seconda delle sezioni (al G11 passa mattina e tardo pomeriggio; al G8 alle 18:00) l’infermiere/a passa spingendo un carrello pieno di farmaci, per dare la terapia ai detenuti scritti su una lista; è accompagnato/a da un agente, che ha il compito di sorvegliare i farmaci e impedire che qualcuno se ne appropri. C’è sempre chi al di fuori della lista chiede qualcosa per il mal di testa o per dormire, tanto che l’infermiere/a si meraviglia quando da una cella non viene fatta alcuna richiesta.

Ma ci sono anche le evasioni positive, come frequentare la scuola. A settembre, infatti, ci sono numerosissime iscrizioni, fatte per non stare in cella o per avere relazioni con gente diversa; poi però chi si iscrive per questi motivi smette presto di frequentare perché non regge l’impegno.

Altri modi per evadere sono la TV, la musica e la lettura. La TV è sempre accesa e per di più “a palla” (a volume molto alto). C’è chi vede tutte le edizioni del telegiornale, magari alla ricerca della notizia sull’amnistia o l’indulto: è quasi un’ossessione. La musica viene ascoltata soprattutto con le cuffie o in videomusic. Anche la lettura è praticata, le biblioteche di reparto sono abbastanza frequentate, come quella del G11, dove tempo fa è capitato uno che, con aria svagata, ha chiesto dei libri di filosofia, ma quelli esistenti non lo soddisfacevano: voleva qualcosa di più significativo, per esempio Platone o altri filosofi dell’antichità; alla fine se n’è andato con Tex Willer e ha prenotato Diabolik. Comunque, il genere letterario più richiesto è il romanzo d’azione.

È diffuso il luogo comune che il carcerato pensi all’evasione, quella vera, spesso rappresentata nei film. In realtà si tratta di un clichet, anche se qualcuno l’esperienza l’ha fatta davvero; sono pochi quelli che continuano a fantasticare sulle possibilità di evadere, in genere si tratta di albanesi o persone che vengono dai Paesi dell’Est.

[ Vai a : racconto Evasione, di Bandolero ]

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Freddy ]

Fuga

Si fugge da qualcuno o qualcosa che non accettiamo o ci procura dolore: dalla realtà, da noi stessi… Il viaggio, in fondo, è sempre una fuga, anche se piccola, perché costituisce un break nella vita abituale o una rottura in un’esistenza divenuta insopportabile, che si desidera cambiare; ma spesso esso si rivela inutile a questo scopo, a parte quello del migrante o del rifugiato che fuggono da situazioni generalmente disperate.

L’atteggiamento di piccola fuga che ha chi si accinge a un viaggio, lo ritroviamo nel meccanismo della rimozione che si attiva frequentemente nella vita e che molti dei detenuti conoscono assai bene. Spesso si finisce qua dentro proprio perché si è voluti fuggire dai problemi della vita e soprattutto da se stessi o da parti di sé con cui non si volevano fare i conti. Accade così che, a furia di rimuovere errori, lati oscuri, debolezze, e di rimandare, a un certo punto ti piomba addosso la catastrofe, che non puoi più arginare. Se uno non affronta per tempo il problema del reato commesso e lo rimuove, sicuramente peggiorerà la sua situazione, ad esempio finendo nelle mani di avvocati poco seri.

In carcere, a parte le riflessioni personali, si può fuggire con la mente altrove, sognare luoghi diversi, concentrarsi nei propri pensieri. Ci sono tipi di fuga che bisognerebbe praticare di più: quelli dagli incontri sgraditi o dalle chiacchiere senza senso che purtroppo abbondano fra i detenuti. Queste sono uno dei “pericoli” in cui ci si imbatte più frequentemente.

Giocare

La vita è una cosa seria, ma è necessario che il gioco ne faccia parte: aiuta a non prendersi troppo sul serio. Il viaggio contiene la dimensione del gioco perché si viaggia anche per divertirsi, per fare qualcosa di diverso dal solito.

Nel gioco c’è una vincita e c’è una perdita; chi sta in carcere la partita l’ha già persa, deve solo ricominciare a giocare per recuperare e vincere.

