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Il perdono
riparazione e riconciliazione
Adolfo Ceretti
Pubblicato in: “Ars Interpretandi”, 9, 2004, pp.47-67.

 

1. Le rivoluzioni negoziate.
Nella seconda metà del Ventesimo Secolo, la storia di molti Paesi è stata caratterizzata dalla transizione verso la democrazia dopo decenni di governi di stampo autoritario, dittatoriale, militare: in Europa, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la caduta del nazismo; sempre in Europa, più recentemente, in seguito al collasso dell’Unione Sovietica; nell’America del Sud, con l’opposizione ai regimi autoritari nati dai golpe degli apparati militari; e infine, in Sudafrica, in seguito alla fine del regime dell’Apartheid.
E’ sicuramente un percorso nuovo e peculiare della storia contemporanea quello intrapreso da quei Paesi che hanno saputo gestire il percorso di transizione, il più delle volte in modo pacifico. Laddove invece nel passaggio il tragitto dei popoli ha incontrato la guerra – come nella ex Jugoslavia o in numerose repubbliche della ex Unione Sovietica – ciò è accaduto per cause complesse, che rimandano soprattutto ai nodi della rivendicazione nazionale e della identità etnica.
Alex Boraine  afferma che i Paesi in transizione sono accomunati da alcune caratteristiche simili: 1) il passaggio da un regime totalitario a una forma di democrazia; 2) un periodo di oppressione e di gravi violazioni dei diritti umani; 3) un governo fragile e un’unità precaria; 4) l’impegno alla promozione di una cultura dei diritti umani e di rispetto della legalità; 5) la determinazione a impedire che le violazioni passate si ripetano.
I Paesi in transizione devono inoltre confrontarsi, sempre secondo Boraine, con alcune questioni centrali: 1) come affrontare un passato di abusi dei diritti umani; 2) quali misure adottare nella fase di transizione, e quale atteggiamento tenere nei confronti dei responsabili di quegli abusi.
Le transizioni pacifiche, o rivoluzioni negoziate, cui abbiamo assistito – quella vissuta dai Sudafricani è estremamente significativa per il fatto che il Paese era sull’orlo di una guerra civile – sono state caratterizzate, proprio per il loro carattere non violento, dalla ricerca di un compromesso più o meno dichiarato tra i detentori della vecchia autorità e i movimenti rappresentativi delle nuove istanze.
In Sudafrica, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso si sono confrontate due posizioni politiche opposte: da una parte, il Governo Sudafricano avrebbe voluto dimenticare i decenni dell’Apartheid (considerati come un “errore”) per concentrarsi sulla costruzione di un Paese nuovo; dall’altra parte, l’African National Congress e le altre organizzazioni di liberazione avrebbero voluto l’incriminazione dei responsabili della politica segregazionista e delle violazioni dei diritti umani attraverso l’istituzione di tribunali speciali, ispirati al modello di Norimberga.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana (Truth and Reconciliation Commission; da qui in poi: TRC) rappresenta uno degli esiti del compromesso  raggiunto tra le parti contrapposte, e ha consentito di superare la distanza tra due posizioni apparentemente inconciliabili.
Inoltre, la scelta Sudafricana della via negoziata è stata favorita da un’ ulteriore circostanza: uno scontro violento, anche qualora si fosse concluso con un mutamento delle condizioni sociali favorevole alla popolazione nera, avrebbe certamente avuto quale conseguenza l’esodo della popolazione bianca dal Paese. E poiché quest’ultima controllava e controlla gran parte delle attività economiche, l’ulteriore conseguenza sarebbe stata quella di una crisi economica dalla quale il Paese avrebbe impiegato decenni a uscire. Tutto ciò significa, allora, che tra le considerazioni che hanno condotto a una soluzione di compromesso va annoverata anche quella relativa alla convenienza di entrambe le parti.

Questa dinamica ha comportato in innumerevoli circostanze un’intersezione tra gli interessi economici e politici, i valori e le istanze socio-culturali della classe dirigente sconfitta e quelli delle élite rappresentative delle nuove istanze, ma soprattutto ha comportato la ricerca di una soluzione che permettesse questa compresenza, questa sovrapposizione. L’ambito politico è stato sicuramente quello dove tale sovrapposizione è stata meno evidente, come conseguenza della sostituzione più o meno diffusa della classe dirigente, mentre tale intersezione è stata più intensa nell’ambito economico e all’interno di quelle istituzioni (forze armate, magistratura, apparati della Pubblica Amministrazione) coinvolte nella ricerca di un accordo e talvolta garanti della mediazione raggiunta  .

