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Rassegna stampa 8-9-10 novembre

Roma, tensione al corteo pro Cucchi

Momenti di tensione al termine del corteo organizzato dai centri sociali per Stefano Cucchi. Quando il corteo si era già sciolto, un gruppo di manifestanti ha rovesciato e dato fuoco ad alcuni cassonetti in via di Tor Pignattara e lanciato due petardi e alcuni oggetti contro le forze dell'ordine. Per disperderli gli agenti hanno lanciato dei lacrimogeni. Altri cassonetti sono stati rovesciati e incendiati su via Casilina.
lapresse

"Non può essere la violenza a farci giustizia". E' quanto hanno affermato i familiari di Stefano Cucchi dopo i momenti di tensione durante la manifestazione dei centri sociali esprimendo "solidarietà" nei confronti della polizia.

"Siamo addolorati - ha detto la sorella Ilaria - per quanto accaduto durante la manifestazione, perché non può essere la violenza a farci giustizia".

La famiglia di Stefano è tornata però a chiedere che si faccia luce sulla fine del giovane, morto all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo l'arresto. "Stefano era un un ragazzo come tanti e noi lo amavamo infinitamente: intelligente, sensibile, altruista e buono - ha dichiarato la sorella a nome della famiglia - Amava la vita e la droga gliela ha rovinata e distrutta. Non doveva comunque morire così".

"Noi cerchiamo verità e giustizia" e "proprio per questo Stefano non deve essere per nessuno né un eroe, né un modello, né un motivo di odio o violenza".
7/11/2009 TgCom



Cucchi, verso perizia calligrafica
Al vaglio firma su documenti sanitari


I due "no" all'informazione ai familiari attribuiti a Stefano Cucchi così come la sua firma apposta sul modulo prestampato dell'ospedale Sandro Pertini potrebbero essere a breve sottoposti a consulenza grafologica. Il test servirebbe ai due pubblici ministeri che indagano sulla morte del tossicodipendente per verificare se il documento sia stato compilato effettivamente dal giovane e se quella fosse realmente la sua volontà.
TgCom 8.11.2009


Caso Cucchi: Pedica (IdV), oggi visiterò le caserme della notte dell'arresto

Roma, 9 nov. - (Adnkronos) - "Questo pomeriggio mi rechero' a visitare le caserme dove Stefano Cucchi ha passato le ore cruciali della notte dell'arresto, per completare la ricostruzione di una vicenda ancora oscura ed offrire il mio supporto istituzionale alla famiglia Cucchi e all'emergere della verita'". Lo annuncia il senatore dell'Italia dei Valori, Stefano Pedica, che alle 15 sara' in visita di sindacato ispettivo presso la caserma Appia e alle 16.30 presso la caserma Tor Sapienza.




«Il mio piccolo scout che
non avevo mai abbandonato»

«Era fragile e buono. Voleva tornare a San Patrignano. L’ho rivisto dietro una teca di vetro»

ROMA — «...Era chiuso dentro una teca di vetro, il corpo avvolto in un lenzuolo. Si vedeva solo la testa. Che era tutta nera, co­me se fosse stata bruciata. L’occhio sini­stro era rientrato nell’orbita e sopra l’oc­chio l’osso sporgeva in fuori. Il viso era an­cora più scarno di quando l’avevo visto l’ul­tima volta: quando l’hanno arrestato pesa­va 45 chili, quando è morto solo 37. L’ho guardato e ho urlato, urlato, urlato...». Adesso Giovanni Cucchi invece parla a vo­ce bassa ma ferma, seduto nel tinello di ca­sa sua. Sul tavolo le foto di Stefano bambi­no, in fondo al salotto la televisione tra­smette un telegiornale che nessuno ascol­ta. «Lo sa qual è la cosa più brutta? Che Ste­fano è morto solo, che è stato abbandona­to. Lui e noi, perché anche noi siamo stati abbandonati. Eppure io ho sempre cercato di proteggerlo, di aiutarlo. Non era un 'bel­lo di papà' come diciamo a Roma, non ero indulgente con lui. Ma non lo avevo mai lasciato solo. Era stato tre anni alla comuni­tà Ceis di don Picchi, e sei mesi a San Patri­gnano. Sembrava che ne fosse uscito bene. Ma questi ragazzi di oggi sono fragili, fragi­li. Hai voglia ad aiutarli...».