Qui si gioca in molti modi: si fa finta di fare amicizie nuove, si cerca di prendere la vita dentro come una vacanza, si gioca a pallone, a carte, a tennis… per renderla più vivibile.

Ma c’è anche il gioco cattivo, quello di chi prende in giro la persona più debole. Questo accade in tante altre comunità, come a esempio nella scuola, ma qui il gioco cattivo è più facile perché c’è più frustrazione, perché l’intimità delle persone è meno protetta e quindi si sanno molte cose della vita privata di ognuno, infine perché c’è una maggiore familiarità con la prepotenza.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Freddy ]

Hollywood

Hollywood ti fa pensare a un enorme set cinematografico e ti fa entrare in una dimensione diversa, con altri stili di vita. È il mondo della finzione, a cui vengono associati sogni e desideri; per questo è meta di viaggi.

Ma l’associazione con il tema del nostro alfabeto è dovuta al fatto che in ogni viaggio ci si mostra un po’ diversi da ciò che siamo abitualmente, ci si “atteggia” (vedi anche la voce: Bugie).

Anche il carcere ha caratteristiche che lo rendono un set cinematografico: qui ognuno interpreta il personaggio che si è scelto, anzi è meglio che non si mostri per come è veramente, perché potrebbe rimetterci. Il delinquente, in fondo, recita spesso: che si tratti del momento in cui commette il reato o di quello in cui si trova davanti al giudice, comunque lui ha una parte da sostenere, deve essere attore, e anche convincente. Non si nasce delinquenti, è un ruolo che si sceglie.

Ci si pone spesso la domanda: perché le cose sono andate come sono andate, e dov’è che abbiamo sbagliato, e qual è stato il momento in cui tutto è cominciato. Non è facile trovare la risposta.

Il problema dell’identità è molto sentito tra i reclusi, sia da chi considera la propria vita il prodotto di un destino amaro e ineluttabile, sia da chi la vede come il risultato di una scelta. In questo secondo caso, può capitare di passare un periodo anche lungo in cui si fa una doppia vita: quella voluta dai genitori e quella praticata per scelta. Chi è veramente quell’uomo? Poi si finisce in carcere, si ripensa, si cambia… ma una volta uscito dal carcere, chi sarà quell’uomo?

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Angelo D. Verdoni ]

Illusione

Fa parte della nostra vita, ci permette di andare avanti confidando in un po’ di felicità, però se ci si illude troppo si rischia la frustrazione. L’illusione, quindi, ha a che fare con la speranza, ma contiene in sé una forma di inganno.

All’origine del viaggio c’è quasi sempre un’aspettativa ottimistica di qualcosa di positivo, ma è illusorio pensare di cambiare davvero in meglio la propria vita semplicemente “andandosene” ogni tanto: dalle difficoltà delle vita non si può fuggire, prima o poi i nodi vengono al pettine. Allo stesso modo, è illusorio pensare di conoscere in profondità la realtà per il semplice fatto di viaggiare, in quanto di essa si colgono gli aspetti più superficiali, ma è pur vero che il viaggio è un mezzo per conoscere.

In carcere, dove la vita si paga duramente, paradossalmente l’illusione è una necessità: serve ad accettare la situazione o, meglio, a conviverci. Ci si illude in molti modi: credendo che la richiesta presentata nella domandina venga accolta, che la Camera di consiglio dia un responso favorevole, che venga accordato il permesso, che si possa uscire tra 1 settimana, 1 mese…. Si può ipotizzare che su 100 istanze presentate siano almeno 90 quelle che vengono respinte; ciò vuol dire che ci si fa troppe illusioni. Eppure non se ne può fare a meno.



Lasciare

Si lasciano persone, luoghi, oggetti, a cui si è affezionati; e questo provoca malinconia. Oppure si lascia una testimonianza di sé, una traccia per vincere la morte.

Il viaggio comporta una separazione da ciò che si lascia, ma il senso di vuoto è presto colmato dal nuovo che viene acquisito, il quale a sua volta lascia un segno indelebile su di noi.

