Incontrare donne e uomini in dignità |
A porre la questione della dignità umana nelle esperienze in carcere sono, in primo luogo, le condizioni di vita (ambientali, organizzative, psicologiche) di chi vive in carcere. Condizioni “indegne”? Oppure – seguendo un senso comune più diffuso - condizioni degne di chi ha commesso delitti? In carcere si incontrano molti uomini e molte donne che non hanno rispettato la dignità umana. Hanno quindi irreparabilmente compromesso la loro dignità? Al punto da legittimare un esercizio della forza coercitiva nei loro confronti, a sanzione dei loro comportamenti, ad espiazione del male fatto?
La dignità umana così come è pensata da filoni forti del pensiero occidentale, si esprime ed è riconoscibile nella libertà, nella autenticità, nell’autonomia, nella razionalità. (P. Valadier, 2003; R. Ammicht Quinn, 2003) Non può certo, così intesa, rispecchiarsi nella figura di donne e uomini mossi da un “basso istinto” o da gregarismo, inaffidabili nelle relazioni, incapaci di buon uso della ragione, e di buon governo di sé, portatori di disturbi psichici e distorsioni nel comportamento… che hanno compiuto delitti, non rispettando i diritti, la proprietà, la vita stessa. Donne e uomini indegni, dunque. Se però ascoltiamo le grandi tradizioni sapienziali e morali conservate nei testi e nei miti antichi della nostra cultura, sono preziose le indicazioni di Paul Valadier - sentiamo richiamare una dignità degli uomini e delle donne che va rispettata e riconosciuta non tanto, non in primo luogo, là dove questi presentano le qualità e i tratti più elevati e nobili (lì già rifulge, e orienta). La sapienza antica chiede invece di serbarla, di ricercarla, di richiamarla con forza proprio là dove donne e uomini perdono la loro “altezza”, proprio nei momenti in cui perdono la “forma umana”. Dove sono deturpati dalla miseria o dallo smarrimento esistenziale, dove sono prostrati dalla malattia o resi vulnerabili e incapaci dalla invalidità. Lì non c’è autonomia e autosufficienza; non c’è abilità dei gesti o capacità della mente che “manifesti” la dignità umana. Queste condizioni sono avvicinate o attraversate da molti, se non da tutti nell’arco della vita. Queste condizioni sono specchio della nostra costitutiva vulnerabilità, della fragilità affidata nelle mani d’altri nella quale siamo nati e siamo cresciuti. E non c’è neppure un pallido richiamo ad essa nel vizio, nell’istinto di rapina e di appropriazione, nella dissipazione, nella cecità della violenza scatenata. Lì prevale, nella cinica freddezza e nello scatenamento, il fondo oscuro che ognuno (che ognuno di noi) porta in sé. La “forma umana” quando si sfigura è del tutto affidata: alla sollecitudine di altri uomini e altre donne, e alle istituzioni di convivenza che essi si danno per la cura e per la giustizia. L’Edipo di Sofocle afferma alla fine della sua parabola “è proprio quando io non sono niente che divento veramente un uomo”. È questa anche l’indicazione del “servo sofferente” di Isaia. È la nostra “comune indegnità”, la debolezza e il degrado che è nelle nostre possibilità e (in momenti e con intensità diverse) nella nostra realtà: è questa che ci può fare incontrare in una relazione che riconosce, e manifesta e dà dignità. La dignità è una relazione. (P. Valadier, 2003) Ma è dalla parabola del samaritano (Luca, 10) che ci viene anche un’altra indicazione: chi incontra lo sconosciuto “senza qualità” e ne ha cura in nome dell’umanità vinta e sfigurata, diventa portatore, dà prova di dignità. Noi ci onoriamo riconoscendo un uomo, una donna, in chi è sofferente e sfigurato nel corpo e nella psiche, senza ridurlo alla sua sofferenza, in chi è nella miseria fisica, psicologica, morale senza ridurlo alla sua condizione, alla sua deficienza. O riconoscendo un uomo, una donna nel criminale, in chi ha fallito, senza inchiodarlo alla sua colpa, al suo delitto.(P.A. Sequeri, 2002) La dignità viene a noi, in essa ci riconosciamo, ci incontriamo. È una relazione. La dignità umana è da vedere e sostenere in (e tra) donne e uomini non perfetti, non “puri” nei gesti, non del tutto limpidi nelle intenzioni. Vulnerabili. Occorre vederla e sostenerla, richiamarla operosamente, in responsabilità, da vulnerabili. In ciò onoriamo noi stessi serbando memoria e fedeltà a quanto dobbiamo ad altri d’esserci, d’esser formati in identità, sapere e dignità. Nati figli tutti e capaci di nascere di nuovo, di riscattarci, di onorarci nell’incontro fraterno. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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