VOLEVA GUARIRE - In comunità Stefano c’era voluto andare da solo. «Capiva la nostra sofferenza, e ave­va voluto chiudersi lì dentro per guarire». A Ilaria, la sorella, pochi giorni prima di es­sere arrestato aveva scritto un messaggino sul telefono: 'Mi sto riprendendo la mia vi­ta'. «Ma lo sapevamo che era sempre espo­sto, una volta uscito. E quando l’ho visto al processo ho cercato di convincerlo a torna­re a San Patrignano. Mi aveva detto di si». Giovanni butta giù un bicchiere d’acqua, guarda fisso davanti a sé e racconta asciut­to quei sei giorni inverosimili di abbando­no e ottusa crudeltà. «Quando i carabinieri ci hanno telefonato che Stefano era stato ricoverato in ospedale era sabato. Siamo andati al Pertini, ma non ci hanno neanche fatto entrare. Tornate lunedì, ci hanno det­to. Noi volevamo solo sapere perché lo ave­vano ricoverato, volevamo notizie. Da chiunque. Lunedì eravamo di nuovo lì. È arrivata una sovraintendente della polizia giudiziaria: non potete parlare con i medi­ci, perché non è arrivato il permesso della direzione di Regina Coeli. Diteci almeno co­me sta. È tranquillo, tornate domani».

LA RABBIA - Martedì Giovanni Cucchi, sua moglie e la figlia sono di nuovo lì. Non li fanno nem­meno entrare in reparto. «Ci vuole il per­messo, ci dice il piantone. Dateci qualche notizia. No, oggi ci sono io e le cose stanno così, risponde quello. Mercoledì vado dal giudice, mi faccio dare il permesso. Ma bi­sogna farlo convalidare a Regina Coeli, e lì l’ufficio chiude alle 11 e mezza. C’è traffico, non faccio in tempo. Giovedì vado al carce­re ma mi chiama mia moglie. Torna a casa subito. Andiamo al Pertini, escono una guardia e un medico, una donna. Come è successo? Si è spento, risponde la dottores­sa. Stava sempre coperto con un lenzuolo, rifiutava il cibo e le cure. Perché non ci ave­te detto niente? Potevate parlare con i me­dici, risponde lei. Mia moglie urla, di rab­bia. Qui abbiamo tutto in regola, dice anco­ra la dottoressa. Abbiamo le carte...».

LA COCAINA - Quando i carabinieri l’avevano arresta­to, Stefano aveva 20 grammi di hashish e due grammi di cocaina. Era la cocaina la sua dannazione: non costa niente, si trova dappertutto. Giovanni Cucchi fa il geome­tra, ha uno studio suo. E Stefano aveva co­minciato a lavorare con il pa­dre. «Da bambino era stato nei lupetti, poi negli scout. Fre­quentava la parrocchia, era coc­colato da tutti. Adesso tutti quelli che lo conoscevano ripe­tono la stessa cosa: era buono, altruista e non aveva mai fatto male a nessuno. Purtroppo era anche tanto fragile. Ma al di là di tutti i suoi sbagli ha avuto un trattamento inumano. Ecco, inumano. Non mi viene nessu­n’altra parola». È costato tanto alla fami­glia Cucchi mettere in piazza le foto del cor­po martoriato di Stefano. «Ma non si può permettere che le cose vadano così». E co­sta tanto ad Ilaria rispondere ogni due mi­nuti al telefono, e ieri sera tenere a bada sotto casa la rabbia dei ragazzi dei centri sociali, che gridano «assassini» ai poliziot­ti. «Stefano non era un eroe — aveva ricor­dato a quel muro di facce gonfie di rabbia che aveva davanti — era un ragazzo fragile come tanti. È solo morto come nessuno do­vrebbe morire».

Giuliano Gallo
08 novembre 2009  Corriere della Sera






L’insostenibile inferno delle carceri
Redazione on 10 Novembre, 2009 Libero

di Davide Giacalone

Nel gran minestrone dell’informazione i fatti si gettano a casaccio, in attesa d’essere dimenticati, lasciando irrisolti i problemi. Si sono ritrovati assieme, nei commenti e nelle invettive pubbliche, il suicidio di Diana Blefari Melazzi, la morte di Stefano Cucchi, il sovraffollamento della carceri ed il relativo sciopero convocato dagli avvocati penalisti, per il prossimo 27 novembre. Ingredienti disomogenei, destinati a creare una sbobba indigeribile. La signora Blefari meritava, tutto quanto, il carcere a vita. Non è una vittima, ma un carnefice. Non paga di avere avuto un ruolo decisivo nell’accoppare un uomo inerte, colpito solo per le sue idee, arrivò a rimproverarsi di non averlo prima torturato. E’ stata condannata, in primo e secondo grado, all’ergastolo. La seconda sentenza fu annullata dalla cassazione, sicché si rifece l’appello e fu ancora condannata all’ergastolo, poi confermato in cassazione. Pare fosse depressa. Di gente giuliva, in carcere, se ne vede poca. Nessuno l’ha uccisa, né indotta a togliersi la vita, s’è suicidata. Il personale di sorveglianza l’ha soccorsa, trovandola ancora viva, ma, purtroppo, non in tempo per rimediare al suo gesto. Dopo di che, può ben darsi che si dovesse fare di più, ma, francamente, non vesto il lutto.

