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Un luogo invisibile per chi non vuol vederlo…

Giuseppe Pablo Stralla


Il carcere è un luogo invisibile, forse perché non ci si pensa mai quando la vita scorre sul binario della normalità. Lo si immagina attraverso i film, oppure si cerca di indovinarne la struttura quando, passando accanto a un alto muro anonimo, lo sguardo cade sulle garitte di sorveglianza e sulle grate. Enorme recinto che circonda una sorta di piccolo paese, strutturato come le scatole cinesi: i reparti, con le sezioni e le celle… E dentro una di queste ci sono io.

 La cella
 Quando osservo da lontano, come fossi spettatore di me stesso, ciò che mi circonda, vedo solo desolazione e un immenso squallore, a cui mi sono tristemente abituato, vivendo quotidianamente immerso in questo contesto come in modo normale. Sono in carcere da oltre undici anni, per casa ho una cella dove ci sono posti letto per altre persone, fino a un massimo di quattro.
 Scruto la stanza dove scorre inesorabile il tempo della mia condanna e penso stupidamente che forse i clochard baratterebbero la loro precarietà sociale con la mia certezza di un tetto e un piatto, ma forse restare liberi vale molto più di tutto questo.
 Nel monolocale svolgiamo tutto ciò che si fa normalmente negli alloggi con più locali: dormiamo, mangiamo, leggiamo o scriviamo e tutto senza distinzioni tra fumatori e non, senza rimedi per eventuali flatulenze, alito pesante o puzza di piedi, che i 70 cm. circa di distanza tra un letto e l'altro non possono certo arginare. Dormire con gli odori poco gradevoli di fumo, mozziconi spenti male, oltre a tutto il resto, diventa ardua impresa a cui bestialmente ci si abitua, con un intenso allenamento, obbligatorio e costante.
 Fortunatamente il locale adibito a toilette è separato dal resto, ma questo vale solo per le celle multiple, mentre per quelle singole è tutto a cielo aperto... “tanto è tutta roba tua”.
 Quindi nella cella dove io sono ospitato c'è il cesso separato dal resto con un muro e una porta leggera in legno che, per assicurarci un minimo di privacy, viene fermata con un cordino che, dalla maniglia, si attacca a un chiodo piantato da noi nel muro, il tutto con utensili di fortuna perché non esistono martelli ma culi di caffettiere usati per piantare chiodi clandestini in una parete. In questo modo ci sentiamo garantiti da improvvise invasioni durante i momenti  fisiologici, oppure in quei momenti di intimità che io ho denominato "l'ora dell'amore", quando ti assale quel particolare stimolo e il corpo chiede più della mente, sollecitata da ricordi di erotica affettività con la compagna del cuore o con la persona con cui si sono vissute emozioni intense e profonde legate alla sessualità, alle quali cerchi di non rinunciare nonostante la castrazione carceraria, così crudele da colpirti nella più intima fibra. Questo strappo sconvolge l'equilibrio di relazione e quello bioritmico, senza trascurare quello psicologico di chi sta dentro e di chi resta fuori. La sessualità mancata è al primo posto tra i motivi di sfaldamento delle coppie, quando c'è la separazione indotta dalla detenzione, aberrante e umiliante, ci si deve sforzare per non pensare a ciò che potrebbe accadere se chi resta fuori provasse le nostre stesse necessità  e non facesse ricorso, come noi, all'autoerotismo.
 La televisione in cella, perennemente accesa, è un indotto di immagini seducenti, figure femminili sempre meno vestite e sempre più spregiudicate che compaiono in film, reality e persino nelle pubblicità, e mandano messaggi erotici. La notte poi diventa un carosello di "Peep-Show", un intercalare di spogliarelli integrali, mimiche di incontri saffici, transessuali e gay, ce n’è per tutti i gusti. Un turbinio d’immagini che può persino diventare dannoso per la mente di chi, privato di un naturale sfogo sessuale, recepisce un messaggio distorto e deviato della normalità del sesso, e inoltre provoca un'eccitazione forzata che, una volta sfogata, lascia un senso di amarezza.
A parte questo, in bagno si svolgono anche altre attività (meno male...), lì cuciniamo, curiamo la piccola igiene personale (in quanto la doccia è situata in un locale fuori dalle celle), laviamo le stoviglie e la piccola biancheria...insomma è un laboratorio polifunzionale di un metro  e 20 di larghezza per cinque metri scarsi di lunghezza, un budello.
