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Non c’è tempo per noi
Corrado Ferioli

È domenica mattina, verso mezzogiorno Filippo si sveglia, la nottata di sballo si è fatta sentire, ha la bocca impastata e un sapore amaro gli avvolge il palato. Si accende la prima sigaretta, boccate rabbiose giusto per svegliarsi.
Apre il cassetto del comodino, ricorda vagamente di averci lasciato una dose ma non la vede. Pacchetti di sigarette vuoti, cicche, sigarette spezzate, preservativi, mezze candele, cucchiai sporchi, siringhe usate, affollano il cassetto, poi la vede e gli brillano gli occhi: una siringa nuova e piena lo guarda dal fondo del cassetto, allora la memoria non gli ha fatto scherzi!
Delicatamente la appoggia sulla vena del braccio sinistro, vi affonda l’ago, aspira un po’ di sangue e inietta il tutto, dopo qualche secondo un miliardo di punture di spillo gli picchiano in testa, una vampata di calore lo avvolge completamente e per il primo pomeriggio è a posto.
Lentamente si alza dal letto, si fa una doccia e per poco non si addormenta sotto l’acqua come un cavallo. È proprio buona ’sta roba! Si veste in fretta ed esce di casa per andare dagli amici che lo aspettano al solito bar.
Scende dalla moto, dopo averla parcheggiata un po’ defilata nel piazzale davanti al locale, le solite facce lo attendono, raccoglie i soldi, alza la sella e distribuisce le bustine di roba: settecentocinquantamila lire in pochi secondi e ancora si può sballare alla grande per tutto il giorno. Ha appena fornito una domenica da zombie a una piccola folla.
Entra nel bar e ordina un cappuccino con cornetto, altro non riesce a ingoiare, poi si siede a un tavolino all’esterno e si perde a guardare i villeggianti che trascorrono il week-end in campagna: gli sembrano una piccola mandria di sfigati con i loro conti in banca, la seconda casa, l’auto grossa e i vestiti firmati, piccoli-grandi schiavi del sistema; proprio non li capisce, per lui esiste solo lo sballo e mai vorrebbe vivere una vita come la loro! Dall’interno del locale arriva, ovattata, la canzone Comfortably numb dei Pink Floyd; non capisce una sola parola del testo ma la musica, accidenti, è da sballo e s’insinua nel cervello come l’eroina è entrata nel suo cuore.
Dopo aver fumato qualche sigaretta, è annoiato del posto e si alza per andarsene, quando nel parcheggio incontra Giuseppe che lo invita a fumare una canna; per suo principio non rifiuta mai un invito a sballare, quindi sale sulla Vespa dell’amico e vanno a imboscarsi in un posto appena fuori dal paese, giusto per stare tranquilli e lontani da occhi indiscreti.
Siedono sull’erba, l’amico prepara la canna, lui una striscia d’eroina da sniffare; l’amico non sapeva che si bucava da un po’, fino a quel momento lo aveva visto solo sniffare. Filippo lo guarda con la canna in mano e capisce che vuole provare la roba; cerca di convincerlo a desistere, ma l’altro insiste e allora mette giù una riga anche per lui. Mentre l’amico sniffa, lui accende la canna e comprende che molte volte ancora condivideranno questo sballo.
Tornano al bar e si dividono, ha voglia di correre un po’ con la moto, si fionda a folle velocità sulla stradina di campagna che porta alla strada principale, per due volte rischia di cadere, poi, arrivato sulla strada provinciale, accelera ancora e in fondo a un lungo rettilineo rallenta e accosta davanti ad un ristorante, la canna gli ha stimolato l’appetito.
