2) RIEDUCAZIONE E REINSERIMENTO
[Il principio della rieducazione è praticabile? Che senso ha se il sistema sociale non è attrezzato al reinserimento? È possibile dare comunque un senso al tempo della detenzione?] Michele – Io ho da scontare una pena di oltre 5 anni; la prima parte di questo tempo l’ho trascorso in un camerone affollato dove non era possibile fare niente, poi ho iniziato un mio percorso con lo yoga, le letture, la scrittura... Ora, se io divento capace di sfruttare il tempo per una mia crescita, questo dovrà pur essere riconosciuto, però questo nella realtà non avviene. Raffaele - Quando si esce da qui le possibilità di reinserimento sono pochissime, giusto qualche cooperativa che ti dà un salario in genere insufficiente e precario. Allora come si fa a parlare di rieducazione dentro, se poi fuori non esistono le condizioni per una vita dignitosa? Della Ratta – La partita che si gioca fuori nella società è certo la più grande, e a poco serve che lo Stato rimuova gli ostacoli che dentro impediscono una detenzione umana e una pena efficace, se fuori non si interviene adeguatamente. Resta il fatto però che, visto che qui si deve stare per un periodo di tempo, vale la pena questo tempo trascorrerlo nel modo migliore. Rispetto al riconoscimento, il sistema penale per funzionare deve basarsi su sanzioni e riconoscimenti. Voglio insistere su questo concetto riportandovi una citazione dal Comento sopra la Divina Comedia di Giovanni Boccaccio, in cui per spiegare il buon funzionamento dello Stato si fa una similitudine: ogni repubblica, come ogni individuo, poggia su due piedi, il destro è quello che punisce, il sinistro premia; se uno dei due per negligenza o pigrizia non funziona, la repubblica va “sciancata”, se mancano tutti e due, la repubblica non cammina proprio. Questo per dire che ogni giorno dovrebbero essere richieste e date prove di affidabilità e responsabilizzazione. Massimo – A me non piace la parola “rieducazione”, tutt’al più parlerei di “educazione”, nel senso che il detenuto deve essere deputato a pensare; la rieducazione si fa con gli animali, Mao Tze Tung e Hitler praticavano la rieducazione. L’educazione, come sistema di premi e castighi, è qualcosa che si pratica nell’infanzia, ma quel processo finisce con l’età matura. Paolo – Io penso invece che l’educazione sia un processo che continua per tutta la vita e che il sistema di premi e castighi funzioni sempre, non solo con i bambini; se non si pensasse così significherebbe limitare le possibilità di miglioramento dell’uomo attraverso la conoscenza e il confronto. Però il carcere non funziona in questo modo. Diverso sarebbe se diventasse una sorta di S.p.A., dove si praticano lavori utili alla società, con dentro, per es., una serra, un panificio, ma anche un impianto per la costruzione di pannelli solari, cioè lavoro qualificato, che il detenuto, finita la pena, potrebbe conservare. Della Ratta – Che vuol dire rieducazione? Che il carcere deve essere un luogo in cui la persona viene aiutata a fare scelte libere, perché il presupposto è che spesso si fanno reati perché non si riescono a trovare altre strade. Ma deve essere la persona a volerlo; non le si può dire: tu devi cambiare e trasformarti, né si tratta di insegnare a essere dei bravi detenuti (quello lo si può imparare subito e facilmente). Il carcere può servire, invece, a sviluppare un diverso rapporto con le norme e la società, a individuare un’altra strada, a dire: ci vuoi provare? Il lavoro e lo studio sono importanti strumenti di educazione, per questo è grave che non ci siano opportunità di lavoro per tutti. Nelle carceri tedesche, invece, i detenuti possono, tutti, lavorare, e questo significa poter mantenere le famiglie, avere un ruolo… |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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