 La televisione è una sorta di finestra virtuale su un mondo sempre più tormentato da guerre, scandali, illegalità amministrative e quant’altro, queste immagini entrano anche nelle case della gente, dove ci sono bambini che vedono esaltare la morbosità della cronaca, dove sangue e violenza la fanno da protagonisti. I bambini sono spesso vittime innocenti di conflitti e malattie, di perversioni pedofile, nonché della stessa informazione televisiva che distribuisce messaggi subliminali di violenza. Anche noi, in carcere, veniamo bombardati da messaggi che non insegnano niente di positivo, anzi ci comunicano disagi, illegalità diffusa e vergogna.
 È possibile eludere questo martellamento tormentoso solo quando si può stare in una cella singola... già, la cella singola ormai è da considerarsi un lusso in questo particolare hotel, mentre dovrebbe essere una cosa normale. Eviterebbe anche futili litigi che, a causa della convivenza forzata e mal sopportata, sfociano in violenza gratuita con conseguenze sanzionabili che portano al cambio di cella di uno dei coinvolti, d’altronde sarebbe impossibile riportare una quieta convivenza dopo certe esagerazioni, causate proprio dalla mancanza di spazio e di privacy. La cella singola, in gergo la chiamiamo "mezza galera", ed è vero. Vi sono momenti in cui la disponibilità ad ascoltare o a dialogare con i propri compagni viene meno, i problemi o gli interrogativi posti trasmettono assilli pesanti che rimuovono ricordi dolorosi che si pensavano accantonati. Purtroppo lo sfogo di uno può improvvisamente diventare la pena di un altro e  questa eventualità, ‘loro’ non la mettono in conto o non gl'importa quando ci sbattono dentro una cella con gente sconosciuta, come a voler dire: “ State lì ammucchiati, gomito a gomito, respirate i vostri stessi miasmi e, che fumiate o no, vi  abituerete presto al lezzo “.
Persino l'abbigliamento puzza, anche se è pulito, gli armadietti in cui lo riponiamo sono nello stesso locale e non sono ermetici, perciò l'odore di chiuso penetra dappertutto, si spalma persino sulla pelle e non c'è profumo che valga, si ottiene solo uno strano odore multistrato.
 In cella, per guardare dalla finestra e spaziare con lo sguardo oltre il limite delle pareti o dei cancelli che sono intorno a noi, si deve allungare il collo, stare in punta di piedi o salire su di uno sgabello. Potersi rilassare guardando le piante, il prato oppure una partita al pallone o di tennis diventa un'impresa, ci vorrebbero finestre ad altezza standard perché, di essere prigionieri, noi lo sappiamo già... Questo difetto l'ho trovato solo in pochi istituti di pena, ma dovrebbe essere eliminato ovunque.
Fuori della cella, vi è un lungo corridoio, sempre in penombra, sul quale si affacciano altre stanze simili a quella dove sto io. È triste, quasi spettrale, osservandolo da lontano, appare come un girone infernale di cui Dante scriveva: “ Perdete ogni speranza o voi che entrate”.
Nonostante io stia vivendo da diversi anni in questo ambiente, mi sorprendo spesso a pensare che l'uomo è l'animale con più spirito di adattamento. Altre specie di animali, quando vengono strappate al loro habitat e sistema sociale, molto spesso periscono... Forse accade anche a noi, che privati della libertà e dei nostri legami più stretti, moriamo un po' ogni giorno, così come scompaiono intorno a noi quei riferimenti che ogni anno di galera in più sfoltisce inesorabilmente.

Buongiorno, sono Carlo, posso aiutarla?
Nelle città si celano mondi invisibili, il sottosuolo è uno scrigno pieno di sorprese, una di queste l’ho avuta in carcere, nel call center dove lavoro: attraverso la rete di cavi e fibre ottiche per la comunicazione telefonica, sono riuscito a viaggiare con la voce e i racconti dei clienti che mi chiamano.