Dopo un periodo di conflitti, abusi e violazioni dei diritti umani, la rivoluzione negoziata verso un’epoca di restaurata democrazia e di ricambio della classe politica al potere è una fase molto delicata che passa attraverso un necessario percorso di ri-edificazione. Il ruolo strategico-politico di tale fase (e soprattutto delle procedure e delle modalità con cui si è deciso di affrontarla) è appunto quello di ricostruire, creare una nuova comprensione del regime politico precedente allo scopo di contribuire sia alla legittimazione del nuovo sistema politico che di delegittimare quello vecchio e la sua ideologia, scolpendo un quadro duraturo degli eventi passati  .
Tutto ciò, se da un lato ha permesso e permette di evitare ulteriori conflitti armati e la resistenza inflessibile al cambiamento da parte della vecchia classe dirigente, dall’altro non deve significare che il prezzo da pagare per una svolta pacifica sia l’oblio del passato.
Molti Paesi sono caduti nella tentazione di cercare di allontanare il passato per raggiungere più rapidamente un equilibrio pacifico, concentrandosi sulla costruzione del futuro; tale via è stata seguita nella ex Yugoslavia e, per lunghi periodi, in Rwanda, con la conseguenza che tra le popolazioni di quei Paesi sono rimasti vivi odi e divisioni . Il modello della rivoluzione negoziata, al contrario, non implica il silenzio sui crimini commessi.


2. Le esperienze internazionali dei Paesi in fase di transizione.
Il problema comune a tutti i Paesi in cammino verso la democrazia dopo un’epoca di repressioni e di violazioni dei diritti umani è dunque quello di decidere come affrontare il proprio passato, e attraverso quali soluzioni istituzionali: da una parte, il problema riguarda le modalità con cui porsi nei confronti della vecchia classe dirigente responsabile degli abusi; dall’altra, il punto interrogativo riguarda le vittime di tali violazioni, e la loro riparazione.

Attualmente, i possibili strumenti ai quali fare ricorso per ricostruire la verità (collettiva ed individuale) e promuovere una ri-attivazione della memoria sono molteplici, così come quelli per assegnare (restituire) responsabilità. Sotto il profilo politico-diplomatico si utilizza il termine simbolico di post-conflict peace building per indicare tutti quegli strumenti che mirano a ricostruire un tessuto di comprensione e coesistenza dopo i periodi di scontri e di violenza .

In estrema sintesi, al modello realizzato in America Latina dopo la fine delle dittature militari  e in Sudafrica (TRC), si contrappone il modello dei Tribunali Penali Internazionali (Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, con sede all’Aja; Tribunale Penale Internazionale per i Crimini in Rwanda, con sede ad Arusha, in Tanzania) che affonda le sue radici storiche e culturali nei processi di Norimberga e di Tokyo  e si ispira fondamentalmente alla giustizia penale tradizionale, e alla volontà di pervenire a una verità processuale.
Ancora, un terzo modello è quello che è stato attivato nell’Europa centrale e orientale a seguito della caduta dei regimi comunisti (meccanismi di epurazione, o Lustration Mechanism).

La descrizione delle principali peculiarità delle Commissioni consente innanzitutto di mettere in risalto una differenza ontologica fra questo modello e quello processuale.
In breve, se i processi davanti ai Tribunali Penali Internazionali possono senz’altro contribuire a di-mostrare l’estensione e la gravità delle violazioni e degli abusi commessi, resta il fatto che l’indagine processuale rimane focalizzata sulle azioni particolari di singoli individui, senza aprirsi all’obiettivo – irrinunciabile – di indagare e di portare sulla scena pubblica l’intero quadro delle violazioni. Reputare, infatti, che il processo possa rispondere a questa aspettativa significa illudersi di poter raggiungere attraverso questa via tanto la verità giudiziaria che quella storica.
In concreto, il perno attorno al quale ha ruotato tutto il lavoro della TRC a partire dal 1995 è consistito invece in un inedito modo di affrontare il legame tra verità e giustizia, declinato attraverso diversi livelli di intervento:
- la ricostruzione della dimensione storico-collettiva delle violazioni; alla Commissione sono stati conferiti poteri solo per andare alla ricerca della verità, un'attività circoscritta che non ha alcun legame diretto con l'implementazione dei processi penali e delle risposte punitive;
- la ricostruzione della verità, direttamente collegata alla identificazione degli autori delle violazioni;
- il coinvolgimento degli autori delle violazioni (persecutors), in un percorso di rivelazione e di presa di coscienza delle proprie responsabilità individuali . In particolare:
- la Commissione è stata autorizzata a implementare politiche di riconciliazione e di amnistia soltanto per coloro che avrebbero reso una confessione completa e avrebbero provato che i crimini commessi erano stati motivati da ragioni politiche;
- la legge istitutiva ha definito come atto con un obiettivo politico ogni azione costituente reato collegata con un obiettivo politico, commessa per sostenere o resistere alla lotta politica del periodo dell’ Apartheid ;
- la riparazione delle vittime;
- il coinvolgimento della comunità in un progetto di riconciliazione.


