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E la mia vita si è accesa
Sioux


Lo sai? All’inizio eri solo un impegno, una tappa mal digerita della mia “riabilitazione”… Allora, per me sarebbe ottimo se ci vedessimo una volta alla settimana. Avevi guardato velocemente nella tua agenda, la prima volta che ci eravamo visti e mmh… il sabato, dalle 18 alle 19, mi avevi comunicato. Il mio consenso l’avevi dato per scontato: tu eri quella che aiutava, e gli altri, e io, quelli che si facevano aiutare.
Non mi piacevi, non mi piaceva il tuo tono accondiscendente, la tua posizione di ascolto, di tre quarti, il tuo atteggiamento composto. Pensa, non mi piacevano neanche i tuoi occhiali così… così dottorali! Quante volte mi sono detto: adesso mi alzo e glieli tolgo, sono sicuro che sono senza gradazione, finti come lei, come le sue pose, un altro dei suoi accessori professionali! Tu non potevi intuirli questi pensieri, il mio sguardo era attento, concentrato, ma andava oltre di te, a cercare un contatto tra il tuo eloquio collaudato e la mia vita sempre in bilico, a far atterrare nel mio fango i tuoi concetti leggeri, elevati. Eri lontana, Mila!
Che ti aspettavi? Ero un ex tossicodipendente sieropositivo, con una figlia grande che si allontanava di due passi ogni volta che ne rischiavo uno verso di lei; avevo bisogno di soluzioni pratiche e veloci da attuare con le mie forze, e tu… tu mi imponevi la calma, mi chiedevi un lavoro lento, minuzioso: Datti tempo, Federico, ogni cosa maturerà nel suo momento…. Lo sapevi che non avevo tempo e tu me lo facevi sprecare in parole perse, distanti… Che rabbia mi veniva!
Oh, tesoro! Come ho fatto ad amarti? Poteva essere che in tutti quei mesi sterili – così li vedevo – mentre a livello cosciente ti combattevo e consumavo le mie risorse per difendermi dai tuoi attacchi, dentro di me ti guadavo, ti conoscevo, pian piano ti assaporavo, e il mio cuore, abbandonato dal cervello distratto, si è arreso e ti ha fatto entrare? Poteva bastare questa come spiegazione? E che c’è da spiegare nell’amore? Ti ricordi quella volta che ne parlai? Avevi alzato gli occhi al cielo e: L’amore arriva quando gli pare e ti apre un mondo nuovo e bellissimo, il mondo dell’altro e te lo fa diventare tuo, così come ti getta nel freddo e nel fango quando finisce. Non decidiamo noi, nell’uno e nell’altro caso, siamo nelle sue mani…  Parlavi con me e sognavi di qualcos’altro… Mi era piaciuta quell’immagine: questo perdersi alla deriva, sballottati dalle onde, era un lato di te che mi aveva colto impreparato... Poi ce ne sono state altre di immagini, altri incontri, altre parole; tanti momenti, per qualche motivo, mi sono rimasti impressi, altri li ho dimenticati. Ma ce n’è uno così pieno di emozioni, così rumoroso di movimenti e pensieri, che non lo dimenticherò mai. E come potrei? Quel giorno il futuro mi ha fatto vedere un sogno che mi ha acceso la vita!
La sera prima ti avevo telefonato per dirti che due giorni dopo sarei entrato in comunità e volevo vederti per un addio veloce; più importante ancora, volevo sapere le tue reazioni a quel racconto che avevo scritto: con una storia piuttosto contorta avevo voluto comunicarti che mi attiravi, ma avresti potuto capirlo solo se avessi sentito le stesse cose per me. Per quello ti avevo telefonato.

Avevo finito di leggere il tuo racconto quella sera, mi avevi detto che volevi il mio parere prima di consegnarlo al corso di scrittura che stavi frequentando, quindi l’avevo considerato un  onore e un attestato di stima nei miei confronti. Con i fogli tra le dita, le mani poggiate sulla spalliera del divano, il televisore spento, sentivo salire l’imbarazzo per essermi intromessa nella storia del tuo desiderio per…,  per chi? Era tutto molto vago, ma i riferimenti erano tutti molto prossimi al nostro contesto, o a uno simile. Ero confusa e non riuscivo a chiarire i dubbi che mi giravano in testa. Poi hai telefonato, prima un sms: “Sono Federico, al prossimo squillo devi rispondere”, giusto il tempo di sorridere alla tastiera, poi lo squillo al quale “dovevo” rispondere. Volevo salutarti, hai detto e ci siamo dati appuntamento alla metro del Colosseo per il giorno dopo, domenica. Dopo il “ciao”, ero quasi elettrizzata…, un piccolo brivido, nonostante il caldo appiccicoso, l’ho provato non per te personalmente, ma per la situazione strana che si era creata. Mi sono detta: vorrà ringraziarmi per il lavoro fatto insieme, e avevo lasciato in sospeso il racconto, tanto ti avrei visto il giorno dopo.