Mi dispiace, se taluno valuterà troppo dure queste parole, ma quel che ho letto è assai preoccupante. “Onore alla compagna”?! Poi un pietismo fuor di luogo, che ha un senso se privato, ma è stucchevole se si cerca di farne costume perdonista. La pretesa punitiva dello Stato è legittima, in questo caso ottimamente riposta, e si chiama giustizia. Mescolare questa vicenda a quella degli altri detenuti, che vivono in condizioni disumane, è, per loro, offensivo.

Il caso di Cucchi è diverso, apparentemente dissennato. Prima si è detto che era stato pestato durante la notte, dai carabinieri. Ma è comparso in giudizio il giorno dopo e nessuno, padre ed avvocato compresi, ha visto segni di maltrattamento. Stava male, certo, come capita ai tossicodipendenti, tanto che sia il giudice che il pm gli hanno suggerito di farsi vedere, gli hanno chiesto se aveva bisogno di qualche cosa. In carcere è rimasto delle ore, poi il ricovero e la morte. Una questione tutta da chiarire, ma nella quale il sovraffollamento ed il resto non c’entrano.

Queste due storie, ed il giudizio che se ne da, non devono distogliere dal dato più generale e drammatico, relativo alla condizione di tutti i detenuti. Qui la politica ha le sue colpe più grandi, prima di tutto perché distratta appresso a bandiere del tutto prive di senso, come quella su cui si stampa la “durezza” e quella in cui si disegna “l’umanità”. Alla fine c’è solo un sistema colabrodo e feroce.

E’ vero, le carceri scoppiano, c’è troppa gente. Ma il dato ancora più scandaloso è che più della metà dei detenuti è in attesa di giudizio. Secondo quanto stabilisce l’articolo 27 della Costituzione, da noi, in carcere, per più della metà ci sono dei non colpevoli. Abominevole. Tale percentuale è sconosciuta in ogni altro Paese civile, ed è in netta crescita mano a mano che passa il tempo e la giustizia sprofonda. Quindi, sia detto sia ai fautori del pugno duro che ai cultori del cuore d’oro, l’unico modo per far passare le loro speranze, sia le une che le altre, è che la giustizia funzioni. E qui sospendo, perché ne ho scritto tante volte ed altrettante ne scriverò. Il punto essenziale è: deve essere al servizio dei cittadini e non delle toghe.

Posta quella condizione, non solo non è affatto detto che l’unica pena sia il carcere, ma neanche che l’unico carcere possibile sia quello che conosciamo. Ci vogliono pene alternative (dal domicilio al soggiorno, al braccialetto) e istituti diversi. Non tutti i detenuti hanno la stessa pericolosità sociale. Un pedofilo devo tenerlo chiuso, un corruttore lo posso anche mettere in una comune agricola, avvertendolo: spendo poco per controllarti e mi fido che tu abbia capito che ti conviene rigare dritto, ma se ti allontani ti ripiglio e ti faccio scontare il decuplo della pena. Rimarrebbero quasi tutti, perché solo la delinquenza organizzata può assicurare la vivibilità della latitanza.

Una volta sfollate le carceri, ed ampliati i posti, sarà possibile rendere produttivo il tempo che ci si trascorre, non dedicandole solo all’inscatolamento di carne umana. L’Unione Camere Penali, convocando lo sciopero, fa riferimento al principio costituzionale della pena come “rieducazione”. Il termine è datato, ed anche un filino (maoisticamente) pericoloso. Diciamo che la pena dovrebbe essere utile al futuro ritorno in società. Quindi: curare i malati (l’epatite riguarda moltissimi); disintossicare i drogati (circa il 30%); istruire gli ignoranti; insegnare un lavoro. Accanto allo scopo più evidente: pagare per il reato commesso.

In questi anni di falsa severità sono state date molte colpe alla legge Gozzini, limitandola e smozzicandola. Sbagliato, quella è una buona legge, che premia chi si comporta bene, ma richiede buoni magistrati e buone strutture. Si deve curare la febbre, non spezzare il termometro.