3. Verità individuale e verità collettiva.
Le transizioni pacifiche recano con loro la necessità della riscoperta della storia di un Paese e l’irruzione della memoria individuale e collettiva nella discussione pubblica, il bisogno di sapere ciò che per lungo tempo è stato nascosto. In questo processo di riscoperta assume un’importanza cruciale la costruzione di una identità storica divisa o condivisa all’interno delle singole realtà nazionali, delle singole comunità.
Questo accenno alla memoria rimanda al problema centrale e fondamentale di definire a cosa si allude quando si discute della verità storica, nel senso che a essa viene conferito dall’esperienza delle Commissioni.
Quando un Paese nel quale è stata costituita una Commissione va alla ricerca della propria storia, emerge una duplice dimensione della verità:
- una dimensione individuale, legata all’esperienza del singolo, eminentemente “soggettiva” o – meglio – “personale”, che coincide con la memoria, caratterizzata dalla presenza di sentimenti e sensibilità. In tal senso, la “verità storica” si identifica con la percezione personale/individuale dei fatti e degli eventi da parte della singola vittima o persecutore;
- una dimensione collettiva, legata anche questa all’esperienza dei singoli, ma riportata a un’esperienza comunitaria, derivata dalle prove raccolte e dalle indagini eventualmente svolte per ricostruire il quadro storico delle violazioni commesse dal passato regime  . E’ una verità che nasce da un racconto che coinvolge tutta la comunità di cui fa parte il soggetto narrante, il quale ricostruisce la propria verità a beneficio della comunità che lo ascolta.

Ma perchè la verità collettiva è percepita come così essenziale per i sopravvissuti di un regime?
Anzitutto perchè a essa è attribuito un valore in sè.
Dopo generazioni di negazioni, bugie, nasce un desiderio prepotente, quasi ossessivo, di sapere esattamente che cosa sia accaduto.
Per le vittime della tortura o di violenze collettive la domanda di verità può essere molto più impellente di quella di giustizia. Le persone che sono state torturate non desiderano necessariamente e automaticamente che i loro torturatori di una volta siano condannati e incarcerati. Desiderano innanzitutto che venga riconosciuta la verità . Questo meccanismo mentale, scrive Weschler  , è “una nozione misteriosa, potente, quasi magica, poiché spesso tutti sanno già la verità, tutti sanno chi erano gli aguzzini e cosa facevano e loro sapevano che tutti sapevano, e tutti sapevano che loro sapevano”.
Perchè, allora, questo bisogno di rendere esplicita questa conoscenza?
Nagel sostiene che la risposta sta nella differenza tra il concetto di conoscenza e quello di riconoscimento. Si ha riconoscimento quando la conoscenza viene finalmente ufficialmente sanzionata ed entra, sotto forma di discorso, nella sfera pubblica, nel dibattito pubblico .


4. Le generazioni future. Un tema inestricabilmente intrecciato con quello della TRC.
Aprendo un breve inciso, vorrei sottolineare che il tema delle “generazioni future” è, a nostro giudizio, inestricabilmente intrecciato con quello delle Commissioni.
E’ vero che il lavoro di queste ultime è interamente rivolto a indagare il passato, a disvelare le violazioni e gli abusi commessi e non ha ad oggetto direttamente il presente. Tale volontà è infatti certamente dettata dall’attenzione – dovuta – nei confronti delle vittime di tali violazioni. Ma non è questo l’unico obiettivo perseguito da una Commissione: la sua attenzione è anche rivolta al futuro, alle generazioni successive a quella che ha vissuto un periodo più o meno lungo di violazioni e di abusi.
Riattivare il passato, la memoria, è un’operazione che rimanda alla questione della futura convivenza tra generazioni, che non può essere fondata sull’oblio di quello che è stato. E’ stato il Presidente della TRC, Desmond Tutu , ad affermare più di una volta che il Final Report  dei lavori della TRC si sarebbe collocato nel paesaggio storico al quale le “future generazioni” tenteranno di dare un significato.

Le domande che a tal proposito si pongono apertamente e spontaneamente sono le seguenti: “Le generazioni future hanno diritti?”. E ancora: “Quale è il luogo sociale in cui i diritti devono trovare rispetto?”
Non siamo di fronte solo a domande “filosofiche”, ma anche a istanze volte a orientare concretamente l’azione del presente.

