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Sulla fune della vita

Carlo DM

Lì sono nato, ho trascorso la fanciullezza e i primi anni della gioventù. Un appartamento immenso, al settimo piano di una costruzione umbertina, con ben nove scale e un vasto cortile con alberi di alto fusto e dove un tempo v’era anche una fontana, almeno così si narrava. Quello per me non era un palazzo sito al centro di Roma in zona Prati, ma un villaggio, in cui tutti o quasi tutti si conoscevano. Era il 76, il numero civico di viale delle Milizie, i cui abitanti, una volta l’anno, sfidavano in una competizione calcistica allo stadio dei Marmi i residenti dei palazzi vicini, che chiamavano il resto del mondo. Erano gli anni cinquanta, o giù di lì, lungo il viale il traffico era quasi inesistente, pur trovandoci al centro di Roma, a pochi passi da San Pietro, la strada, rapportata agli immensi marciapiedi, era stretta. Era lì su quei marciapiedi il regno dei nostri giochi, le interminabili partite con una palla il più delle volte bucata e riempita di carta. I giochi si ripetevano stagionalmente: c’era il periodo della nizza, il baseball all’italiana di quei tempi, quello delle biglie, della cerbottana, della fionda, del carretto e la sera si terminava quasi sempre con il “tre tre giù giù”, uno dei tanti giochi di squadra.

Lì su quegli immensi marciapiedi, uno asfaltato sotto il nostro palazzone e l’altro di fronte in terra battuta, sotto una caserma dei Carabinieri, sono cresciuto.

Lì, in quel palazzo era stato girato un film con Totò, La banda degli onesti e lì, anni dopo, verrà ucciso un magistrato dalle Brigate Rosse. Sopra l’ottavo e ultimo piano v’erano le terrazze con i lavatoi e i serbatoi d’acqua. Anche le terrazze erano un “luogo” per i nostri giochi d’estate, come pure le polverose e disastrate cantine lo erano d’inverno. In una di queste, ripulita e approssimativamente arredata, formammo la sede di noi ragazzini del 76, nella quale elaboravamo le strategie delle battaglie da condurre contro i ragazzi di una scuola adiacente, occupata da sfollati, povera gente che durante la guerra aveva perso la casa. Erano battaglie da Ragazzi della via Pal, dove la violenza raggiungeva l’apice in una sfida di lotta corpo a corpo tra i leader degli opposti gruppi. Le cantine erano anche luoghi misteriosi, dove la polvere copriva tutto, in un’oscurità appena rischiarata dalla flebile luce proveniente da un’apertura che dava sulla strada sovrastante. Da quel grigiore emergevano oggetti, riviste e fascicoli di un mondo spazzato via dal tempo e dalla guerra. Un giorno Roberto, un ragazzo un po’ più grande di noi, ci disse che in una cantina si trovava un soldato tedesco morto e, per confermare quello che poi si verificò essere una bugia, ci mostrò alcuni marchi che, a suo dire, aveva preso dalla giubba del soldato.

In questo mondo fantasioso, di genuina vitalità, noi ragazzi del dopoguerra ci formammo in una dignitosa povertà e fiduciosi nel futuro. Mio nonno, da cui come primo nipote avevo preso il nome, era un magistrato deceduto qualche anno prima della mia nascita, lasciando ben otto figli, di cui nessuno all’inizio della sua malattia lavorava, per cui ritengo che, almeno inizialmente, si siano trovati in enorme difficoltà economica, ma dalla quale erano riusciti con dignitosa onestà, in un contesto storico sicuramente particolare, a creare un ambiente dove regnava la serenità e il reciproco aiuto.

L’appartamento, dove io e la mia numerosa famiglia abitavamo, erano al penultimo piano, il settimo. Un lunghissimo corridoio si presentava appena aperta la porta e ai lati quattro stanze per ognuno di questi, in fondo un atrio, in cui era posizionata una stufa a legna in terracotta, era l’accesso ad altre tre stanze oltre alla cucina. Una di queste era la camera dove stavamo io, mio fratello, mio padre e mia madre. Le altre stanze erano occupate da mia nonna, da numerose zii e zie, di cui due con i propri mariti, che formavano la famiglia di mia madre e dalla Michelina, la donna di servizio, una trovatella calabrese dalle caratteristiche somatiche di un’india, che riversava su di me tutto il suo affetto viziandomi con piccoli regali, strisce di fumetti e soldatini in cartapesta acquistati con la sua modesta retribuzione. Le stanze, tappezzate da carta da parati a righe o damascata, erano arredate da mobili non pregiati da cui si distinguevano la monumentale camera di mia nonna, un salotto in legno appena imbottito e il pianoforte tedesco che suonava mia madre. L’appartamento era lastricato di mattonelle tutte uguali, e i fili scoperti della luce, che partivano dal corridoio, si irradiavano nelle stanze. Una radio Marelli, con grammofono incorporato per dischi a 78 giri, diffondeva nella casa opera lirica, che uno dei miei zii seguiva canticchiando e accompagnandosi con un libretto, oppure opere più leggere, come “I quattro moschettieri” o, la domenica mattina, una trasmissione comico-sportiva che preannunciava la partita di calcio che puntualmente e con divertito interesse ascoltavo prima di recarmi allo stadio Torino insieme a mio fratello e a mio zio Aldo.