Sapevo che saresti stata puntuale, quindi sono arrivato 40 minuti dopo, così… come piccola rivincita da maschio. Salite le due rampe color cenere dalla banchina alla biglietteria mi sono lasciato alle spalle il frastuono della metro e sorvolavo con lo sguardo sopra la ressa vociante, poi mi sono affacciato all’uscita con un sorriso mesto: il ritardo andava giustificato. Ma… tu non c’eri! Stavo lì a dirmi: non è possibile! Vuoi vedere che s’è scocciata e se n’è andata via? Poi sei comparsa, da dietro il giornalaio: pantaloni neri, come il giubbotto e il casco… tu, col motorino e tutta nera! Dopo un attimo mi hai visto e hai sorriso. Un sorriso pieno, mai prima me lo avevi dedicato, era di gioia e sovrastava tutti quelli della folla di turisti estasiati e rintronati dal casino, nella spianata sotto il Colosseo.

Quando ti ho visto uscire dalla metro con la maglietta rossa a maniche lunghe, per coprire tutte quelle bolle dell’allergia, ho sentito un’ondata di tenerezza per te, che mi ha cancellato la rabbia per il ritardo. Eri magro, bianco bianco, e facevi fatica a inserirti nel contesto del mondo “fuori dalla stanza”. Guarda che preconcetti che avevo! E chissà quanti ne ho ancora… Mi sembravi spaesato, invece forse eri solo emozionato. Eri così tenero! Camminiamo un po’, dove vuoi tu, magari non proprio sotto il sole…, un docile cerbiatto…

Ero partito per salutarti e basta, forse era pure vero che volevo sapere la tua reazione al racconto, ma poi mi sono sentito spinto dal tuo comportamento ad andare avanti, così alla cieca; ma… “il tuo comportamento”… che avevi fatto? Veramente non lo so, so che ti ho visto diversa, ti ho vista nel mondo reale, eri un’altra donna, e mi sei piaciuta tanto tanto! Non sapevo che fare, mi si era scombussolato tutto e all’improvviso volevo trattenerti lì con me, dovevo trovare una scusa qualsiasi per prolungare il nostro incontro. La testa frullava di pensieri, di ipotesi, ma la paura di sentirti troncare con un: Allora, in bocca al lupo, eh! Ci vediamo quando tornerai… mi aveva costretto a decidere al volo. Tutto il mondo mi urlava dentro: non farla andare via! I turisti, la salita del Colle Oppio, tanta strada da percorrere insieme… «Senti, ce la facciamo una passeggiata fino lassù? Così chiacchieriamo un po’, dovevo dirti una cosa…», mi era uscito dalla bocca da solo. E tu avevi accettato, tranquilla; quella salita poteva essere una boccata d’ossigeno, ma… cos’era che dovevo dirti? E come? Lo cercavo dentro di me, pensavo e scartavo decine di frasi, di concetti. La cima si avvicinava e tu ti giravi ogni tanto verso di me, ammiccavi per incitarmi e lassù ti saresti fermata ad aspettare le mie parole. Ma cos’era che dovevo dirti? Cespugli, bandierine, macchine fotografiche, clacson, tutto mi investiva e mi faceva sbandare, non riuscivo a trovare un appiglio. Ma te ne sei accorta di quanto stavo in difficoltà? Hai visto che quando siamo arrivati in cima ti ho indicato una panchina, duecento metri distante? Tutte le altre erano troppo vicine e a me serviva più tempo: era importantissimo quello che dovevo dirti e dovevo concentrarlo, limarlo, adeguarlo al tuo linguaggio per riuscire a entrare, a colpirti; un compito immane in due minuti…, ma mi sentivo forte, qualcosa dentro di me mi dava la prepotente certezza che tu eri mia e che mi avresti spalancato le braccia per dirmelo; solo un po’ di tempo mi serviva…

Non sapevo cosa pensare del tuo atteggiamento, che cosa aspettarmi. Cercavi un posto dove andare ed eri confuso…, sembravi avere fretta, poi però mi hai indicato una panchina che a malapena vedevo. Potevo solo rimanere in attesa.

Quando sei arrivata e ti sei seduta, composta, io mi sono messo a cavallo della panchina e ho chiesto anche a te di farlo: «Voglio guardarti in viso…». Che occhiata mi hai dato! Si vedeva che non eri abituata, ma poi lo hai fatto e hai poggiato il casco proprio in mezzo, come un piccolo scoglio tra noi. Da cosa volevi salvarti? Era la prima volta che stavamo così vicini, le nostre ginocchia si sfioravano e io chiedevo a Dio il coraggio di accarezzartele.