Come è noto, è stato Rawls  a sottolineare l’importanza di osservare come le generazioni siano situate nel tempo, e che gli effettivi scambi tra loro abbiano luogo solo in una direzione: mentre noi possiamo fare qualcosa per i posteri, questi ultimi non possono fare nulla per noi. In altri termini, gli scambi effettivi tra generazioni esistono, ma sono virtuali e sono sempre mediati da un presente che si auto-osserva e si auto-regola in un possibile vincolante rapporto con il futuro. Le generazioni, i loro rapporti virtuali, i loro giochi, non sono che il mondo di simboli di cui è costituita la società.
A tal proposito Resta  sottolinea come il termine generazioni sia complicato, cosparso di paradossi, in quanto esse non possono esistere come identità se non come riferimento a una differenza (le altre generazioni). Ma è ancora Rawls, questa volta nel suo più recente Political Liberalism , ad affermare addirittura che la società è un sistema di cooperazione (termine questo da intendersi, come si accennava poc’anzi, come legame stabile, anche se virtuale, in funzione di un compito comune) attraverso le generazioni e le epoche. Nel pensiero del filosofo americano l’etica pubblica di stampo contrattualistico fa dunque da contrappunto all’idea di società costruita proprio sul gioco infinito delle generazioni, e si arriva a indicare che è l’orizzonte del modo di guardare e pensare la società stessa che si sta allargando.
Cambia la grammatica del vedere.
Resta, senza peraltro aderire alle tesi di Rawls, osserva che oggi i problemi posti dall’etica ci informano dei limiti del presente interrompendo il tempo monologante della tecnica, che si racchiude nell’espressione: “possiamo fare tutto quello che possiamo fare”. Il tempo si interrompe quando un altro linguaggio – l’etica, appunto – trasforma questo monologo indicandoci che il nostro spazio e il nostro tempo di vita non sono unici né assoluti, e che si espande l’idea del nostro prossimo. Ma questo sguardo, mentre permette di allungare la vista sul futuro ricorda ambiguamente che l’unica vita che possiamo vivere è al presente. “Alla fine della modernità – scrive Resta – una paura sottile spinge per una regolazione della società in cui gli individui sono lasciati soli di fronte a un prossimo spazialmente e temporalmente più ampio. Le responsabilità sono le proprie ma il soggetto cui rispondere sono le generazioni future; in assenza di un sovrano terzo  che possa imputare responsabilità, la responsabilità si rispecchia nuda sul presente, sul contemporaneo.” .
L’emergenza di questi pensieri rimanda, come è noto, all’eurisitca della paura, tema sul quale ha magistralmente lavorato  Hans Jonas .
Egli ci avverte che è l’angoscia suscitata dalla velocità incontrollabile del tempo della tecnica a imporre di fermarsi e riflettere. E’ l’etica, come abbiamo già visto, a interrompere il monologo della tecnica e a condensare domande sul “principio responsabilità” (imperative of responsibility)  che investono anche il sistema sociale, arrivando a tematizzare il problema di come nell’orizzonte di questo tempo presente si immette un altro tempo, quello delle generazioni future.
Ma come “fondare” i diritti delle generazioni future ?
Va detto subito che Jonas non fonda il suo “principio responsabilità” a partire dall’idea tradizionale dei diritti e dei doveri, idea fondata sulla reciprocità, secondo la quale il mio dovere è l’inverso del diritto altrui, che a sua volta viene considerato il corrispettivo del mio; sicché una volta stabiliti certi diritti altrui ne consegue il mio dovere di rispettarli.
Per Jonas l’idea tradizionale dei diritti e dei doveri non è soddisfacente.
Pretese può avere soltanto ciò che avanza pretese – ciò che è. Ogni vita solleva la pretesa alla vita, ma il non esistente non solleva alcuna pretesa, e perciò non può neppure subire una violazione dei suoi diritti: “La pretesa all’essere inizia soltanto con l’essere”. La ricerca etica di Jonas ha però a che fare proprio con il “non ancora esistente”: il suo “principio responsabilità” è infatti indipendente da ogni idea di diritto e di reciprocità.
Un diritto dei non nati a nascere (dei non concepiti a essere procreati) è semplicemente impossibile da fondare. Quindi si tratta qui di un dovere che non è l’inverso di un diritto altrui.
 Jonas introduce a questo proposito il concetto di dovere verso l’esserci dell’umanità futura e l’essere-così della discendenza in genere.
Se il dovere di assistenza verso i figli può essere ben fondato a partire dalla responsabilità fattuale della paternità rispetto alla sua esistenza e poi a partire dal diritto che è ora inerente alla sua esistenza, il dovere verso l’esserci dell’umanità futura non richiede un compito spinoso di fondazione, visto che non c’è da temere per la persistenza dell’istinto di procreazione. Maggiori pericoli possono esserci per l’essere-così futuro dell’umanità. A giudizio di Jonas il problema è argomentabile nei seguenti termini: “poiché altri uomini verranno in ogni caso dopo di noi, la loro esistenza non richiesta conferirà loro, quando sarà giunto il momento, il diritto di accusare noi progenitori di essere gli artefici della loro sventura, se noi, mediante un agire sconsiderato e non necessario, avremo pregiudicato a loro scapito il mondo oppure la costituzione umana. Ma se per la loro esistenza potranno ritenere responsabili soltanto i loro procreatori diretti (e anche in questo avendo ragione di lamentarsi soltanto se per ragioni specifiche potrà essere messo in discussione il diritto alla posterità dei genitori), per le condizioni della loro esistenza potranno ritenere responsabili i remoti progenitori o più in generale i produttori di quelle condizioni. Sussiste quindi per l’umanità odierna, a partire dal diritto all’esistenza non ancora presente, ma anticipabile dei posteri, un dovere di paternità di cui deve rispondere, e in forza del quale noi siamo responsabili nei loro confronti di quelle azioni che possono avere così profonde ripercussioni” .