Le feste natalizie, con il presepe che occupava quasi una stanza, costruito in anticipo di qualche settimana, con paziente e operosa ingegnosità, da mio zio Fabio, con la collaborazione finale della Michelina che attraversava la città recando sulla testa, protetta da una “cipolla”, una tinozza carica di muschio. Con che cura, passione e partecipazione ci si preparava al Natale! “Il tavolo della sora Checca”, così era chiamato - presumibilmente per la sua originaria proprietaria - un tavolo immenso, rustico, di legno chiaro, tenero, tanto che si poteva incidere con un’unghia, le cui venature a rilievo lo facevano sentire vivo. Questo tavolo, per le feste natalizie, diventava ancora più grande grazie alle varie prolunghe, accogliendo non solo la nostra famiglia, ma anche qualche ospite invitato per gustare le vivande, tutte preparate con felice e amorevole collaborazione da mamma e dalle zie.

Intorno a quel tavolo – luogo di lavoro, di studio, di gioco e di animate discussioni politiche tra i miei zii – si svolgeva gran parte della vita familiare. Su quel tavolo ho mosso i primi passi con tutte le mie zie e la mamma intorno a braccia aperte per proteggermi da cadute e sorridenti, felici della mia felicità. Ed è proprio quel tavolo che costituisce uno dei ricordi più ricorrenti e nitidi della mia fanciullezza, insieme al lungo corridoio, altro luogo di giochi - a palla durante l’inverno - ma anche di accesso alle varie stanze, come un lungo tronco da cui partono rami pieni di frutti deliziosi.

Ricordo una vecchietta rugosa ma bella, come può esserlo la Befana, appoggiata al muro della scuola elementare con il suo carretto pieno di more, lacci, pescetti di liquirizia, mostaccioli, castagnaccio, buste di wafer sbriciolati. Ricordo un babbo Natale con cappello che con la sua bicicletta sbilenca portava, legati sul manubrio, due secchi di lupini e olive dolci, e, al grido di: “fusajee!”, attirava frotte di bambini. Ricordo camioncini da cui una mano faceva uscire una scaletta in legno per permettere l’ingresso a passeggeri pigiati ma sorridenti per quei mezzi di fortuna. Ricordo soldati venuti dall’altra parte del mondo che con turbante in testa passavano marciando sotto le nostre finestre.

Questa era la Roma povera ma magica che appariva ai miei occhi di bambino… La mia amata Roma, che con i suoi secoli di storia ne ha viste tante che è sempre pronta ad accettare con un senso di ironia anche le vicende più tragiche.

Ricordi ora sfumati, immersi in una dolce nostalgia, immagini sfocate dalle quali emergono nitidi, come rischiarati da un improvviso flash, situazioni, oggetti e affetti. Ricordi che per decenni erano rimasti nascosti non so in quali meandri della mia persona, che un lungo, felice matrimonio e i quotidiani impegni di una vita sempre più accelerata credevo avessero cancellati e che invece ora riemergono quasi dal nulla.

E insieme ai ricordi la domanda: chi sono io? Interrogo l’io che credo di essere ma di cui dubito. Mi chiedo se so quello che sono stato da bambino, quel bambino che non pensava ma elaborava il comportamento degli altri, non sapeva quello che voleva, non aveva l’aspirazione a fare il pompiere o il dottore, in poche parole, non sapeva chi era. Lo interrogo ora quel bambino, lo vedo immerso in un’atmosfera di serenità, amore e, vorrei dire, spensieratezza. Poi quel bambino si è sposato, ha avuto due figlie, è stato un marito e padre affettuoso e presente, forse per differenziarsi da suo padre. Per quasi trent’anni ha trascorso una vita che è stata la prosecuzione della sua infanzia, con gli stessi valori e la stessa gioia. Ci sono stati dolori profondi, come la morte della mamma, improvvisa e drammatica durante l’alluvione di Firenze, ma nulla in confronto a quello che ha rappresentato la perdita devastante della propria moglie. Lì quel bambino ha dimostrato i limiti della sua non compiuta crescita. Si era diplomato, aveva ottenuto un posto di lavoro senza alcun aiuto, aveva condotto una vita familiare e lavorativa con impegno ed entusiasmo, ma di fronte a un avvenimento tanto avverso e sconvolgente, si era piegato su se stesso, sconfitto, finito. Quel bambino si è sentito perduto: con Giulia non era morta soltanto sua moglie, amante, madre, ma tutto il mondo che con perseveranza e amore aveva costruito. Forse quel bambino non aveva avuto molte avversità, forse non aveva sofferto abbastanza...