Quando si entra in carcere si lasciano la vita, parti di noi stessi, il tempo. Mentre, fuori, il tempo che si perde si può sempre pensare di recuperarlo, dentro, invece, il tempo che passa è perso per sempre. Tuttavia, anche qui si può avere un atteggiamento positivo verso il tempo, impegnandosi a occuparlo nel modo più produttivo per sé. Ripensare alla propria vita non è detto che sia tempo perso e poi si possono fare delle esperienze significative comunque, come ad esempio dedicarsi alla scrittura, cosa che fuori probabilmente non si sarebbe mai fatta. È senz’altro vero che si lascia la vita perché manca la libertà, ma è pur sempre possibile procurarsi fette di vita, anche ricche di senso, e coltivare affetti pure dietro le sbarre…. Comunque, conviene pensarlo: l’ottimismo è necessario, soprattutto per chi ha pene lunghe.



Mare

Si associa all’idea di libertà, immensità, infinito, e quindi anche di speranza, speranza di lasciare le sofferenze e andare. Soprattutto attraverso il mare gli uomini hanno viaggiato e conosciuto nuove terre, popolazioni e culture diverse. Il mare avvicina, e dovremmo imparare ad avere molto più rispetto per questo “gigante”.

L’immagine del mare, per dei carcerati, si presta particolarmente a non dimenticarsi della libertà, a ricordarsi che ci sono spazi senza confini, distanze lunghe… È anche una metafora: “ti voglio un mare di bene”, “ho un mare di tempo”. Qui siamo naufragati nel mare della desolazione, in cui si trova quest’isola sperduta. Qui navighiamo nel mare dell’indifferenza, dove migliaia di domandine si perdono nel mare della burocrazia.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Pasquale Torcasso, di Angelo D. Verdoni, di Leonardo De Pace López]

Nostalgia

È il desiderio intenso e doloroso di persone, cose e situazioni che abbiamo lasciato e verso cui si vorrebbe tornare.

La routine quotidiana appiattisce sul presente i nostri pensieri, mentre il viaggio li attira sulle esperienze nuove che si vanno facendo. Quando ci si distacca dalla vita abituale, si è portati a pensare a noi stessi e al nostro passato in modo più distaccato e profondo; ciò consente di selezionare, anche involontariamente, i nostri ricordi e di coltivarli. La memoria è dotata di un meccanismo di autotutela che tende a rimuovere o a rendere più sopportabili i ricordi brutti e a conservare quelli belli; capita così che, in certe situazioni di lontananza, si ripensi al proprio passato con un sentimento di nostalgia.

In carcere, la nostalgia è il primo sentimento che si prova (dopo il senso di spaesamento): nostalgia degli affetti e della fisicità delle persone a cui sono legati, ma anche degli oggetti, dei luoghi, delle abitudini. Con il passare del tempo essa si fa sempre più forte fino a diventare, a volte, insopportabile; tanto che si cerca di non pensarci facendo qualcosa. Ma la nostalgia è anche un modo per verificare gli affetti: se questi sono deboli essa via via diminuisce, così si capiscono tante cose… compresa la solitudine...

Più passa il tempo, più i ricordi si immobilizzano sulle cose belle e sulle sensazioni positive provate, e si tende a dare un gran valore alle piccole cose, a cui nella vita normale non prestiamo attenzione: un lume di casa, che si desidererebbe tanto avere con sé, o un accendino da tenere tra le mani qui diventano preziosi.

[ Vai a : racconto Nostalgia, di Pasquale Torcasso ]

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Bandolero, di Giosy, di A.N.N.]

Opportunità

Everybody has his own opportunities in his life…We’ll have many more possibilities. Ci vuole l’americano per dire che ognuno di noi ha le proprie opportunità nella vita e che potrà confidare in altre possibilità.

Nel viaggio ci si aspetta sempre di trovare qualcosa di nuovo e positivo che possa migliorare la nostra vita, anche solo per il semplice fatto di offrirci momenti piacevoli e rilassanti o di farci conoscere cose nuove che arricchiscano le nostre esperienze.

