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Caro Presidente,
da ex operatore carcerario e da modesto “cultore della materia”, mi sembra di aver colto un fenomeno assai preoccupante all’interno del sistema penitenziario: la Magistratura di sorveglianza sembra aver assunto, in numerose città italiane (almeno quelle di cui ho notizia), un atteggiamento estremamente chiuso rispetto alla concessione dei benefici. Temo, addirittura, che si tratti della conseguenza di una sorta di regressione culturale, a seguito della quale la Magistratura di sorveglianza sembra condizionata dal prevalere di una ideologia securitaria. Che ne pensa?

Leonardo Carraro




Caro Carraro,
la tua domanda esige una risposta lunga e complessa. In primo luogo, c’è un problema – grave di autolimitazione. Ovvero di autolimitazione, da parte dei giudici di sorveglianza, nel ricorso agli spazi, pur ridotti, consentiti da leggi e regolamenti. Sono aspetti emersi negli ultimi anni – quindi, fra leggi ingiuste e accettazione delle stesse da parte dei giudici – che si sono saldati fra loro, purtroppo in un periodo di entusiasmi calanti per tutti quegli impegni sociali dei giudici, che, con molta approssimazione, si potrebbero chiamare umanitari, ma sono, a mio avviso, per la verità, semplicemente umani. Intanto registro un dato: negli ultimi tempi prima del condono, le misure alternative in Toscana, avevano superato le 1500; oggi sono poco più di 200.

La “mission” istituzionale

Il quesito di fondo è questo: la funzione del magistrato di sorveglianza è quella di gestire la dinamica della esecuzione della pena in osservanza dell’art. 27, comma 3, Cost., o lo stesso deve anche preoccuparsi di difendere la pena nella sua misura statica, conservare la carica punitiva della stessa come da sentenza? Si potrebbe subito osservare che, fra le due soluzioni, c’è una evidente contraddizione: o la funzione è dinamica o è statica: non può essere l’una e l’altra. Ma andiamo avanti per spiegare meglio quello che voglio dire. 
Scendendo nel particolare, si è fatta strada l’idea che la pena vada difesa da certe interpretazioni troppo larghe del sistema delle misure alternative: ad esempio, quando la più ampia delle misure alternative, l’affidamento in prova al servizio sociale, viene concessa senza passaggio dal carcere a chi risponde di un reato – più grave o meno grave, secondo le valutazioni – per il quale o sia stata inflitta una pena entro i tre anni o sia rimasto un residuo pena della stessa misura.   E’ una idea che tenta alcuni magistrati di sorveglianza e che porta a una sensibile riduzione della applicazione delle misure. Che cosa dire? Che non mi sembra rientri fra le funzioni della magistratura di sorveglianza quella di difendere la pena, di impedire che il contenuto di questa venga vanificato dall’intervento penitenziario: e qui bisognerebbe puntualizzare che non c’è vanificazione della pena nelle misure alternative, ma che le stesse servono, in conformità delle previsioni normative, a raggiungere le finalità della pena attraverso regimi di esecuzione, restrittivi della libertà personale, più adeguati a tali finalità. Ovviamente, con riferimento alla pena inflitta e al reato commesso, ci possono essere specifiche ragioni contrarie che riguardano la persona e la sua affidabilità (che comprende tutte le condizioni che l’art. 47, comma 2, indica), ma non si possono, io credo, addurre, invece, ragioni che contrastino con le previsioni della legge: come quella secondo cui, con la misura alternativa, vengono sanzionati troppo leggermente una certa condotta o certi tipi di individui e di autori. La difesa della pena è affidata alla legge e vanno rispettate le opzioni della stessa, che prevede certe pene per certi reati, ma prevede anche, per tali pene, regimi di esecuzione alternativi alla detenzione. Né si può dire, come è stato detto, che certe misure alternative sono amnistiali e senza contenuto affittivo proporzionato alla pena, perché, così dicendo, si rifiuta di capire la sostanza della misura, che è quella di produrre e seguire il percorso di reinserimento sociale della persona secondo le indicazioni e le prescrizioni, limitative della sua libertà, previste dalla ordinanza di concessione. La mancata comprensione (o la mancata fiducia) in questa sostanza della misura alternativa (quando ci sono – incomprensione o sfiducia – rappresentano una notevole limitazione all’esercizio della funzione) può indurre l’autonominato custode della pena a considerare, in certi casi, poco “penosa” la misura alternativa: ma, secondo me, in tale caso il custode della legge non applica la legge. In una recente ricerca del DAP, la recidiva, dopo 7 anni dalla conclusione della esecuzione della misura alternativa, si verifica nel 19% dei casi; nello stesso tempo, dopo la esecuzione della pena in carcere, la recidiva è del 68 e mezzo per cento. Questo evidentemente non interessa.  