È sorprendente come le persone si convincano di conoscersi e si identifichino con il bambino che sono state. La vita è un mistero, è un giallo, dove parecchi indizi contrari e coincidenti si contrappongono e dove è difficile ma necessario mettere ordine per riuscire capire chi siamo o, meglio, chi è il bambino dentro di noi.

Il sole ancora non preannuncia il nuovo giorno, un chiarore a poco a poco percettibile si insinua nella cella destandomi dal torpore in cui sono immerso. Un silenzio rotto appena dal russare di un compagno, il calore piacevole di una coperta polverosa mi invitano a riflessioni e ricordi lontani. In questo mio peregrinare all’indietro, alla ricerca di un’autostima perduta, sono arrivato ai primi anni della mia vita, incredibilmente ancora presenti. Si dice che quando uno sta in punto di morte rivede tutta la sua vita come in un film accelerato. Bene, a me succede qualcosa di simile.

Inizialmente e per lungo tempo i miei pensieri sono andati esclusivamente agli ultimi anni, a quegli avvenimenti e alla tragedia che avevo causato. I sensi di colpa mi creavano delle angosce insuperabili; tutto si era fermato a quel tragico momento, i ricordi fissi lì e il pensiero forte di annullarmi mi pervadeva. Il tempo si era fermato, la vita si era fermata… Perché io, che non avevo mai dato uno schiaffo a nessuno, che disprezzavo ogni forma di violenza, avevo potuto commettere un delitto? E perché proprio contro una persona a cui volevo bene e che mi aveva dato un altro figlio, sicuramente una delle gioie più grandi della mia vita? Forse per il tradimento, per la scarsa riconoscenza… o forse per la terribile solitudine seguita alla morte della mia prima moglie…., o forse perché vedevo in pericolo il futuro di mio figlio. Non so, saranno stati tutti questi motivi a farmi uscire di testa, sicuramente l’ultimo più degli altri. Ma perché, invece di cercare di recuperare un rapporto irrecuperabile, non ho chiesto aiuto alle persone care o a un avvocato che potesse consigliarmi al meglio su come tutelare mio figlio? Perché ho confidato troppo nella mia capacità di persuaderla a farla recedere dalla sua strategia? E perché non avevo voluto dare ascolto, molti mesi prima, alla madre della sua amica cubana che, venuta ospite a casa mia per due settimane, aveva capito subito la situazione e mi aveva suggerito di essere più energico con lei?

Questi e tanti altri perché hanno tormentato le mie giornate e soprattutto le mie nottate per anni. Mesi e mesi tremendi, in cui il mio grado di prostrazione era totale, alleviato in minima parte dagli antidepressivi; per un periodo ho anche sofferto di allucinazioni disperate e fantasiose che, raccontandole ad alcuni compagni di cella, li facevano ridere.

La morte che non mi aveva voluto quella maledetta mattina, dopo cinque giorni di coma, è stata mia compagna per anni. Neppure il sacerdote, richiesto disperatamente nei primi giorni a Regina Coeli, poté affievolire con la confessione il mio senso di colpa. Non riuscivo a comprendere come Dio avrebbe potuto perdonare quello che io non riuscivo a perdonare a me stesso. Però mi sono ugualmente aggrappato alla fede, l’ho alimentata giorno dopo giorno; l’unico sollievo lo provavo quando la domenica la cella si apriva per la messa celebrata nell’atrio di Regina Coeli o, durante la momentanea scarcerazione in attesa di giudizio, quando quotidianamente andavo nella chiesa vicina a una piccola casa presa in affitto. Poi di nuovo il carcere, atteso come una liberazione, con le sue regole, le sue umiliazioni, la sua violenza, l’arroganza e la forzata coabitazione, ma anche con una sua forma di solidarietà, forse solo apparente ma comunque benefica per alcuni aspetti.

Così, aiutato da una fede sempre più intensa, molto lentamente sono ritornato a vivere, forse anche per reagire all’ignorante arroganza. Cucinarsi “uno spaghetto”, leggere un libro, avere il piacere di interessarsi di nuovo a politica e sport sono stati piccoli passi, ma determinanti per riacquistare un certo equilibrio. Ero ritornato sulla fune della vita e, seppur barcollante e molto lentamente, riuscivo a procedere guardando davanti a un unico obiettivo: rivedere mio figlio, trasmettergli alcuni valori a me donati, soprattutto la sincerità verso se stessi, e dare la possibilità – a me e a lui – di farmi giudicare per quello che sono e non solo per quello che ho fatto, e poter sperare nel suo perdono. Un compito arduo come salire su una montagna invalicabile, che però giorno dopo giorno, sempre più fortificato, sento non solo come un desiderio ma come un dovere verso mio figlio.