In carcere la parola ‘opportunità’ viene usata molto: quando si parla con un educatore o un magistrato, per chiedere un permesso o di essere ammessi a svolgere qualche attività trattamentale (un corso, un lavoro…) si dice: “Dateci una opportunità”. E quando l’istanza presentata nella domandina viene respinta, ci mettiamo subito a pensare a quando ripresentarla di nuovo, appunto alla seconda opportunità. E questo meccanismo si riproduce continuamente fino a quando non usciamo. Qui c’è la tensione continua a cogliere tutte le opportunità possibili di cui veniamo a conoscenza, a non lasciarsi sfuggire l’occasione buona, e si parla sempre di domandine, di calcoli del tempo che deve passare per riprovarci di nuovo, o ci si informa se l’altro detenuto è riuscito a ottenere quello che chiedeva….

Alle Opportunità, con la ‘O’ maiuscola, che riguardano la nostra vita, alle possibilità cioè di cambiarla una volta fuori, in genere ci si pensa in privato: delle cose più personali e profonde è difficile che si parli. Nei primi tempi della detenzione i pensieri più dolorosi, oltre a quelli della separazione dai propri cari, riguardano gli errori fatti e le opportunità non colte. Alla fine ci si proietta verso il futuro e le cose da fare una volta liberi.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Giambattista Podestà ]

Profumi

Legati a luoghi e persone, sono dei fattori della memoria, come le fotografie: si possono dimenticare per un periodo, ma anche dopo tanti anni siamo in grado di riconoscerli.

Ogni viaggio ha i suoi profumi, diversi a seconda dei luoghi: l’Amazzonia ha i profumi della natura, Parigi quelli dei boulevards, l’Iraq ha l’odore del sangue.

Una volta entrati in carcere i profumi della vita restano fuori, ma basta percepire l’odore dell’erba per risvegliare un ricordo. Quando un lavorante ai giardini, alla fine del turno di lavoro, rientra in sezione, porta con sé i profumi del verde, magari quello della cicoria raccolta, e questo fa subito pensare ai prati e alle banali situazioni della vita di ognuno di noi, legate appunto ai prati: i giochi da bambini, le scampagnate, i pic nic ecc. Ma non sono sensazioni piacevoli, perché accompagnate dalla nostalgia e dalla tristezza; particolarmente forte questa diventa quando capita di sentire il profumo di una donna.

Il carcere non ha profumi ma solo odori, degli odori particolari: di chiuso, di muffa, di varechina e detersivi di qualità scadente. Alcuni luoghi hanno un odore preciso, come le sale degli avvocati che puzzano di polvere o i corridoi che emanano l’odore sgradevole di detersivo. È difficile trovare puzza di sporcizia, perché le pulizie sono affidate ai detenuti lavoranti, il cui lavoro viene controllato molto spesso e, se non è fatto bene, arrivano le sanzioni.

Gli odori del cibo sono quelli che più ci riportano alla vita fuori, ma questo succede solo nelle celle, in particolare quando qualcuno cucina qualcosa della sua terra; gli odori che provengono dalle cucine, invece, sono un miscuglio indistinto di odori. Questo perché si cucinano grandi quantità di cibo e diversi tipi di pietanze contemporaneamente.

Qualche volta si sentono anche puzze: puzza di sudore, di piedi, di indumenti non lavati, ma non è poi così frequente perché qui c’è più pulizia di quanto non si creda fuori. Ed è comprensibile perché la convivenza di tante persone in poco spazio impone un’autoregolazione: in una cella con 4 o 6 persone se capita di sentire ad esempio puzza di piedi, viene subito fatto presente all’interessato, che deve provvedere immediatamente. Qualche volta capita di assistere a vere e proprie lezioni di igiene date da un detenuto “esperto” a uno appena entrato: come si deve tenere pulita cella, dove mettere le scarpe di notte ecc… È più facile trovare ossessione per la pulizia piuttosto che la sua mancanza.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Angelo D. Verdoni ]

Quiete

È la calma che fa di noi esseri forti e resistenti, perché con la quiete si va lontano.