Infine, un accenno ad una sacrosanta rivendicazione dei penalisti: ai detenuti a regime di 41 bis (carcere duro, sul quale qui ometto ogni altra considerazione) sono limitati, nel numero e nella durata, i colloqui con il difensore. E’ intollerabile. Se ci sono avvocati collusi con i criminali, li si accusi e condanni. Ma questo non può comportare limitazioni al diritto di difesa, senza il quale non c’è giustizia.

Quello sommariamente descritto, chiedendo anticipatamente scusa per ciò che manca e ciò che è stato brutalmente riassunto, è un percorso riformista, ispirato alla severità della legge, alla certezza ed equità della pena. Se non lo si percorre ci terremo le carceri trasformate in inferno, le guardie trasformate in aguzzini, la criminalità che la fa da padrona ed i poveri disgraziati che ne impazziscono. Questo film, con Alberto Sordi, è ora che finisca. (Terza Repubblica)


Cucchi: un testimone:
“È stato picchiato in cella”


Per la morte del 31enne Stefano Cucchi, deceduto in ospedale dopo l’arresto, indagati uomini delle forze dell’ordine

Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato nella cella di sicurezza del Palazzo di Giustizia a Roma. E a testimoniarlo ci sarebbe un detenuto. A rivelarlo è il legale della famiglia del 31enne, arrestato e morto - in stato di detenzione - dopo una settimana, il 22 ottobre scorso. “Dalle informazioni che abbiamo, confermo la presenza di un testimone del pestaggio di Stefano Cucchi nella cella di sicurezza del Palazzo di Giustizia a Roma. Si tratta di un detenuto”. ha detto Fabio Anselmo. L’avvocato ha precisato di attendersi come imminente l’istanza di riesumazione del cadavere per svolgere una nuova autopsia. Su cosa abbia visto il testimone l’avvocato non si sbilancia. “Sappiamo cosa ha visto il testimone, chi sono le persone coinvolte. Ma in questo momento non possiamo dire di più”.

I primi indagati
Proprio ieri erano stati iscritti, da parte de pm romani Maria Francesca Loy e Vincenzo Barba, i primi nomi nel registro degli indagati. L’accusa è omicidio preterintenzionale. A rispondere della fine di Cucchi sono sei persone che hanno avuto contatti col giovane nelle camere di sicurezza del Tribunale di Roma. L’aggressione secondo gli inquirenti sarebbe avvenuta dopo l’udienza e prima del trasferimento in cella. Per ora non ci sarebbero medici indagati.

Il legale e Giovanardi

Ieri c’è stato anche un botta a risposta fra il sottosegretario Carlo Giovanardi (Pdl)e la famiglia del giovane. Il politico ha detto che Cucchi è morto “perché drogato e anoressico”. “Parole del tutto gratuite”, per la sorella di Stefano, Ilaria. “Condivido molte delle affermazioni di Carlo Giovanardi”, ha detto oggi il legale della famiglia. “Nelle cartelle cliniche emerge come Stefano abbia rifiutato cibo e acqua perché voleva parlare con il suo avvocato e con una volontaria di una comunità terapeutica dove voleva rientrare, oltre che con suo cognato. Che fosse un tossicodipendente con grossi problemi di droga come ha detto Giovanardi è vero - ha aggiunto Anselmo - ma è evidente come i molteplici traumi alla colonna vertebrale abbiano debilitato il fisico fino al decesso di Stefano”.

City 09 novembre 2009



Cucchi,c'è testimone del pestaggio
Avrebbe assistito al fatto in tribunale

Tg com
Spunta un testimone chiave nella vicenda di Stefano Cucchi. Ci sarebbe un uomo che ha assistito al pestaggio del giovane nella cella di sicurezza, a Palazzo di giustizia, a Roma, secondo quanto riferiscono alcuni quotidiani. E ci sono anche i primi sei indagati per aggressione contro il giovane, accusati di omicidio preterintenzionale. Cucchi era arrivato sano e con pochi grammi di droga. E' morto dopo una settimana, nell'ospedale Sandro Pertini.

A finire indagati dovrebbero essere carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e detenuti. Sei persone che si sarebbero trovate in contatto con Stefano Cucchi nelle camere di sicurezza del Tribunale di Roma, proprio in quel lasso di tempo e spazio dove sarebbe stato isolato l'attimo dell'aggressione: dopo l'udienza che aveva deciso di lasciare in carcere Stefano e prima del suo trasferimento in cella. Tra gli indagati per ora non comparirebbero medici.

Ma i magistrati vogliono fare luce anche su ipotetiche percosse precedenti l'arrivo in tribunale del giovane e a tale scopo sono stati interrogati i carabinieri, che rischiano di essere indagati. Infatti gli avvocati della famiglia Cucchi hanno dichiarato che Stefano arrivò in tribunale con il volto già segnato.