5. Riparazione, riconciliazione, ubuntu.
Se la verità costituisce certamente il primo obiettivo del lavoro della TRC, il tema della riparazione ha assunto un’altra funzione centrale nell’esperienza della Commissione, la quale da più parti si è appellata ai principi avanzati dalla giustizia riparativa, che a differenza da quella dei vincitori promuove la reintegrazione nella società dei perpetratori, ponendo questo assunto allo stesso livello di importanza del riconoscimento delle sofferenze delle vittime e della loro guarigione (healing) – il che significa, tra l’altro, la possibilità di riguadagnare il controllo sulla propria vita e le proprie emozioni, superando gradualmente i sentimenti di vendetta.
Una ragione, di fondo, che spiega la prontezza dei Sudafricani ad accogliere l’esperienza della TRC, è l’affinità dei temi della riparazione e della riconciliazione con le tradizioni tribali dell’intero Continente. A giudizio di Tutu, la giustizia retributiva non è congeniale alla concezione Africana, che attribuisce invece profondo significato all’aspetto riparativo .
Nella tradizione Africana un crimine commesso contro una persona non è percepito come un episodio isolato, ma come un fatto che coinvolge l’intera comunità, perché ne minaccia la stabilità e l’equilibrio. Per ricostituire l’equilibrio alterato i tribunali africani tradizionali non ricorrevano alla punizione ma cercavano piuttosto una riconciliazione delle parti accompagnata da un’approvazione da parte della comunità, utilizzando la mediazione, la conciliazione e la forza lenitiva dei rituali .

Con l'etichetta Restorative Justice (da qui in poi: RJ) ci si riferisce a un fenomeno dai confini molto ampi e dai contenuti operativi pluridirezionali.
Anzitutto, il termine viene coniato, per la prima volta, alla fine degli anni '70 del Novecento negli Stati Uniti, per differenziare la risposta statuale alla devianza fondata sulla afflittività della sanzione – propria dei modelli tradizionali di giustizia basati sia sulla retribuzione che sulla prevenzione – da quella volta invece a rimuovere (attraverso la compensation  e la restitution ) il danno o ad attenuare o lenire la sofferenza che l'azione delittuosa provoca in varia misura alle vittime.
Non a caso, tutte le definizioni di RJ proposte dalla dottrina hanno come denominatore comune l'orientamento alla vittima. Howard Zher  la definisce infatti un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità in cerca di una soluzione che promuova riparazione, riconciliazione e rassicurazione. Del pari, Martin Wright , evidenzia come la RJ rinunci ad aggiungere male al male (la sofferenza della pena alla sofferenza causata dal delitto) per destinare ogni energia utile alla reale tutela delle vittime, attraverso un percorso di riparazione. E' fondata, invece, prevalentemente sull'aspetto 'comunicativo' la nozione proposta da Burnside e Baker, secondo i quali si può a pieno titolo parlare di una relational justice: “Una delle basi di questo nuovo approccio è quello di considerare il reato fondamentalmente come la rottura di relazioni; anche in quei casi in cui il reo non conosce personalmente la vittima, si può dire che esista una relazione in virtù del fatto del loro patto di cittadinanza, tenuto insieme da norme che regolano il comportamento sociale. Il reato solo in seconda istanza deve essere considerato come un'offesa contro lo Stato e le sue leggi”  .
La nozione più condivisa risulta comunque essere quella proposta da Tony Marshall: “La RJ è un processo nel quale tutte le parti che hanno un interesse ad affrontare gli effetti che derivano dalla commissione di un reato si riuniscono per gestire collettivamente tali conseguenze e le loro implicaioni per il futuro”. Laddove, l' “interesse ad affrontare gli effetti” include la riparazione materiale del danno, l'attenzione ai bisogni emotivi della vittima, la risoluzione di ogni conflitto fra vittima e autore e, a livello più ampio, tra le rispettive comunità di appartenenza .
Come è noto, la sfida che la giustizia riparativa lancia, alle soglie del Ventunesimo secolo, è quella di cercare di superare la logica del castigo muovendo da una lettura relazionale del fenomeno criminoso, inteso primariamente come un conflitto che provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise. Il reato non dovrebbe più essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o come un comportamento che incrina l'ordine costituito – e che richiede una pena da espiare –, bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte, e che richiede, da parte del reo , principalmente l'attivazione di forme di riparazione del danno provocato.
Sebbene i profili di dannosità dell’illecito siano stati già riconosciuti a partire dal dibattito giuridico Ottocentesco, è solo con la giustizia riparativa che il danno provocato diviene il punto di partenza per la costruzione di risposte in cui il rapporto di rango tra afflizione e riparazione può essere rovesciato.