Il viaggio — naturalmente non quello fatto per la sopravvivenza, come per l’emigrante — può essere considerato un momento di quiete rispetto allo stress della vita quotidiana, perché, anche se è faticoso fisicamente e si dorme poco, è comunque un momento di pace interiore, di riposo mentale, dato dal senso di libertà: non più orari, impegni, preoccupazioni…

Anche il carcere è una “pausa”, più o meno lunga, nella routine quotidiana, ma parlare di quiete è proprio difficile. Qui la vita è noiosa, ha tempi lunghi, molto lunghi, e si sta sempre in tensione; ci possono essere dei momenti di quiete come sinonimo di riposo, ma non di quiete come pace interiore: come potrebbe essercene se manca la libertà? E poi il detenuto è sempre sotto stress psicologico per le frustrazioni continue, per il senso di fallimento, per i problemi in famiglia …

Neanche il riposo è facile: ci sono sempre molti rumori (di serrature, blindati, toni alti della voce, TV); anche di notte ci possono essere improvvise azioni disciplinari, come perquisizioni e trasferimenti, o esplosioni di qualche detenuto in difficoltà. Però la capacità di adattamento dell’uomo è grande e può capitare, dopo un risveglio notturno, di riprendere sonno con una sensazione finalmente di quiete.

La quiete è un concetto relativo: se si sono fatte esperienze di detenzione in altri Paesi, dove il carcere è molto più duro, come ad esempio in Costa Rica o in un Paese dell’Est europeo (Romania, Cecoslovacchia), allora Rebibbia sembra davvero un posto di quiete, dove addirittura all’inizio si può provare un senso di euforia per il cibo che si mangia o la pulizia dei luoghi o perché è finita la paura di subire violenze. Ma, se si fa un confronto con carceri di Paesi più avanzati come la Spagna, l’Olanda, il Belgio, allora sì che le condizioni in cui ci troviamo appaiono pesanti. In alcune carceri del Nord Europa c’è la piscina, in cui si può andare una volta alla settimana, ci sono il frigorifero e la doccia in cella; si ha diritto alle visite coniugali; si può telefonare quando si vuole; ci sono le mense. Qui da noi si mangia in cella (o chi - e quando - ha il permesso, all’aria verde), la telefonata è permessa una volta a settimana per 10 minuti. Come si fa a coltivare gli affetti? Capita spesso che il momento della telefonata sia così carico di attesa e tensione che uno si dimentica di fare gli auguri di buon compleanno alla propria figlia, dopo che per settimane ha pensato a cosa dirle per farle sentire il proprio amore, perché in quei 10 minuti deve parlare anche con la moglie, la suocera e così via; nel momento in cui si mette giù la cornetta del telefono si viene presi da una rabbia e un senso di impotenza… che poi però bisogna rapidamente farsi passare.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Angelo D. Verdoni, di Freddy ]

Rimpianto

Tutti hanno dei rimpianti, perché la vita ci mette sempre di fronte a bivi, e noi scegliendo una delle due strade inevitabilmente rinunciamo all’altra: avremmo potuto fare un altro lavoro, vivere in un’altra città, scegliere un’altra donna e così via. Il rimpianto, che significa ricordare qualcosa del passato che si perso, è l’esatto contrario dell’illusione, che significa pensare positivamente al futuro. Una certa dose di rimpianti può aiutare a capire meglio noi stessi, ma, come troppe illusioni generano frustrazione, così troppi rimpianti fanno vivere male: ripensare al passato è utile, ma rimpiangere troppo ciò che non si è fatto o avuto fa male, ci porta alla “chiodata” (colpo di testa frontale su un chiodo).

Il viaggio ci obbliga continuamente a scegliere un itinerario anziché un altro e a perdere delle occasioni, e, allontanandoci per un periodo dalla vita quotidiana, ci porta a ripensare con un certo distacco al passato, ma è più facile che i rimpianti si abbiano al ritorno, per quello che non siamo riusciti a fare o vedere viaggiando.