Entra, si siede e ordina spaghetti ai formaggi con una birra grande; mangia di gusto ed è strano perché di solito non lo fa per giorni; questa è fame chimica, borbotta sottovoce mentre pensa che si deve ricordare di comprare del fumo la prossima volta che prende la roba, così almeno riesce a mangiare qualcosa. Da una vecchia radio la canzone Spalle al muro di Renato Zero si espande nel locale; pensa a chi potrebbe voler ascoltare questa lagna, ma poi lo colpisce una frase “Vecchio, sì, Con quello che hai da dire, Ma vali quattro lire, dovresti già morire, Tempo non ce n’è più, Non te ne daranno più…”. Riaffonda la forchetta negli spaghetti dicendo a se stesso che non serve pensare alla vecchiaia, tanto non ci arriva di sicuro e che in fondo è meglio morire di droga, che spegnersi all’ospizio o in ospedale per qualche tumore.
Aveva quasi finito gli spaghetti, stava per ordinare una bistecca con le patatine, quando vede entrare Elisa, un’amica di qualche anno più grande, che si trascina al suo tavolo, trema e suda allo stesso tempo, sembra quasi che abbia della bava alla bocca e puzza da morire, si vede che è in astinenza e gli chiede, quasi gridando, se ha della roba da darle. La zittisce di brutto e le dice di uscire fuori, che forse qualcosa si può fare, ma lei non se ne vuole andare e inizia anche a piangere, adesso lo ha fatto incazzare, perché se ci fosse uno sbirro nel locale lo potrebbero perquisire e allora sarebbero casini seri. Si alza e afferrandola per un braccio la porta fuori, individua subito la sua auto e ce la butta dentro. Sbatte la portiera da incazzato e si ferma per qualche secondo a guardarla affossata nel sedile, non ha proprio più niente della bella ragazza con cui meno di tre anni prima aveva trascorso qualche giorno al mare; era un fiore sgargiante e adesso gli sembra un morto vivente, non che lui sia messo tanto meglio, ma almeno ha un aspetto migliore. L’ultima estate lucida che ha trascorso; non stavano insieme, si erano semplicemente ritrovati in vacanza nella stessa località, in alberghi a poche decine di metri, complici il destino e le decisioni dei rispettivi genitori. Aveva sempre avuto un debole per lei, ma non aveva mai avuto il coraggio di dirle niente, lui le aveva insegnato a nuotare e lei a baciare, una sera sul finire dell’estate, forse per riconoscenza o forse per amicizia, non lo aveva mai capito. Comunque adesso l’eroina s’era portata via tutto, rimanevano solo i ricordi, ma con quelli non ci puoi mica vivere, al massimo sopravvivi, che non è per niente la stessa cosa. Rientra, tutti lo guardano, fa finta di niente ma gli rode di brutto. Io qua non ci torno più. Finisce in fretta la birra, paga il conto ed esce.
Sale sull’auto, lei è rannicchiata al posto di guida, trema, piange e lo supplica di darle una dose. Le chiede se ha i soldi, gli risponde di sì e allunga cinquantamila lire, estraendole dal reggiseno. Lui dice che nelle sue condizioni non servono a granché, ma lei lo supplica piangendo e dicendo che sta troppo male. Controvoglia afferra i soldi e le dice di andare in un posto non troppo lontano da lì.
È il guado di un torrentello, di solito ci passano i trattori per coltivare i campi dall’altro lato; l’acqua non supera i quaranta centimetri. Gira l’auto per il ritorno e le chiede se è in grado di farsi da sola; lei risponde scrollando la testa, allora decide di fargliela lui, ci impiega un po’ di tempo per trovarle una vena buona, poi gliela inietta.
Non ha ancora finito di iniettarle la roba che le vede gli occhi roteare all’indietro, le braccia crollano, il respiro quasi si blocca: è in overdose! Cerca di farla riprendere con degli schiaffi, prova anche con il massaggio cardiaco, non c’è niente da fare; respira ancora, ma è sempre più cianotica; la sposta al posto del passeggero e si mette alla guida, non ha la patente e non sa come si guida un’auto. Armeggia con l’accensione, la frizione e l’acceleratore, poi scende e si mette a correre lungo la stradina sterrata fino alla strada principale, si piazza in mezzo alla carreggiata e un’auto per fortuna si ferma: due coetanei che tornano dalla partita a calcio lo aiutano a caricarla sull’auto e partono a razzo verso l’ospedale. Nell’auto c’è aria di morte e di tragedia, per l’amara ironia della vita, l’autoradio diffonde Who wants to live forever dei Queen, di questa conosce le parole. “Non c’è tempo per noi” tossici disperati, “non c’è spazio per noi” provetti criminali, “Cos’è che costruisce i nostri sogni, eppure ora scorre via?” l’eroina nelle nostre vene. “Chi vuole vivere per sempre, chi vuole vivere per sempre?” nessuno, fratello, nessuno. “Non abbiamo scelta, il nostro destino è già stato deciso. Questo mondo ha un solo dolce momento messo da parte per noi”. Sì, la morte e allora diamoci da fare.