Vi sono dunque contatti e similitudini tra la legge consuetudinaria africana e i temi della RJ che hanno ispirato la scelta della TRC. In via principale a partire da questi elementi:
- l’obiettivo della riconciliazione e il ripristino dell’armonia nella comunità in contrapposizione alla punizione dell’individuo;
- l’utilizzo di procedure informali alle quali viene conferita una collocazione e riconosciuta una funzione nella sfera pubblica;
- l’incoraggiamento della piena partecipazione di tutte le parti al procedimento.

Nel Final Report si afferma che circolano molte concezioni errate sul significato di riconciliazione. “La riconciliazione non ha a che fare con lo stare bene, con il pretendere che le cose andavano in modo diverso da come realmente andavano. La riconciliazione che si fonda su dati non veritieri o che non affronta la realtà non è vera riconciliazione, e non durerà nel tempo” .
Vero è che “…nello spazio culturale fra le dichiarazioni pubbliche e il tormento privato, gli indici di riconciliazione sono difficili da trovare” . Boraine , vicepresidente della Commissione, ha comunque molto insistito sul fatto che la TRC non imponeva il perdono individuale da parte delle vittime, ma si limitava a offrire uno spazio in cui potessero aver voce espressioni di rimorso e di perdono, in nome di qualcosa di più elevato del sentimento di vendetta, e cioè in nome dell’ubuntu – una parola poco famigliare e di difficile comprensione per chi, come noi, non appartiene a certi popoli. Tutu, nel suo libro Non c'è futuro senza perdono, definisce l’ubuntu "un tratto fondamentale della visione africana del mondo".
In breve, l’espressione – molto difficile anche da “rendere” in una lingua occidentale – riguarda l'intima essenza dell'uomo. Quando un nero Sudafricano vuole lodare grandemente qualcuno dice: "il tale ha ubuntu". Ciò significa che la persona in questione è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole. Che condivide quello che ha. E' come dire: "la mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua". Facciamo parte dello stesso fascio di vita. Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni e bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti, umiliata quando gli altri vengono umiliati, quando gli altri vengono torturati e oppressi, o trattati come se fossero inferiori a ciò che sono, o addirittura uccisi. Noi diciamo, scrive sempre Tutu, che "una persona è tale attraverso altre persone... Non ci concepiamo nei termini "... penso dunque sono, bensì sono umano perché appartengo, partecipo, condivido " .
Tutu ha anche suggerito che proprio l’etica dell’ubuntu “ha spinto tanta gente a scegliere di perdonare invece di reclamare il castigo, a essere magnanima e disposta alla clemenza invece di dar libero sfogo alla vendetta” .
Il collegamento tra ubuntu e assenza di vendetta, e quindi amnistia, era d’altra parte richiamato nell’epilogo della Costituzione sudafricana provvisoria e nello stesso atto istitutivo della TRC, laddove si legge che “… c’è bisogno di comprensione ma non di rivalsa, c’è bisogno di riparazione ma non di vendetta, c’è bisogno di ubuntu ma non di vittimizzazione” .


6. Amnistia, perdono.
Una delle questioni più dibattute nelle fasi di transizione e di cambiamento rispetto a un passato di violazioni e di abusi – a prescindere dal modello al quale si fa ricorso per confrontarsi con il passato –, riguarda infine la concessione o meno dell’amnistia ai responsabili delle violazioni investigate.
I problemi della punizione o della riconciliazione, della vendetta o del perdono, della memoria o dell’oblio trovano, infatti, nell’amnistia un punto di convergenza  .
La parola “amnistia” deriva dal greco amnestia, che significa dimenticanza, oblio o remissione. Nel senso che qui interessa, il termine rimanda a un atto di un potere sovrano volto a rendere i soggetti beneficiari del provvedimento esenti dal perseguimento penale per determinati reati commessi nel passato. Si tratta di un provvedimento di natura eminentemente politica, e come tale rispondente soprattutto a principi di opportunità e utilità.

Come si diceva, la parola amnistia rimanda anche etimologicamente all’atto del perdono. Ma se l’amnistia è un atto di “giustizia politica” concessa con una legge, che ne prevede le modalità di applicazione , il perdono rimane una virtù individuale e collettiva che non può essere imposta da nessuna norma. “La giustizia e il perdono sono diverse misure di elaborazione del tempo e coinvolgono strategie di decisioni totalmente differenti che devono continuare a essere tenute distinte”, scrive Resta .
Proviamo a collocare questi concetti negli spazi di parola aperti dalla Commissione Sudafricana.