In carcere si creano le condizioni per ripensare alla nostra vita, si ha il tempo per lasciare strada libera alla memoria e per capire meglio ciò che ha valore per noi. Rimpiangere, perciò, può servire a non dimenticare e a capire; la cosa importante è non esagerare, altrimenti si finisce per macerarsi e autocommiserarsi: entrambe cose che certo non servono.

Nelle chiacchiere che si fanno si sente spesso dire la frase: “io non rinnego niente del mio passato”; be’, in realtà, sarebbe bello poter rinnegare qualcosa, ma è impossibile, perché gli errori fatti non si possono cancellare; quello che invece è possibile fare è ricordare per capire. Nella vita normale si può fare a meno dei rimpianti perché, anche se non si può ritornare indietro per rifare le cose in modo diverso, è comunque possibile cercare le strade e i modi per recuperare qualcosa di ciò che troppo tardi abbiamo capito essere importante, oppure per rimediare, almeno in parte, agli errori commessi. Per il detenuto, invece, il rimpianto è il punto di partenza per riflettere sulla propria vita, ma non deve esagerare: anche lui può e deve trovare i modi per vivere positivamente il presente e impostare in modo diverso il futuro. O almeno deve pensare di poterlo fare…. Certo, con le pene molto lunghe è difficile essere positivi…, allora è meglio cercare di concentrarsi sul presente. Ma questo richiede una grandissima forza di volontà e tanta capacità di resistenza. E poi come si fa a “pentirsi”, “rieducarsi” e cambiare se si viene trattati come dei numeri di pratiche o peggio? È facile, invece, incattivirsi.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di A.N.N. ]

Speranza

“Finché c’è vita c’è speranza” recita un motto popolare: in effetti non si può vivere senza sperare, e quando la speranza viene meno, forse cessa anche la vita, o perlomeno la parte migliore di essa. Oggi nella società del benessere si hanno meno speranze di un tempo e si è più interessati alle cose materiali della vita.

Il viaggio presuppone sempre un’aspettativa: quando si parte, ci si predispone a qualcosa di nuovo che possa soddisfare il desiderio di conoscenza o il bisogno di un miglioramento. Alcuni affidano al viaggio le proprie speranze. L’espressione “il viaggio della speranza” trova applicazione in molte esperienze; oggi la associamo immediatamente al fenomeno dei flussi migratori mondiali, drammaticamente intensificatosi negli ultimi anni: migliaia di persone lasciano i Paesi d’origine con la speranza di trovare una vita più umana e soddisfacente in altri luoghi. Ma viaggi della speranza sono anche quelli dei malati gravi che vanno verso centri di cura famosi e all’avanguardia, o verso santuari religiosi confidando nel miracolo.

In carcere la speranza fa parte del bagaglio del detenuto, che, secondo la normativa, dovrebbe essere considerato un “malato civile” per il quale la detenzione sia la cura. Ma il reale funzionamento del carcere mette a dura prova la tenuta della speranza di “cura”.

Le forme tangibili della speranza sono le domandine, in cui si chiede qualcosa (dal colloquio con l’educatore all’iscrizione a un corso…) che si spera di ottenere prima o poi. Ma si spera anche nel miracolo dell’amnistia. In ogni caso tutti, o quasi tutti, abbiamo la speranza di un futuro migliore, una volta usciti.

La speranza è spesso collegata alla fede religiosa. Qui la chiesa è molto frequentata, sia quella centrale (dedicata a Padre Pio), sia quelle molto più piccole di reparto. È vero che alcuni ci vanno per opportunismo (per incontrare il volontario che si prende cura del reinserimento sociale, per mostrarsi “rieducato”, o per bisogno di socialità); ma per la maggior parte dei detenuti il rivolgersi a Dio è una cosa autentica: un sostegno per andare avanti e un senso alla propria vita.

[ Vai a : racconto Un viaggio della speranza, di Giambattista Podestà ]

Tempo

È il grande contenitore della vita, cui dà un inizio e una fine; è l’unità di misura della vita di un uomo; è il peggior nemico dell’uomo perché non basta mai per riuscire a fare tutto ciò che si vuole; è il tiranno che ci obbliga a scegliere; è un recipiente i cui contenuti li decidiamo noi.