Da quasi un anno le mie riflessioni mattutine nel buio e nel silenzio della cella, quando ancora l’apertura del blindato è lontana, sono andate sempre più indietro e non sono più angoscianti, sono ricordi dolci, pieni di riconoscenza per le tante persone che hanno tracciato il percorso della mia vita, formando la mia identità con valori veri, che io ho tradito in un solo momento di disperata follia. No, signor giudice o psichiatra o non so chi altro che in quel plotone d’esecuzione nel primo interrogatorio si è parato di fronte a me prostrato e pronto ad accettare qualsiasi tipo di condanna, potete chiudermi in cella e buttare la chiave, al limite uccidermi, ma non potete dirmi che il mio passato non esiste più! Alle vostre parole: “Lei con il suo atto ha cancellato tutto” reagii con l’unico atto energico di ribellione: “No! Io non ho cancellato un bel niente!” E ora le cose buone che io conservo del mio passato le vorrei dare a mio figlio, se me ne viene data l’opportunità.

Non so, figlio mio, se mai mi perdonerai, ma dammi la possibilità di offrirti qualcosa dell’immenso amore che provo per te, dei valori che in quella casa fiabesca mi hanno accompagnato per tutta una vita. Avrei voluto che tu avessi vissuto almeno una parte delle gioie che quella bella famiglia, con onestà, sincerità, altruismo e umiltà mi ha donato. Avrei voluto godere nel vederti crescere, avrei voluto continuare a rimboccarti le coperte, ad accarezzarti, a controllare la tua temperatura, a imboccarti con pezzettini di prosciutto crudo, a giocare a palla e pormi a quattro zampe cavalcato da te; avrei voluto anche accompagnarti a scuola, portarti alla partita, trasmetterti la passione per la squadra che porta i colori della mia città, farti amare l’attività sportiva e soprattutto la cultura, esaltarti i pregi della tua mamma e nascondertene i difetti e tante altre cose. Purtroppo per quell’atto disperato e inconsulto me ne sono privato. Le poche notizie di te che mi arrivano sono rassicuranti, sei circondato dall’amore della famiglia di mio fratello, per la quale provo riconoscenza ma anche un senso di invidia, perché ti trasmette i valori che avrei voluto darti io.

È bello sognare ed essere fiduciosi che quei sogni almeno in parte possano realizzarsi, anche perché nel passato questo si è verificato spesso. Sogno di fare un viaggio con te, io e te da soli in macchina – magari la stessa che tu hai ricordato a mio fratello essere la mia – senza meta, con gli occhi sul mondo, a scambiarci opinioni, a osservare il bello che ci circonda; un viaggio dentro la nostra coscienza alla ricerca di ciò che ci accomuna. Sogno di prendere un volo per l’amata Cuba e, camuffato perché nessuno la prenda per una provocazione, recarmi al cimitero di Matanzas a piangere su di te, adorabile Lilli. Sogno di andare a trascorrere un periodo di quello che rimane della mia vita al convento nell’isola di Capraia, da padre Marco, e in pieno raccoglimento rafforzare la mia fede e pregare Dio di farmi riabbracciare le tante persone care – in primo luogo la mia Giulia – e ringraziarle per tutto quello che di magico mi hanno dato. E attendo con fiducia il sogno finale, il più importante: io in un letto d’ospedale, in attesa dell’ultimo atto, con accanto le mie splendide figlie, Costanza e Francesca, che commosse e con gli occhi lucidi mi stringono le mani, e il mio Giancarlo che mi dà il bacio del perdono.

Arriverà quel giorno che, appena scontata la condanna, potrò realizzare un grande desiderio, che solo ora sento fortemente, come un documento prezioso lasciato per decenni nel cassetto di uno scrittoio e mai tirato fuori, forse per la paura che il tempo lo potesse modificare o forse per non averne percepito pienamente l’importanza: mi recherò al numero civico 76, nel mio “villaggio”, entrerò furtivamente e, ponendomi al centro di quell’immenso cortile – che per me era la “piazza” , volgerò lo sguardo verso l’alto e mi lascerò trasportare da un vortice di ricordi in una dolce nostalgia di immagini ed emozioni… e forse incrocerò lo sguardo di un anziano signore e in lui rivedrò un lontano bambino….

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il 7/2/2014


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Voltaire

 


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