Un teatro per essere uomini
Intervista a Leo Gullotta Margherita Massicci Leo Gullotta ha tenuto uno spettacolo a Rebibbia NC in cui ha messo insieme frammenti autobiografici con vari testi letterari: da Tomasi di Lampedusa a Pirandello, da Sciascia a Buttitta e altri. Nella stessa occasione i detenuti della Compagnia dei Liberi Artisti Associati, diretta da Fabio Cavalli, hanno recitato estratti dal loro spettacolo Dalla città dolente, una rivisitazione dell’ Inferno di Dante, premio Anima – Sezione teatro 2009. Abbiamo intervistato Leo Gullotta e dalle sue parole emerge il senso di una possibile funzione creativa e liberatoria del teatro e della letteratura. Lei è un attore poliedrico, che passa dal teatro classico alla commedia, dal cabaret ai film impegnati... ma come si prepara per interpretare un personaggio? Attraverso il mio lavoro io racconto una esperienza umana Cerco d’informarmi il più possibile, di studiare, di ritrovare l’anima di quel personaggio che non è scritta in nessun copione. La prima cosa che faccio è cercare di capire cosa vuole raccontare il regista, perché è lui che ha tutto in mente, cerco di entrarci lentamente in quel mondo e di respirare insieme a lui; faccio delle domande, discuto per avere più materiale possibile su cui lavorare. Non è una faccenda passiva l’apparire dell’attore. E’ vero che è l’ultimo tassello di un lungo processo creativo, l’ultimo che arriva davanti al pubblico, o davanti ad una telecamera, ma prima c’è chi lo veste, e il vestito viene scelto d’accordo con la regia, ci sono i colori delle luci, l’atmosfera che si deve creare, c’è chi mi mette il microfono, chi la parrucca, c’è chi trucca..., dietro le quinte c’è, insomma, un mondo di professionalità straordinario. Il mio è un lavoro di gruppo: di volta in volta mi rivolgo al costumista per capire se è giusto quel vestito o quell’altro, se il capello è liscio o riccio, a volte si lavora di fantasia, a volte si ripercorre la realtà... è un atto creativo collettivo del fare insieme, dove tu attore sei la parte finale, sei ciò che appare. Di storia in storia ci sono le emozioni, ci sono i viaggi dell’anima che uno fa e che poi offre allo spettatore... Si offre la propria capacità di “farsi dono”. Nel Teatro della Casa Circondariale di Rebibbia lei ha letto dei brani di letterautra.Con quale criterio ha operato la sua scelta? R: Ho proposto una serie di autori, attraverso le cui pagine si offre una riflessione sull’uomo, sull’individuo, sulla società, sulle carenze, sulle ambiguità anche politiche, sociopolitiche.. Ho notato che a Rebibbia lei ci ha tenuto che gli attori-detenuti della “Compagnia Liberi Artisti Associati”,diretta da Cavalli che recitavano degli estratti dal loro spettacolo “La Citta Dolente”, rimanessero sul palcoscenico con lei, come se foste accomunati dallo stesso mestiere. Come è stata questa “ collaborazione”? R: Mi sono messo nella posizione di chi vuole creare con loro uno scambio culturale, emozionale. Non ero sul palco con persone detenute, ma eravamo persone, in uno scambio e le ho volute con me sul palco alla pari. Come si concilia il moto si solidaroietà che si prova entrando in contatto con i detenuti con il fatto che essi sono i responsabili di un’offesa inflitta alla società? R: il carcere è un luogo dove ci sono delle regole, dove ci sono uomini che devono pagare “societariamente” per sbagli commessi, ma non sta a noi puntare il dito. Viviamo in una società in cui stanno cercando di snaturarci con la cultura del pregiudizio, ma questa non ci appartiene, non appartiene alla natura dell’uomo, non appartiene al popolo italiano che è un popolo, ad esempio, con una storia di immigrazione. Io non voglio giudicare in una società dove si è abbandonato il rispetto delle anime. Ognuno dovrebbe accostarsi in punta di piedi alla vita e cercare di capire. Nel suo sito lei dice “ ... è necessario acquisire un nuovo modo di sentire e osservare chi ci sta intorno... cercando di restituire dignità agli sguardi di coloro che desiderano sentirti vicino..” E’ per questo che lei è andato in carcere? R : Io sono andato in carcere per fare un’osservazione d’insieme, mi sono avvicinato a quei luoghi con l’idea che lì si debba riacquistare la dignità come uomini. Sono andato a trovare persone, non detenuti, persone per