Mancheranno sì e no ottocento metri al Pronto Soccorso quando si accorge che non respira più: è morta nelle sue braccia a pochi metri dalla salvezza, un urlo bestiale gli esce dalla gola e poi le lacrime copiose gli annebbiano la vista.
Arrivano al Pronto Soccorso, scende con calma, ormai non c’è più bisogno di correre, la prende in braccio ed entra, un medico e due infermiere gli vengono incontro, guardano attoniti il viso di un giovane tossico cresciuto troppo in fretta. Delicatamente la depone sulla lettiga e cerca di spiegare al medico l’accaduto, vogliono tenerlo lì per la Polizia, ma si divincola con furia e scappa. Dietro un muro della stazione dei treni si fa un’altra dose per lenire il dolore.
Due giorni dopo è fermo davanti alla chiesa di questo fottuto paesello, è talmente fatto che non riesce a tenere gli occhi aperti, piove ma non gliene frega niente dell’acqua che inzuppa i suoi vestiti; aspetta il ritorno di Elisa dall’obitorio, dove sa che le hanno fatto l’autopsia, ennesimo sfregio a un essere indifeso.
Lentamente il furgone delle pompe funebri entra nella piazzetta, si ferma e i due addetti estraggono la bara per l’ingresso in chiesa; non ha il coraggio di avvicinarsi, è un vigliacco e un debole, si limita a farle un cenno di saluto con la mano, sperando che lo possa vedere e che possa perdonarlo per averle dato la dose che l’ha uccisa. Un amico si avvicina e gli chiede se vuole entrare per il funerale, risponde di no scrollando la testa, non è portato per la religione e per Dio, conosce solo la dura legge della vita e sa che per quelli come lui non c’è comprensione o pietà. Hanno scelto i margini della vita e ai margini devono morire, difatti non ci sono che una ventina di persone al funerale. Lei entra in chiesa accompagnata dal dolore dei genitori, lui come sempre scappa e si rifugia nell’ago ipodermico per l’ennesimo buco.

Anni dopo, in una cella di un carcere, mentre mette in ordine le sue cose dopo un trasferimento, Filippo ritrova una vecchia foto in cui sono sdraiati su una spiaggia, sorridenti e ancora liberi dal demone dell’eroina. La guarda a lungo e scoppia a piangere con un’intensità mai provata prima; realizza in pochi secondi di avere sulla coscienza la vita di una persona e ammette a se stesso di aver contribuito a uccidere l’unica persona che nella sua vita gli ha dimostrato delicatezza e affetto, forse anche amore. Sono lacrime anche più amare, perché giungono dopo anni vissuti a giustificarsi per le scelte fatte, a scaricare sugli altri le sue responsabilità, a sfuggire alla realtà, a non accettare le difficoltà della vita, a ostinarsi a non voler vivere, a volere solo la propria autodistruzione.
Molti anni ancora Filippo ha trascorso in carcere, ma ora ha capito tante cose della vita, dolorosamente apprese sulla sua pelle. Adesso sa che la vita non si misura in quantità di denaro o beni di lusso, ma in quanto ci si ama e si ama, in quanto ci si rispetta e si rispetta, che la vita è soprattutto sacrificio e abnegazione in quello che si crede e anche che vivere da lucidi non è un obbligo dettato dalle leggi ma un dovere personale per il proprio benessere e per quello di chi vive intorno a noi.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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