E intanto sta per approdare online tutta la documentazione clinica relativa alla vicenda del geometra. Una serie di documenti dai quali si ricava che Stefano "non collaborava" con il personale sanitario e rifiutava i trattamenti.

Per fare un po' di chiarezza sull'accaduto, la salma di Cucchi sarà probabilmente riesumata per consentire il completamento degli esami disposti. Sul cadavere del giovane è già stata fatta l'autopsia. E dai primi risultati degli esami clinici e della documentazione autoptica compiuti dai medici legali incaricati dalla Procura, sembra che le lesioni riscontrate sul detenuto siano compatibili sia con un evento accidentale, come potrebbe essere una caduta, sia con le percosse.

Al momento dunque non sarebbero coinvolti nelle indagini dei pm Vincenzo Barba e Francesca Loy i medici dell'ospedale, nei confronti dei quali, se emergessero responsabilità a livello di negligenze, si procederebbe per omicidio colposo. Per i legali della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo e Dario Piccioni "si tratta di uno sviluppo particolarmente significativo e rilevante della delicata indagine in corso".

La documentazione clinica è stata pubblicata intanto sui siti abuondiritto.it, italiarazzismo.it e innocentievasioni.net: dal referto del medico del 118 delle 5,30 del 16 ottobre, fino ai diari sanitari del reparto detentivo del Pertini e al certificato di morte del 22 ottobre. Dalla relazione fatta il 21 ottobre scorso dall'ospedale Sandro Pertini emerge che Cucchi presentava "condizioni generali molto scadute" e aveva "un atteggiamento oppositivo, per nulla collaborante e di fatto rifiuta ogni indagine anche non invasiva". Nella relazione si legge, inoltre, che Cucchi "ha affermato di rifiutare anche di alimentarsi, accettando di bere liquidi e assumere la terapia orale, finchè non parlerà con il suo avvocato".

Dalla documentazione "emerge come una moltitudine di operatori della polizia giudiziaria, del personale amministrativo e delle strutture sanitarie, abbiano assistito, inerti quando non complici, al declino fisico di Stefano Cucchi e fino alla morte", spiega il presidente di "A Buon Diritto", Luigi Manconi.





Cucchi, primi indagati Ed è giallo sui referti
MORTO DOPO L'ARRESTO. Prosegue a pieno ritmo l'inchiesta dei pm su un caso che divide
Carabinieri, agenti e detenuti iscritti nel registro Pubblici i documenti clinici dal ricovero al decesso «Deceduto perché drogato»: bufera su Giovanardi
Una manifestazione di protesta per la morte di Stefano Cucchi

ROMA
Arrivano i primi indagati per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta nell'ospedale Sandro Pertini, a Roma, sei giorni dopo l'arresto per possesso di droga. Gli indagati, accusati di omicidio preterintenzionale, dovrebbero essere carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e detenuti.
In tutto circa sei persone, che si sarebbero trovate in contatto con Stefano Cucchi nelle camere di sicurezza del Tribunale di Roma. L'aggressione sarebbe avvenuta dopo l'udienza che aveva deciso di lasciare in carcere Stefano e prima del suo trasferimento in cella. Tra gli indagati per ora non comparirebbero medici.
Per fare luce la salma di Cucchi sarà probabilmente riesumata per consentire il completamento degli esami disposti. Sul cadavere del geometra è già stata eseguita l'autopsia. E dai primi esami risulta che le lesioni riscontrate sul detenuto sono compatibili sia con un evento accidentale, come potrebbe essere una caduta, sia con le percosse. Al momento dunque non sarebbe coinvolto nelle indagini dei pm Vincenzo Barba e Francesca Loy il personale medico dell'ospedale, nei confronti del quale, se emergessero responsabilità a livello di negligenze, si procederebbe per omicidio colposo. Per i legali della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo e Dario Piccioni, «si tratta di uno sviluppo particolarmente significativo e rilevante della delicata indagine in corso».
Intanto ieri sono stati pubblicati on line, sui siti abuondiritto.it, italiarazzismo.it e innocentievasioni.net, i documenti clinici a partire dal referto del medico del 118 delle 5.30 del 16 ottobre, fino ai diari sanitari del reparto detentivo del Pertini e al certificato di morte del 22 ottobre. Dalla relazione fatta il 21 ottobre scorso dall'ospedale emerge che Cucchi presentava «condizioni generali molto scadute» e aveva «un atteggiamento oppositivo, per nulla collaborante: di fatto rifiuta ogni indagine anche non invasiva». Questo fino a che non avesse parlato con il suo avvocato».
Hanno intanto infiammato la polemica le parole del sottosegretario Carlo Giovanardi secondo cui «Cucchi era in carcere perchè era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto, e la verità verrà fuori, soprattutto perchè pesava 42 chili. La droga ha devastato la sua vita, era anoressico e tossicodipendente».
BresciaOggi 10.11.2009