Time wait for nobody, dal titolo di una famosa canzone dei Queen: il tempo non aspetta per nessuno, ogni giorno che passa è un giorno di vita in meno che abbiamo. Per questo bisognerebbe vivere la vita nel miglior modo possibile.

In viaggio se ne vorrebbe avere sempre di più, esattamente come nella vita; solo che lo si impiega in modo diverso da quello abituale.

Chi sta in carcere è ossessionato dall’idea del tempo che passa e della vita che perde, ma la percezione del tempo non è la stessa per tutti: dipende soprattutto dalla lunghezza della pena. Se questa non è troppo lunga, da un certo momento in poi si comincia a pensare a cosa si farà per cercare di recuperare il tempo perduto, ma se gli anni sono tanti si evita di pensarci. Una cosa insopportabile, per chi ha una pena lunga, è trovarsi davanti uno che si lamenta anche se il tempo che gli resta da trascorrere dentro è poco.

Da una parte, il tempo della detenzione è lungo e lento, per tutti; dall’altra, non basta mai. Può sembrare un paradosso, perché fuori si pensa che il detenuto ne abbia tanto a sua disposizione, ma non è così: quello per te lo devi strappare a una routine cui non puoi sottrarti, in uno spazio sempre occupato. Qui il tempo scorre in modo diverso: è fatto di una continua attesa (Vedi la voce Attesa) che lascia in uno stato di sospensione, ma ha i suoi ritmi, dati dalle numerose piccole scadenze nell’arco della giornata (l’ora d’aria, la conta, la visita medica…) e dalle tante cose che si fanno, per la maggior parte cose senza senso.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Pasquale Torcasso ]

Ulisse

Ulisse è il simbolo del viaggiatore: forte, coraggioso e con la nostalgia della sua casa, nell’Odissea, alla perenne ricerca di nuove conoscenze, nella Divina Commedia. I viaggi avventurosi di Odisseo ne hanno forgiato il carattere, rendendolo più forte e virtuoso, ma l’altra faccia della medaglia dell’instancabile viaggiatore è lo sradicamento, fino al punto della “dannazione”. All’eccitazione del fare sempre nuove esperienze si oppone la tristezza per la lontananza dal proprio ambiente, dagli affetti e dai sentimenti più profondi.

In ognuno di noi c’è un Ulisse, viaggiamo alla volta della nostra Itaca, come verso la terra promessa alla quale desideriamo approdare. Ma il carcere ci fa vivere solo la faccia negativa di questa medaglia. La vita carceraria è l’opposto dell’avventura e si può certamente diventare più colti, consapevoli e magari virtuosi, ma solamente mettendo in campo tutta la nostra forza d’animo e la nostra intelligenza.

Noi navighiamo non per scelta ma per necessità. Spinti da venti incontrollabili, possiamo solo lottare per mantenere la barca a galla, in attesa di avvistare qualche isola cui attraccare, dove ricaricarci di forze per poter ripartire e fare rientro a casa. Le isole cui cerchiamo di attraccare sono i permessi premio, le soste obbligate nella nostra navigazione, le tappe di avvicinamento lento all’approdo finale.

Durante la navigazione, per giorni e giorni, si vive a stretto contatto di gomito con persone che non si scelgono, e bisogna essere sempre molto vigili, perché è facile perdere la rotta e dover ricominciare il viaggio daccapo: i nostri Polifemo e maga Circe sono il tossico che ti viene messo nella cella, con cui è facile nasca un litigio che porta a un rapporto disciplinare, o l’agente che non ti rispetta, o il detenuto che fa la vittima e non fa altro che lamentarsi dei suoi 5-6 mesi magari proprio con chi ha 20 anni da scontare.