le quali la visita è importante, appunto per quella dignità che ogni uomo deve avere e conservare. I detenuti parlano della loro esperienza di attori come un’occasione di crescita, di cambiamento. Quale pensa che sia il significato del teatro in carcere? R: Attraverso le parole dei grandi autori si compiono delle esperienze personali importanti che non possono lasciarci immutati. Chi sta in carcere spesso non si è mai accostato ai grandi della letteratura, per una serie di condizionamenti personali, a volte anche per paura (“ma sai, io le pagine importanti non riesco a leggerle”); invece grazie ad un attraversamento guidato si entra in un percorso di esperienza: le parole di Shakespeare, di Dante, attraverso i personaggi, diventano proprie. E’ un modo di uscire, di evadere, di capire ciò che quelle “ persone detenute” hanno fatto e ciò che vorrebbero fare, è un modo di costruire, è una liberazione. Già il fatto che si sta insieme è un momento creativo, in un luogo che di creativo non ha nulla. Il fare spettacoli, il misurarsi con opere letterarie permette loro di liberarsi da quel luogo così restrittivo, e di interrogarsi. Ma è possibile arrivare a parlare di “catarsi,” nell’accezione che aveva nel teatro greco? R: Gli attori liberi, fuori, che fanno questo mestiere, spesse volte sono più leggeri. Hanno un’urgenza minore perché non si accostano ad osservare l’individuo e la realtà che gli sta di fronte. Sono convinti di “sputare la perla”, stanno sul piedistallo, convinti che il mondo gira per la loro presenza, ma ahimè il mondo gira lo stesso, anche senza di loro! Pensa che l’esperienza del teatro in carcere dovrebbe avere maggiore visibilità e risonanza nella società? R: Non solo il teatro in carcere, ma tutto il teatro dovrebbe avere maggiore risonanza! Tutto parte dalla scuola dove si danno gli input della crescita. Nei secoli attraverso i grandi autori, i grandi compositori, l’uomo è si è arricchito. In Italia si guarda ancora al teatro come ad un passatempo. “Leggere è medicina per la mente”: se non vado errato recita così una recente pubblicità, ed è questa la chiave di tutto, se il masticare cultura manca nella crescita dell’individuo, manca nella società. A mio avviso è studiato a tavolino, strategicamente: il teatro nei secoli è stato luogo d’incontro, discussione, perché quando si sceglie di andare al cinema, a teatro, ad un concerto, si sceglie di uscire di casa e stare insieme agli altri, si sceglie il posto, l’opera, si condividono emozioni tutti insieme, e quindi qualcosa si muove, si muovono pensieri. Stando invece a casa davanti alla televisione, si subisce : più si abbassa il gusto, più ti lasci guidare; meno problemi mi crei, più potere dai a me. Si riferisce anche ai tagli che sono stati fatti al FUS (Fondo Unico dello Spettacolo)? All’estero lo stato sovvenziona lo spettacolo, la cultura in generale, la musica, il teatro, il cinema, la lirica; dà denaro perché si sappia di più, perché si nutrano le anime, le teste. In Italia quel sovvenzionamento (già irrisorio rispetto a quello stanziato all’estero) viene tagliato, qui non si sa nulla della situazione sociale e politica del mondo dello spettacolo, mondo fatto di professionisti, di gente che ha studiato e continua a studiare, non di quelli casuali, momentanei che vogliono apparire, qui quel mondo viene colpito, e io non posso fare a meno di pensare che ciò avvenga per un disegno strategico. Probabilmente non si vuole che le persone si possano incontrare, pensare, discutere, fuori, non dentro le quattro mura, per questo si sceglie di offrire poco allo spettatore. D’ altro canto sono anche convinto che un mondo migliore possa esserci, se ognuno contribuisce con il suo 0,000...1 %, ma spetta a noi farlo, alla nostra curiosità, al nostro desiderio di capire, di informarci, alla nostra capacità di “farsi dono”. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
- Michela e le altre
- Nuove carceri senza personale
- Ergastolani: una protesta ignorata
- Indulto e disinformazione
- Leggete e diffondete: mio padre per l'ennesima volta è in grave pericolo
- Comitato educatori penitenziari: per "alternative al carcere" servono più educatori
- Petizione al Parlamento Europeo: tutta l'Europa abolisca l'ergastolo
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