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Vergogna
Vergogna
Federico Abati
Era una splendida giornata di sole. Lungo la strada la solitudine dell’ora di pranzo mi dava un senso di libertà, con tutto il significato che questa parola riesce ad avere per uno che si era fatto incatenare dalla roba per dodici anni, ma che si era faticosamente ripreso.
Lavoravo, avevo una donna che amavo, nuovi amici… ma soprattutto avevo di nuovo l’affetto di mia figlia Alice, tredici anni, da me abbandonata con sua madre quando ne aveva due, proprio nel momento in cui avrebbe avuto più bisogno di me. Adesso mi adorava e fremeva per recuperare il tempo perduto.
Eravamo d’accordo, dovevamo vederci alle due del pomeriggio sul lungomare di Ostia, al bar della rotonda. Dopo il divorzio da sua madre ci vedevamo in giorni stabiliti, attesi con gioia da tutti e due. Scorrazzavamo in macchina cantando a squarciagola le canzoni degli Eurythmics che sapevamo a memoria e poi decidevamo insieme il programma della giornata.
Sulla corsia centrale della Colombo correvo perché sapevo quanto mi stesse aspettando e pregustavo il momento dell’incontro e cosa avremmo fatto dopo; ero arrivato alla fine della strada, davanti a me solo il mare e la traversa che mi avrebbe portato da lei, ma più vicino ancora c’era la casa di Alfonso, una conoscenza vecchia della vecchia vita. Ci sono cose che rimangono per sempre dentro, magari nascoste a noi stessi, e che poi, senza motivo, vengono in superficie in modo prepotente e ti rimettono in pista, quella pista sulla quale non avresti più voluto ballare, che volevi dimenticare…, e mandi a puttane tutto quello che avevi sognato di essere. Perché i sogni non basta raggiungerli una volta, ognuno di quegli obiettivi faticati va difeso, confermato tutti i giorni. Perché l’eroina si radica in profondità in attesa del minimo dubbio, e il dubbio di quella giornata era se sarei stato in grado di renderla meravigliosa come Alice si aspettava: ero all’altezza dei suoi desideri? L’incertezza aveva incrinato la mia forza e in questa incrinatura si era fatta spazio la malattia di sempre: il senso di inadeguatezza verso tutto e tutti, l’incapacità di essere adulto, genitore come l’educazione distorta ricevuta fin da piccolo mi imponeva; quella perfezione che il confronto con mio padre mi chiedeva, io non la sentivo: ero solo un uomo debole pieno di dubbi, di difetti, di paure. L’eroina mi aveva cancellato queste imperfezioni sempre, l’avrebbe fatto anche questa stavolta, e io e Alice avremmo avuto la nostra fantastica giornata. Solo stavolta però, poi avrei avuto tutto il tempo per lavorare su queste debolezze… e poi in fondo tra roba, farmacia e buco avrei perso solo altri dieci minuti…. Ma vuoi mettere questo piccolo ritardo come avrebbe trasformato in meglio la giornata a me e ad Alice?
Lei tanto avrebbe aspettato solo qualche minuto in più, per me, per il suo papà, come poteva immaginare quello che stava succedendo al suo destino? Come poteva una bambina di tredici anni concepire di essere messa in secondo piano da suo padre, e per che cosa poi? Intanto, come sempre, la roba stava pensando al posto mio e, per il suo altare, quei dieci minuti erano un sacrificio troppo piccolo. C’era tutto un rituale da rispettare: in farmacia per la siringa, in macchina apri la bustina, squagli la polvere nella fiala, stringi il laccio emostatico per vedere la vena, l’ago forza la pelle prima di entrare, poi tiri su per controllare se sta dentro, infine spingi e aspetti mentre sale, e sale piano piano… Chiudi gli occhi sotto la botta… per ore.
In quelle ore che passavano, pesanti, Alice avrà elencato dentro di sé mille giustificazioni possibili per discolparmi, finché, a malincuore, si sarà dovuta arrendere a quell’ipotesi, l’unica che non voleva accettare.
Io, mentre lentamente tornavo a galla, prendevo contatto con quello che avevo fatto. Sapevo di essermi messo in una situazione orribile e sapevo di non poterne uscire con il solito sorriso disarmante. Stavolta l’avevo colpita proprio quando era più scoperta, avevo ucciso lei e tutto quello che di bello le avevo dato; avevo cancellato le sue speranze, e le mie… Non potevo essere il padre che lei avrebbe voluto, o forse avevo paura di esserlo, tant’è vero che non avevo voluto nemmeno provarci.
Ci sono voluti tanti anni, migliaia di altri buchi rabbiosi per capire la risposta, percepire interamente chi ero e chi avrei potuto essere. Ma quanto mi ha fatto male farle male in quel modo, e quanto è insopportabile per me ricordarlo, anche adesso! Ogni volta la rivedo seduta in quel bar, lo sguardo rivolto alla strada, all’orologio, le labbra sporte in fuori, le sopracciglia aggrottate, le mani impegnate in qualcosa per scaricare la tensione.
Adesso ha ventidue anni, ma ogni volta che mi guarda aspetto di sentirmi dire: lo sai che io sto ancora seduta a quel tavolino ad aspettarti?
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il 7/2/2014


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