Caso Cucchi, sei indagati
Spunta un supertestimone
Ha assistito al pestaggio. Giovanardi: "Morto perché drogato e anoressico". È polemica
di Marino Bisso e Carlo Picozza
C´è un testimone chiave del pestaggio di Stefano Cucchi nella cella di sicurezza del Palazzo di giustizia. E ci sono i primi sei indagati per l´aggressione al trentunenne arrestato sano, con pochi grammi di droga, e morto sette giorni dopo con il corpo denutrito, disidratato, devastato da fratture e altri traumi. I magistrati oggi decideranno sulla riesumazione della salma. Sul decesso del giovane è tornato a parlare il sottosegretario Carlo Giovanardi: «Era in carcere perché tossicodipendente e spacciatore abituale». E ha incassato di nuovo critiche a valanga e richieste di dimissioni.

I magistrati si concentrano sulle responsabilità di quattro agenti penitenziari che hanno avuto in custodia, il giovane negli interrati del Palazzo di giustizia il 16 ottobre, giorno della convalida dell´arresto. A metterli su questa pista non ci sono solo le confidenze consegnate da Cucchi ai compagni di cella, ma la testimonianza di un detenuto che, dallo spioncino della cella, ha assistito al pestaggio di Stefano dopo che era stato accompagnato in bagno. L´attenzione dei pm si concentra anche su qualche detenuto con cui Cucchi avrebbe potuto avere un alterco.

I magistrati vogliono far luce inoltre su possibili percosse antecedenti l´arrivo in tribunale e nei giorni scorsi hanno sentito i carabinieri. Rischiano di essere indagati pure loro. Un´inchiesta interna dell´Arma ha ricostruito il ruolo dei suoi uomini escludendo responsabilità. Ma gli avvocati della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo e Dario Piccioni, insistono: «Chiediamo accertamenti a tutto campo: Stefano si presentò in tribunale già con il volto segnato».
«Escludo che ci siano responsabilità di qualche collega», dice Daniele Nicastrini, segretario regionale della Uil penitenziari, «e non sono arrivati avvisi di garanzia. Qualcuno è stato convocato dai pm ma Cucchi era già in condizioni critiche prima che lo prendessimo in consegna». Oggi il magistrato scioglierà le riserve sulla riesumazione della salma. «Lo ha chiesto la parte civile per far eseguire alcune tac», spiega il coordinatore dei periti, Paolo Arbarello, «e noi non ci opporremo». Il secondo fronte dell´inchiesta, che interesserà i sanitari che non avrebbero assistito Cucchi in maniera adeguata, muoverà sull´ipotesi di omicidio colposo.


Intanto, sulle frasi di Giovanardi («Cucchi era in carcere perché spacciatore abituale; la verità verrà fuori: è morto soprattutto perché pesava 42 chili») sono piovute critiche da sinistra, destra e centro e una valanga di contestazioni su Facebook. «Quando in politica, come nella vita», attacca Lorenzo Cesa, segretario Udc, «manca ogni senso di umanità, si diventa barbari: oggi è Giovanardi il nuovo barbaro». «E pensare», dice Antonio Di Pietro, segretario Idv, «che Giovanardi ha le deleghe alle Politiche giovanili: si dimetta per manifesta incapacità». «È vergognoso», commenta Paolo Ferrero, segretario del Prc, «che chi si scandalizza per la sentenza sul crocifisso non abbia alcun rispetto per la vita umana».
La Repubblica (10 novembre 2009)