Ero tesa. Da una parte mi facevi tenerezza, ma si stava creando una situazione che non era per niente tenera. Quando ci siamo seduti sulla panchina e il tuo piede mi ha toccato, ho capito che dovevo prendere le distanze, che stava succedendo qualcosa di serio… Poi le tue parole: Come ti è sembrato il racconto? Amore mio, sono rimasta senza fiato: il tono, lo sguardo, la tensione del tuo corpo mi avevano riportato davanti agli occhi quei fogli nel loro vero e luminoso significato; tutti quegli accenni, quelle parole in un attimo avevano preso il loro posto e si completavano sulla panchina. Come m’era sembrato il racconto? Trovare una risposta era diventato complicato.

Non potevo più aspettare, hai visto con quale ansia ho parlato? «Mila, lo so che non c’entra niente con oggi né con il nostro rapporto “professionale”, ma se non te lo dico sto male! Tu mi piaci moltissimo, non lo so quando è successo, ma è così e non posso tornare indietro e non lo voglio e…  qualunque cosa ti dica adesso tu sappi che farò di tutto per corteggiarti». L’avevo tirato fuori tutto d’un fiato. Che discorso! E meno male che me l’ero preparato! Poi ti ho guardata, aspettando…, dieci secondi infernali mi hai fatto aspettare!

Quando mi hai parlato, sono rimasta muta, saranno stati infernali per te quei secondi… ma io come facevo a dirti tranquillamente : sto con un altro, da cinque anni, è un rapporto collaudato e sereno? Quando le ho dette, mi sono pesate quelle parole, la tua faccia da sfinge che non lasciava trapelare niente, nessuna reazione, nessun dolore… e mi dispiaceva perché da qualche parte stava il tuo dolore….

Quando mi hai detto: Sto con un altro…, ho sentito una fitta dolorosa da tutte le parti, dolore dentro a tagliarmi; ogni tua parola, ogni sospensione apriva e lacerava. La “prepotente certezza” di prima svaporava rapidissima e mi lasciava vuoto, le mie forze erano rimaste su quella panchina e da lì gocciolavano a terra; mi ero assentato da me, l’ostentata indifferenza doveva proteggere l’ultimo pizzico di dignità che mi sosteneva e che mi ha fatto alzare per tornare di nuovo giù, io alla mia metro e tu al tuo motorino. Un viaggio di ritorno al buio, ero disfatto.

… e l’ho visto, infatti, il tuo dolore… Quando ti sei alzato, ti ho seguito, mentre scendevamo ti tenevo il braccio, anzi te lo sfioravo perché mi sentivo in colpa; però nello stesso tempo ti volevo far sentire che io c’ero, anche se non volevo stare con te… Ecco è questa la sensazione che ricordo bene: volevo comunque darti coraggio, farti sentire che non ti avrei lasciato solo. Ti avrei voluto dare l’indirizzo di casa perché tu potessi scrivermi, ma non me l’hai chiesto. Probabilmente non volevo chiudere in modo definitivo,  pensa in quale confusione mi avevi gettato!

Quando ci siamo salutati ti ho abbracciata stretta, poi sei andata via. Sono stato sulla panchina della metro più di mezz’ora, fermo davanti ai pannelli pubblicitari elettronici fissavo un servizio di catering per matrimoni, poi gli sconti sui traghetti per la Sardegna e poi di nuovo il servizio di catering… E mi ripetevo: adesso corro su e la chiamo, devo parlarle ancora! Dietro di me il fischio delle porte pneumatiche che si chiudevano e aprivano, e ti pregavo: dai, vieni giù, non può finire così! Seduti sulle scale, due diciottenni del Nord Europa mi guardavano assorti, poggiati sui loro zaini. Era finito tutto, dovevo ricominciare daccapo.

Ancora non lo sapevo, ma già era cominciato… Per mesi avevi provato a farmi cedere, ma è stato lì col tuo abbraccio che il mio muro è andato in frantumi. Mi avevi colta di sorpresa e all’uscita dalla metro mi sono fermata ad aspettare che succedesse qualcosa. Ero scombussolata perché mi sentivo ancora stretta a te e per il resto del pomeriggio avevo ripensato al calore, alla dolcezza, alla passione del tuo abbraccio. Mi avevi scosso il cuore e invaso di domande.
Le vuoi ora le mie risposte? Io me l’aspettavo! Magari non così, ma qualcosa del genere sentivo che sarebbe successo e la mia sorpresa sulla panchina per metà era lo sgomento di doverti dire un no, di cui però non ero affatto sicura. Mentre ti parlavo di lui cercavo di convincere prima di tutto me stessa: tu volevi iniziare una storia d’amore, e il tuo amore con i tuoi occhi, le tue parole, i tuoi gesti mi investiva per la sua potenza, e io mi facevo difendere da una storia che dell’amore aveva solo le briciole, ma non potevo dirlo, non ero pronta. Forse se avessi…, no! Quella giornata deve rimanere così: il giorno in cui niente è andato come doveva andare… Per fortuna!
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il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

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Voltaire

 


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