I lunghi striscioni verticali della tenda in tela bianca lasciano intravedere dalla finestra un lembo di prato verde, spesso reso brillante dal sole che splende impavido in un cielo terso, di un bell’azzurro intenso (nonostante l’inverno), che contrasta con il muro grigio di cemento armato così alto e troppo, troppo vicino, contro cui si schianta la profondità dello sguardo. È quello che io vedo ogni giorno dalla postazione che occupo lavorando in un call-center molto particolare (non nel senso di una linea erotica), dove entro in contatto con il mondo e posso viaggiare con la mente mentre parlo con tantissima gente: del Sud, del Centro e del Nord Italia, ma anche con tanti stranieri, cittadini d’Europa e non.
Cosa c’è di strano? Apparentemente nulla, è uno dei tanti call-center della Telecom Italia, che risponde alle informazioni sugli elenchi dal 1254, quello pubblicizzato dalla bella Adriana, con quel ritornello del “tatà tatà”, e da Christian De Sica, il simpatico attore. Ma questo ha una particolarità: è stato realizzato tra le alte mura di un carcere, quello romano di Rebibbia.
Devo dire che io sono orgoglioso di essere stato selezionato per questo lavoro. Dopo anni di detenzione, vissuti isolato dall’esterno e lontano anche dalla mia famiglia, quest’opportunità ha ridato senso a una condanna diventata solo afflittiva e senza emozioni, tolte quelle che mi danno i libri e ciò che io stesso scrivo. Il contatto umano è forse il lato più interessante di questa attività; incontro ogni giorno un sacco di gente, mi sono creato un “mondo” virtuale di cui sono diventato un esperto viaggiatore, un navigatore in rete alla velocità della luce!
[…]
Ricordo una telefonata di una giovane donna toscana; mi chiedeva, tra singhiozzi soffocati a stento, informazioni relative a un centro oncologico, e si lasciò andare a uno sfogo, raccontandomi di aver subito solo da pochi mesi prima una laparotomia totale con asportazione dell’utero. Era madre di due bambine piccole e consapevole di avere un altro tumore al seno e alla tiroide. La ascoltai con attenzione, colpito dalla sua immensa tristezza, era un dramma al quale ho dato uno spazio che normalmente  non posso concedere. Il tempo massimo imposto dalla cooperativa per la quale lavoriamo è di circa 1 minuto e mezzo per ogni ricerca, un tempo che non superiamo mai nei casi comuni, ma quella chiamata la feci durare qualche minuto in più per offrirle, oltre all’informazione richiesta, anche un supporto morale e soprattutto psicologico. Mi sentii investito di questa capacità; le confessai dov’ero e che potevo comprendere la sua situazione: ne avevo vissuto una simile accanto a una mia amica e glielo spiegai con dolcezza, quasi abbracciandola mentalmente; potevo immaginare il suo viso irrorato da lacrime amare, piene di dolore e di incertezze per il futuro delle sue bambine. Fu doloroso anche per me e non posso nascondere d’aver pianto con lei per un momento. Si sentiva ormai inutile, privata della sua più intima femminilità, così giovane e con un marito impreparato a tutto ciò e che non la cercava più, negava un contatto fisico che ormai entrambi ritenevano impossibile. Qui la interruppi  e cercai di rassicurarla. Mi salutò con voce sollevata. Forse in pochi minuti, uno sconosciuto come me le aveva ricordato che c’è sempre una speranza e che doveva crederci!
Le giornate si susseguono apparentemente uguali, ci sono momenti in cui sono meno disposto al dialogo ma ho imparato che la mia disponibilità verso chi ci chiama deve sempre essere totale, è un contatto empatico, da stabilire col cuore allegro e con un sorriso sulle labbra quando, al trillo d’avviso di chiamata in corso, dico: «Sono Carlo, buongiorno. Posso aiutarla?», quasi sempre la risposta con tono sollevato dice: «Sì grazie…» e poi inizia la serie di richieste. Mi piace sentire tante persone di ogni età o estrazione sociale che chiudono la comunicazione con un: «Grazie, è stato davvero gentile, insolito quando si chiama per informazioni, sa?».