«Cucchi ucciso dalla droga». Bufera su Giovanardi

di Anna Maria Greco
RomaFanno esplodere le polemiche, le frasi di Carlo Giovanardi: «Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto - e la verità verrà fuori - soprattutto perché pesava 42 chili». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, alla trasmissione mattutina di Radio 24, sostiene che «la droga ha devastato la sua vita, era anoressico e tossicodipendente». Che bisogna vedere «come i medici l’hanno curato», visto che in 5 giorni è «peggiorato». E conclude: «Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, zombie: è la droga che li riduce così».
Contro Giovanardi insorgono la famiglia del detenuto morto il 22 ottobre, in circostanze ancora oscure, all’ospedale Sandro Pertini di Roma e parlamentari del Pd, dell’Idv, del Pdc, dell’Udc, radicali, verdi e socialisti. C’è chi chiede di smentire, chi pretende o le scuse o le dimissioni, chi vuole l’intervento del premier Silvio Berlusconi. Anche tra gli esponenti della maggioranza c’è chi definisce quello di Giovanardi uno «scivolone», come l’ex radicale oggi nel Pdl Benedetto Della Vedova.
Dichiarazioni «inqualificabili», protesta Livia Turco del Pd. «Crudeli», aggiunge Vittoria Franco. «Ipocrite, agghiaccianti», le definisce Felice Belisario dell’Idv. E Massimo Donadi dice: «Si dovrebbe vergognare delle sue affermazioni, palesemente false. Si deve dimettere». Il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, si augura che «smentisca o rettifichi le incredibili e disumane frasi attribuitegli; in caso contrario, credo che sia compito del presidente del Consiglio intervenire».
Parole che «si commentano da sole», per il padre del giovane, Giovanni Cucchi. «La famiglia - dice - è sempre in attesa di giustizia. Che Stefano aveva dei problemi non lo abbiamo mai negato, ma non per questo doveva morire così».
Sotto tiro, il sottosegretario interviene ancora, per spiegare meglio il suo pensiero. Esprime solidarietà alla famiglia e sottolinea che nella tragica fine di Cucchi finora di certo c’è che «nei giorni della degenza ospedaliera si è permesso che arrivasse alla morte nelle terribili condizioni che le foto testimoniano». Ma insiste che «la droga ha svolto un ruolo determinante, perché è stata la causa della fragilità di Stefano, anoressico, tossicodipendente e soggetto a crisi di epilessia (secondo le sue dichiarazioni)». Per Giovanardi proprio per le sue patologie i medici non dovevano «prendere per oro colato le sue presunte volontà». I familiari, dunque, hanno ragione a denunciare di non averlo potuto vedere, né di avere avuto informazioni sulla sua salute. Il nodo, per Giovanardi, è: «La volontà di Stefano, in quelle condizioni, era davvero così chiara?».
Il sottosegretario, insomma, sposta l’attenzione dalle forze dell’ordine ai medici, dal presunto pestaggio alle cure fatte in ospedale a Cucchi, che rifiutò di sottoporsi ad alcuni esami, respinse l’alimentazione forzata e, sembra, negò l’autorizzazione ad informare i familiari. L’intera cartella clinica è ora su vari siti internet, con l’autorizzazione della famiglia Cucchi e dell’Autorità garante della privacy. E da queste carte, secondo la sorella di Stefano, Ilaria, «emerge il motivo perché rifiutava di alimentarsi, di bere, le cure: protestava perché voleva vedere il suo avvocato e l’operatrice del Ceis (la comunità di Don Picchi, dov’era stato 3 anni, ndr) cui era molto legato». Questo dimostra che «è stato lasciato morire e gli sono stati negati fondamentali diritti». Quanto alle notizie, Ilaria dice: «Esiste un documento non firmato. Dov’era il diniego di dare informazioni alla famiglia quindi?».
Il Giornale 10.11.2009






9/11/2009
"Cucchi morto perchè anoressico"

Scontro sulle parole di Giovanardi
Il sottosegretario: «Il ragazzo era un drogato e pesava solo 42 chili».
Il Pd: «Dichiarazioni incredibili».
L'ira della famiglia: parole gratuite
ROMA
Stefano Cucchi è morto perchè era drogato e anoressico. Le parole del sottosegretario Carlo Giovanardi riaccendono la polemica sulla morte del giovane, deceduto nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini 6 giorni dopo l’arresto, con vistosi ematomi in volto e sul corpo.

Parole contro le quali si scagliano i familiari di Stefano che dal 22 ottobre chiedono giustizia per Stefano, l’opposizione e anche alcuni esponenti della maggioranza, secondo i quali quello di Giovanardi è uno «scivolone». Critiche alle quali il sottosegretario risponde in serata, parlando di «polemiche strumentali e in malafede». «Cucchi era in carcere perchè era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto, e la verità verrà fuori, soprattutto perchè pesava 42 chili» dice Giovanardi di primo mattino, sottolineando che la «la droga ha devastato la sua vita, era anoressico e tossicodipendente». Certo, prosegue, «il fatto che in cinque giorni sia peggiorato» dimostra che «bisogna vedere come i medici l’hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così».