Mathew Kondile è stato ucciso dal trucido Dirk Coetzee, un crudele capo delle squadre della morte. Sua madre, nel corso di una riunione della TRC, si rifiuta di perdonare. Sostiene che Mandela e Tutu possono perdonare perché vivono delle vite vendicate, ma che nella sua vita “… nulla, nemmeno la più piccola cosa, è cambiata da quando [suo] figlio è stato bruciato dai barbari. Nulla. E allora non posso perdonare” .

Antropologicamente il perdono si iscrive nel circuito del dono: chi perdona si presenta come qualcuno che, liberamente e senza obbligo, fa dono di qualcosa a qualcun altro. Ciò che conta è che il perdono inteso come dono, cioè come atto che implica una restituzione, ha la capacità di rovesciare l’ostilità originaria in una relazione di scambio e di reciprocità, proprio perché fra le due parti in conflitto, sull’originario rapporto di ostilità, viene innestato un dono. “Morale e politica possono solo aspettare che (il perdono) si realizzi… Rimane una virtù dei singoli che non può essere delegata al diritto: la legge non può consentirsi questo particolare supplemento d’anima” . Letto in questi termini il perdono è da intendersi quale atto agiuridico, il cui tratto essenziale, costitutivo, connotante, è anzitutto quello della “gratuità”, ovvero il fatto di non poter essere sottoposto a condizioni     .

Ma allora, quale perdono i singoli e la collettività possono donare? 

Quando si parla di perdono  occorre infatti distinguere il "perdono morale" (il perdono a colui/lei che ha riconosciuto il proprio torto) da altre forme di perdono, che come vedremo sono molto più interessanti e attuali nell'economia del nostro discorso.
Esiste, comunque, una forma di perdono destinata a svolgere una funzione morale universale che è quella di ristabilire la reciprocità, di interrompere il circuito del male. Si tratta di un perdono elementare che rinforza il principio della retribuzione e che dice che si può perdonare solo ciò che si può punire. E' un perdono che promette di "non ricominciare", che ripara e che presuppone un tempo e uno spazio al cui interno il bene e il male sono intesi come cause sempre ascrivibili all'interno della struttura dello scambio.
Il fatto è che questo perdono si applica soltanto là dove è sancita la validità di obblighi che prevedono scambi commensurabili, e là dove non è contestata la validità di un potere legittimamente detenuto . Sono situazioni nelle quali si può designare una vittima e un reo e nelle quali, come ricordano Resta e Ceretti , ogni conflitto sarà sempre sottoposto – o sottoponibile – al potere unificante della legge, che costituisce un minimo comune multiplo, una lingua condivisa capace di tradurre e interpretare i dialetti dei confliggenti. Qui il reo può essere riconosciuto e riconoscersi colpevole e domandare perdono, la vittima donarlo. Nei loro confronti il terzo (leggi: il giudice) è sempre terzo perchè segue la legge che accomuna una comunità che l'ha contrattata.
Il problema, però, sta proprio nel fatto che la più parte degli eventi storici reali hanno a che fare con conflitti di natura assai diversa. Sono conflitti in cui le parti non parlano due diversi dialetti di una lingua, ma due lingue diverse, perché non ci si intende sul torto e si hanno di fronte dei fatti irreparabili e antichi, dove ci sono vittime di generazioni disperse e i fatti colpevoli sono troppo intersecati con altri fatti colpevoli, così che diviene impossibile appellarsi a una causalità lineare per risalire ai responsabili. Siamo di fronte a comportamenti speculari degenerati; siamo ai bordi della follia. In tali situazioni, dove i dialetti dei partecipanti sono incommensurabili, dove nessuna ermeneutica e nessuna riparazione e riconciliazione è possibile attraverso le parole di un terzo imparziale, dove sono profondamente toccate le identità collettive di popoli o di parti di popolazioni, il "perdono morale" non può esercitare il suo mandato.
Sono quelle circostanze – e ci sembra che quelle affrontate dalla TRC prima della sua istituzione abbiano molto a che fare con ciò che stiamo dicendo – nelle quali i protagonisti sono incapaci/impossibilitati a (s)cambiare il proprio punto di vista. Non solo, è proprio attraverso l'assunzione della "propria" ristretta visuale che ciascuna parte si autolegittima in-definitamente, avanzando una richiesta illimitata di diritti (e di doveri). La coerenza di ciascuna parte fa dunque appello a un principio esteriore e infinito. Non si dà, tra le parti, una temporalità comune, perché non esistono questioni/tematiche condivise o condivisibili: manca, infatti, la possibilità di uno scambio a partire da un principio comune. Detto altrimenti, la risoluzione di un conflitto, la rimessione di un debito, lo scambio delle memorie è inattuabile perché l’identità storica di ciascuna parte in gioco è iscritta in un passato immemorabile che non può essere ricordato e riportato al presente. Ognuno parla la sua lingua, narra la propria storia, etc.