La presenza di tanti tossico-dipendenti tra l’equipaggio è davvero un problema grosso e gli atteggiamenti nei loro confronti sono diversi: c’è chi pensa che il tossico sia la rovina del carcere, perché a causa sua ci sono più perquisizioni sia dei familiari che vengono ai colloqui sia delle celle; e c’è chi ritiene invece che ingigantire il problema dei tossici sia comodo per non vedere altri problemi, giacché nelle perquisizioni vengono trovati molto più spesso i cellulari che la droga. I tossici sono dei detenuti particolari che devono essere curati; figuriamoci se nelle carceri sovraffollate questo può avvenire in modo adeguato! In questo caso abbiamo opinioni diverse: secondo alcuni la costruzione di carceri “specializzate” rappresenta la soluzione, ma secondo altri si tratterebbe di un doppio ghetto. Comunque, è la società intera che dovrebbe porsi il problema e non limitarsi a segregare.

[ Vai a : Ulisse e… , di AC, di Leonardo De Pace L., di Freddy, di Giosy, di Pasquale Torcasso ]



Vita

La vita è viaggio: il nostro primo viaggio è quello dello spermatozoo per raggiungere l’ovulo, e portarlo a compimento è molto faticoso, solo uno o due ce la fanno. Ma il viaggio può anche essere motivo di vita e destino: ad esempio per gli esploratori, veri e propri missionari laici, che hanno dovuto affrontare ostacoli e rischi e a volte si sono sacrificati per raggiungere la meta; l’umanità è in debito verso di loro. Un conto è fare un’esperienza “al limite” una volta nella vita, altro conto è dedicare la propria vita al viaggio esplorativo. Nella cultura nord-americana c’è la mobilità come requisito per migliorare la propria esistenza: ci si sposta da un lavoro all’altro, da un posto all’altro, ma in funzione di una nuova stabilità.

Pure la detenzione è un “viaggio”, in un’altra vita, ma tutti vogliamo che finisca al più presto e che resti un’esperienza unica. Una volta finito il viaggio, si cercherà di rimuoverlo dalla memoria: che sia servito o no, sarà comunque un trauma che tenderemo a dimenticare. L’esperienza del viaggio, però, è bene cercare di farla nel modo più dignitoso possibile.

In carcere si invecchia in fretta, ci si deteriora fisicamente, si sente che si perde la forza e la vita si logora. E questa non è solo una fissazione, perché ci si ammala facilmente, come in tutte le comunità, la vista diminuisce in quanto poco esercitata alle grandi distanze, la schiena duole per i materassi non idonei, ci si ingrassa… Allora per combattere il deterioramento e difendere la vita più che si può, si dedica molto tempo alla ginnastica e si controlla continuamente il proprio corpo.

[ Vedi anche : l’Alfabeto di Giambattista Podestà ]

 

 

Zattera

Di viaggi su una zattera non se ne fanno più, eppure metaforicamente la parola viene molto usata, perché rende bene l’idea del tentativo estremo di salvataggio in una situazione disperata di pericolo e di perdita di riferimenti, come accade in un naufragio.

In carcere, quest’isolotto affollato in cui si è fatto naufragio, si rischia continuamente di finire in acqua e annegare; per questo sono indispensabili le zattere e ognuno si deve dar da fare per procurarsi la sua, anzi le sue, perché di zattere ne servono più d’una. Le lettere che si scrivono e si ricevono, ad esempio, sono un’eccellente zattera, ci tengono attaccati alla vita esterna, ci stimolano a reagire, ci danno equilibrio e rendono più nobile il nostro animo.

Ognuno di noi viaggia, di volta in volta, su una propria zattera, che può essere rappresentata anche dai suoi pensieri, sogni e ricordi.

Tra i luoghi del carcere la zattera per antonomasia è costituita dalle attività dell’area educativa: non solo dal lavoro, che è difficile ottenere, ma anche dai vari corsi scolastici e non. È importante frequentarli non solo per avere una relazione positiva, ma anche perché l’impegno nello studio è il modo migliore per non buttare il tempo. Si possono coltivare interessi che nella vita si sarebbero trascurati. La scrittura è una zattera e aggrapparvisi serve a trarre da questa drammatica esperienza qualcosa di positivo.

 

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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