La “mission” sociale


E’ una preoccupazione diffusa nella magistratura di sorveglianza l’accettazione  sociale della propria attività. La reazione sociale agli interventi di tale magistratura è oggi assai critica verso la stessa e subisce costantemente le amplificazioni mediatiche, che innescano una spirale ulteriormente riduttiva.
Provo ad analizzare questo discorso. Soprattutto in considerazione dei ritorni autolimitativi che produce sulla attività della magistratura di sorveglianza.
Direi intanto che nel discorso ci sono due discorsi distinti. Il primo è il richiamo sulla scena del reato della parte offesa, della vittima. Il secondo è il coinvolgimento allargato e costante del pubblico all’area della criminalità e alle decisioni dei giudici sulle stesse: e inoltre è diffusa l’attenzione della magistratura di sorveglianza a tutto questo e il condizionamento che ne deriva alla attività della stessa. Entrambi i discorsi sono lanciati e rilanciati da stampa e televisione. Vediamoli.
Il primo. Molte delle aree criminalizzate più di recente sono senza vittima, ma nell’area che rappresenta il penale classico – reati contro la persona, reati contro il patrimonio, etc. – la vittima esiste ed ha, per vero, anche una voce nel processo, ma certamente in un quadro di garanzie che riguarda essenzialmente l’imputato. Poi c’è l’esecuzione delle pene e qui, secondo molti, la vittima, quando c’è, ha uno spazio indubbiamente modesto. La frase biblica, fatta propria da una associazione, “Nessuno tocchi Caino”, che riguarda la protezione del colpevole, ha trovato, negli anni più recenti, espressioni opposte, altrettanto bibliche: “Dalla parte di Abele”, a indicare la necessità della protezione della vittima.
Ora, che si debba tenere conto dei problemi della vittima, dell’aiuto alla stessa per affrontarli, si può ritenere pacifico. Il testo originario dell’Ordinamento penitenziario prevedeva, all’art. 76 “il soccorso e la assistenza alle vittime del delitto”, gestiti dal Consiglio di aiuto sociale, che era l’organo, istituito presso ogni tribunale, che si occupava anche della assistenza alle famiglie dei detenuti e  della assistenza postpenitenziaria ai liberati dal carcere. In queste competenze sono poi subentrati, dal 1977, gli enti locali, che hanno fornito assistenza in questi settori nel quadro dei loro interventi assistenziali generali. All’origine le risorse utilizzabili derivavano anche dalla trattenuta dei tre decimi praticata sulle retribuzioni dei detenuti: tale trattenuta è stata soppressa. Comunque, le vittime del delitto, in presenza di una previsione normativo, come il citato art. 76, dovrebbero ricevere aiuto e assistenza necessaria dagli organi che devono essere ritenuti competenti rispetto a tale previsione. Va dato atto che il sistema non funziona e che comunque dovrebbe, invece, funzionare. Non dimentichiamo che, presso il DAP esiste la Cassa delle Ammende con notevoli risorse finanziarie, molto parzialmente utilizzate, cui sarebbe logico fare riferimento anche per le vittime (era dalla Cassa Ammende che provenivano le risorse per il funzionamento dei Consigli di aiuto sociale). E’ di questi giorni la notizia che buona parte  di quelle risorse, 150.000.000 di euro, saranno impiegati  per la costruzione di nuovi carceri (con un’apposita modifica legislativa). L’interesse per l’assistenza postpenitenziaria ai detenuti e anche quella per le vittime del delitto può aspettare.