Questo lavoro, svolto da noi maschietti, sessualmente condannati all’inibizione della libido e delle affettività fisiche, può creare il rischio di “cadere” su una cliente stile “glamour” — così le identifico io — insomma una donna che per telefono trova il coraggio di insinuarsi, di tentarmi, magari spinta dal tono della voce gentile e accattivante. Da queste telefonate al peperoncino, nonostante le regole etiche, a volte mi lascio coinvolgere, reso vulnerabile da un lungo digiuno di affettività e di sesso e da stimoli particolari. E per qualche minuto si gioca, diventa così un incontro a due, al buio…, solo le voci che diventano poco a poco più basse, seducenti sono loro le protagoniste e quindi non si è più né belli, né brutti, in quel caso siamo il Mikey Rourke e la Kim Basinger di 9 settimane e mezzo. Il gioco si fa incalzante, disinibito, inizio a sentire un certo calore, mentre dall’altro capo del filo sento che le parole si fanno maliziose e il respiro pesante, cose che diventano irripetibili in situazioni normali e che mi riportano a momenti vissuti in alcune occasioni un po’ estreme… molti anni fa!
Bisogna che ce la metta tutta per dire basta e ricondurre la telefonata su toni più normali, per giungere via via a congedarmi con disinvoltura, ringraziando mentalmente la mia occasionale complice di filo… L’eccitazione si spegne e i ritmi delle pulsazioni si placano, tornando alla normalità, sono momenti rubati spudoratamente, desideri inappagati davanti a un computer, di cui poi resta solo un ricordo sfocato, tanta amarezza e… vergogna! Sono casi sporadici, non mi lascio sedurre tutte le volte e mi stupisco di quante persone ci siano con questo genere di piccola perversione, non avrei mai potuto immaginarlo se non avessi fatto questo lavoro e spero che nel mio caso qualche peccatuccio sia tollerabile, approfittarne  toglierebbe il carattere etico che do al mio lavoro.
Capitano anche cose divertenti.
«Buongiorno sono Carlo, posso aiutarla?»
«Certo, sto cercando una discoteca…»
«Come si chiama il locale?»
«La Rotonda sul mare…»
«Ah…quella del disco che suona? » cercando di essere accattivante mentre digito i dati.
« No. Lì fanno solo musica dal vivo! »
Colpito e affondato.
Quante riflessioni faccio da quando sono in contatto con tanta gente! Ciò mi aiuta a mantenere il rapporto con la realtà del mondo esterno, che si evolve, cambiano le necessità delle persone e aumentano le diffidenze, i timori.
Un giorno mi chiama una signora che dalla voce immaginavo essere molto anziana e, dopo averla salutata mettendomi a sua disposizione, mi dice: «Senta, per favore può cercarmi una Casa di Riposo qui vicino?»
«Vicino a dove, signora?»
«Beh… nei pressi del paese…»
E chiedo gentilmente: «Certamente signora, ma che paese è?»
«Ma qui, a Ferrara no?»
«Signora io sono a Roma, non posso immaginare che…»
«Scusi sa, ma credevo che mi rispondeste da qui…»
E, dopo averle chiesto ancora se conosce il nome della struttura che cerca,  mi sento dire di trovargliene una qualsiasi…«Ormai sono anziana e sola, perciò preferisco vendere la casa e ritirarmi in un ospizio…»
Colpito da tanta tristezza, le chiedo: «Signora, ma non ha nessuno? Che so, qualche parente…»
«No, magari!».
Cerco di tirarla su di morale e le suggerisco di trovarsi una brava persona, una badante o un’amica nelle sue stesse condizioni e dividere la casa e le spese, di rimandare quella decisione. Per me che sono in carcere l’idea dell’ospizio è davvero opprimente.
Insomma, alla fine mi saluta con un: «Mo’ sa che m’ha dato una bella idea? Meglio a casa propria in fin dei conti, perché poi in quei posti là, chissà come ti trattano… Mo’ è stato proprio gentile, al giorno d’oggi ‘sti giovani non sanno più comunicare con noi vecchi…»
E io di rimando: «Vecchi solo quando si muore, signora mia! E si goda ogni giorno che può a casa sua, mi dia retta… La abbraccio forte, proprio come un nipote la sua brava nonnina… A presto!» E chiusi la comunicazione con gli occhi umidi.
Questa attività mi ha fatto conoscere un nuovo modo di ascoltare, di immaginare chi c’è dietro una voce e darle un volto. E’ una scommessa… un piacevole passatempo che mi fa dimenticare per sei ore, la durata del mio turno, di essere qui…in carcere.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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