Occorre allora arrendersi all'idea che nelle situazioni di dissidio indissolubile – quello che Abel definisce il tragico del conflitto – si debba scartare la possibilità di ricorrere al perdono? Al contrario, Abel afferma che a questo livello esso si rivela come una delle forme più importanti di quella che Ricoeur definisce "saggezza pratica". Leggendo Hegel non come il filosofo della sintesi ma come il filosofo che ha condotto più lontano la "saggezza pratica", Ricoeur ricorda come il perdono hegeliano riposi proprio sulla rinunzia da parte di ognuno alla sua parzialità, sull’ accettazione da parte di ognuno ad abbandonare ciò che è identico a se stesso, sul consenso sia del perdonante che del perdonato a divenire altro da se stessi.
La “saggezza pratica”, afferma Ricoeur e con lui Abel, non consiste nell’ abbandono del tragico, ma in un abbandono nel tragico, ovvero in una saggezza capace di affrontare gli effetti distruttivi del dissidio e di permettere ai protagonisti della vicenda di assumere di non essere essi stessi d’accordo su ciò che li divide. E’ questo il livello rispetto al quale il “perdono morale” si infrange ed è difficile collocarsi: si preferisce infatti continuare a uccidersi – un gesto che paradossalmente illude ancora di poter comunicare in modo vicendevole – piuttosto che arrendersi all’idea di essere i soggetti di un dissidio.

Come uscire, dunque, da questa eterogeneità di linguaggi, di valori, di memorie incommensurabili ?
La strada indicata da Abel – e che noi riteniamo percorribile – è quella di impegnarsi a concepire il perdono quale virtù del compromesso, “compromesso” che egli non intende ovviamente come la mera giustapposizione di due punti di vista. Il dissidio (differend), del resto, come insegna Lyotard, non si riduce mai. Ma allora, come perdonare di fronte all’ irriducibile ?

Per rispondere il ragionamento si fa, se possibile, ancora più denso.
Il perdono è qui la virtù del compromesso nel senso che non pretende di ristabilire, come quello "morale", la reciprocità, non pretende di essere il punto di scaturigine di un riconoscimento reciproco dei contendenti. Essendo i termini del dissidio incommensurabili essi non sono né simmetrici né asimmetrici. Tra loro non c'è contraddizione, non c'è un aspetto principale o uno secondario, non c'è vecchio o nuovo. Non c'è, soprattutto, un vincitore o uno sconfitto. Detto altrimenti: ciò che è incommensurabile in un momento non può cessare di esserlo nell'istante successivo, istante nel quale l'altro del dissidio verrebbe riconosciuto (per esempio in quanto "minoranza") e storicizzato.
Il perdono, laddove c'è dissidio, non può che intervenire a latere dei contendenti. Ognuno rimane iscritto nel suo passato (immemorabile per l'altro), nella sua lingua, nella sua storia.

Si accetta di perdonare sapendo che tale irriducibilità non verrà meno.
La virtù del compromesso consiste allora nel riuscire ad abbandonare l'eterno ritorno delle due versioni separate attraverso l'esercizio di una saggezza pratica che rende consapevoli i contendenti:
a) che il dissidio non può essere assorbito e che tutto ciò che si può fare è di trovare un accordo che tenga conto del disaccordo;
b) che un'ultima parola, così come un linguaggio comune per formulare il torto commesso o subito, non esistono;
c) che il tentativo di formare un racconto, una narrazione sufficientemente ampia e policentrica per contenere la pluralità delle memorie e portarle al punto dove esse possono trovare un compromesso virtuoso, è plausibile;
d) che l'intersezione (overlapping ) tra i differenti universi non può che essere tenuta insieme da parole fragili, poiché esse coniugano discorsi eterogenei;
e) che è impossibile cercare di sapere a priori quali ruoli ciascuno terrà sulla scena: a ben vedere non abbiamo di fronte né un perdonante né un perdonato.

Ne consegue:
a) che il perdono è ciò che anima  una sorta di immaginazione pratica, una volta accettata per sempre l'impossibilità di pervenire a un giudizio ultimo capace di dire "allo stesso tempo" ciò che è giusto universalmente per tutti, e ciò che è giusto per ciascuno;
b) che il perdono, nel dilatare il linguaggio di ciascuno per aprire uno spazio di coabitazione, di co-presenza, non elimina il passato ma obbliga le parti a disinnescare le singole memorie congelate e ad avviare una narrazione a più voci attraverso la quale "io" accetto che gli altri, come me, possano dire, "io";
c) che il perdono obbliga ciascuno a spostarsi, a ricollocarsi nella trama della storia.

Che siano queste le fragili condizioni per una pace possibile, anche per le generazioni future?

 

 
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