E allora: le vittime del reato devono essere aiutate e assistite. Quello che accade, però, non è questo. Anzi, a prescindere dagli aiuti forniti alle vittime di particolari reati, non funziona, come si è detto, un sistema di aiuto generale: per tutte le vittime, quale che sia il reato. Nell’assenza di tale aiuto (e, per vero, anche nei casi in cui l’aiuto c’è, ma evidentemente senza continuità e attenzione sufficienti), si identifica come aiuto alle vittime la limitazione o la esclusione o, in genere, la contestazione alle concessioni di benefici penitenziari ai responsabili dei reati. Questo non può essere accettato. Il percorso riabilitativo attraverso la esecuzione penale è un diritto soggettivo del condannato, se ne ricorrono determinati presupposti di legge (sentenza Corte Costituzionale n. 204/74), fra i quali non c’è sicuramente l’assenso delle parti lese. Là dove, come nel caso della liberazione condizionale, è previsto l’adempimento delle obbligazioni derivanti dal reato, è anche stabilito che l’obbligo viene meno se il condannato non è in grado di adempierle. Il che conferma che la decisione sulla concessione del beneficio non deve essere influenzata dalla accettazione delle parti lese, ovviamente e comprensibilmente poco frequente.
Il che non vuol dire che, come sempre è stato fatto, non ci si debba preoccupare, nel programmare l’inserimento sociale di un condannato, dei problemi legati alla commissione del reato, evitando, ove occorra, che lo stesso rientri nel luogo in cui il reato è stato commesso e dove vivono tuttora le parti lese (è stato sempre un punto da accertare nelle procedure di sorveglianza quando la pena riguardi fatti rilevanti). Così che si può programmare un inserimento in luoghi diversi e lontani. Ma, ripeto, le possibilità del percorso penitenziario di recupero sociale di una persona non devono essere subordinate alla accettazione delle vittime. Si voglia o non  si voglia, sarebbe un ritorno alle prime teorie della pena, secondo cui la vittima aveva propri  poteri diretti sul responsabile.
Vengo al secondo discorso. C’è una partecipazione sociale, rilanciata, come si è detto, da stampa e televisione, alla esecuzione delle pene inflitte ai colpevoli e alla loro esecuzione. Il risultato è la costante insoddisfazione del pubblico rispetto alle pene e il rifiuto di qualsiasi temperamento delle stesse, in particolare in direzione di quelli che si dicono benefici penitenziari, per i quali si segnala un robustissimo calo(vedi sopra). Come si è già rilevato c’è tutta una legislazione che cerca di somministrare carcere per ogni dove e cerca di limitare i benefici penitenziari e una politica di recupero sociale dei condannati. Questa politica, che crede solo nel carcere e non nella possibilità del recupero delle persone, provoca e risponde ad una analoga richiesta sociale. Ma, se analizziamo la politica governativa e la richiesta sociale di carcere e di severità, dove ci troviamo se non in quella china che sta svuotando la Costituzione e azzerando i suoi principi, individuata da Zagrebelski e ricordata in molti articoli da lui scritti per la stampa (particolarmente per “La Repubblica”)? Che il sistema penale presenti larghe zone di irrazionalità è vero, ma il modo di risanarlo non è certo quello di estendere la criminalizzazione, di scegliere il carcere come unico modo di punire, di rifiutare percorsi di riabilitazione dei condannati attraverso alternative alla detenzione, misure alternative che hanno fra l’altro dimostrato di essere assai più efficaci del carcere per contenere la recidiva. In questo modo si introduce soltanto ulteriore irrazionalità. Di più: la via che si sta seguendo è quella di una legislazione ingiusta, che brucia i principi costituzionali di rispetto degli altri (contano gli interessi propri, non quelli di tutti) e quindi di eguaglianza, di solidarietà fra tutti, integrati o non integrati, di ricerca di costruzione di un futuro migliore e non di risposte immediate e ossessive ai problemi del nostro presente, indifferente al presente altrui.
La “mission sociale” echeggia questa china e come tale è molto rischiosa rispetto ai principi che devono sostenere la funzione della Magistratura di sorveglianza.

Sandro Margara

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il 7/2/2014


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