Parole ammorbidite nel pomeriggio. «Sono stato il primo ad esprimere la solidarietà alla famiglia Cucchi per quello che di certo c’è nella sua tragica fine e cioè che nei giorni della degenza ospedaliera si è permesso che arrivasse alla morte nelle terribili condizioni che le foto testimoniano. Ma in tutto questo - ribadisce il sottosegretario - la droga c’entra, perchè è stata la causa della fragilità di Stefano, anoressico e tossicodipendente». Immediata la reazione dei familiari. «Sono parole che si commentano da sole, Giovanardi fa dichiarazioni a titolo gratuito» dicono sia il padre Giovanni che la sorella Ilaria, sottolineando che la famiglia «è sempre in attesa di giustizia». E tra l’altro, prosegue Giovanni Cucchi, è stata proprio la famiglia ad ammettere, per prima, che Stefano aveva problemi con la droga, «Non lo abbiamo mai negato - dice - ma non per questo doveva morire così».

Accanto alla famiglia si schiera il Pd, l’Idv. l’Udc e anche parte del Pdl, con Benedetto Dalla Vedova che parla di uno «scivolone che contraddice la linea di rigore e prudenza scelta dal governo». «Se Giovanardi intende riferirsi alle precarie condizioni di salute di Cucchi in quanto tossicodipendente, cosa a tutti nota - prosegue -, dovrebbe ricordare che usare violenza nei confronti di una persona particolarmente debole rappresenterebbe, qualora venisse provato l’uso della violenza, un’aggravante per chi l’ha commessa e non una scriminante». Per Livia Turco, del Pd, si tratta invece di parole «inqualificabili» e aggiunge: «è sconcertante che chi esalta il valore della vita in ogni occasione consideri la morte di uno spacciatore un fatto non importante. È ignobile e inaccettabile arrivare a fare una gerarchia tra vite di serie A e serie B». Il capogruppo dell’Idv alla Camera, Stefano Donati, chiede le dimissioni del sottosegretario, «che si dovrebbe vergognare», mentre per il presidente dei senatori dell’Udc Giampiero D’Alia e per il senatore Stefano Pedica, che dall’inizio della vicenda è vicino ai familiari di Cucchi, «Giovanardi ha perso una buona occasione per tacere». «Non si può fare sterile propaganda politica su un ragazzo morto per circostanze ancora tutte da chiarire».

Critiche anche dal presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti - «smentisca quelle frasi disumane - dice - Prima di emettere giudizi finali è assolutamente necessario aspettare i risultati dell’inchiesta» -, dai radicali, che bollano Giovanardi come «ipocrita e proibizionista» e dal segretario dei Verdi Angelo Bonelli, secondo il quali le sue parole «non sono degne di un paese civile». Patrizio Gonnella, di Antigone, chiede invece al sottosegretario «se picchiare chi usa droghe è lecito». «Soprassedere sulle violenze, sui diritti calpestati e su quanto caduto in quei sei giorni e dare tutta la colpa alla droga - conclude - è quanto meno singolare». A tutti replica Giovanardi. «Quando si polemizza - dice - bisogna avere onestà intellettuale e non malafede pregiudiziale. Ho ampiamente illustrato la mia posizione di piena solidarietà alla famiglia Cucchi e di forte critica per la mancata assistenza nelle strutture sanitarie». È dunque «difficile dialogare con chi stravolge maliziosamente il pensiero altrui. Ma mi rendo contro - conclude - che nel nostro paese c’è sempre qualcuno pronto a sostenere la libertà di drogarsi anche deformando ad arte le posizioni di chi la pensa in maniera diversa da loro».
La Stampa 9.11.2009






Arrivano prime iscrizioni sul registro indagati

Roma, 9 nov. (Apcom) - Sarà con ogni probabilità riesumato Stefano Cucchi, il giovane deceduto dopo l'arresto. La richiesta di ulteriori accertamenti autoptici sul corpo sarà presentata a breve dagli avvocati della famiglia. Sull'istanza si dovranno esprimere i pm Maria Francesca Loy e Vincenzo Barba. Secondo quanto si è appreso gli inquirenti sarebbero orientati a non opporsi, sulla scorta di quanto espresso dai consulenti della Procura. Solidarietà alla famiglia di Stefano Cucchi, ma "la droga purtroppo c'entra" con la morte del 31enne detenuto. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle politiche antidroga Carlo Giovanardi ritorna sul caso Cucchi dopo le polemiche e le reazioni, anche tra i familiari del giovane, suscitate dalle sue parole di stamattina quando aveva dichiarato che il ragazzo era morto perchè "tossicodipendente e anoressico". In una nota ufficiale, il sottosegretario, provando a stemperare, "esprime solidarietà alla famiglia Cucchi", ma aggiunge: "la droga purtroppo c'entra", "perchè è stata la causa della sua fragilità". Ma proprio per questo e per le patologie dichiarate dallo stesso giovane a chi lo aveva in cura, il problema che secondo il sottosegretario si apre è quello dell'accertamento della volontà di Cucchi, della sua chiarezza, e se i medici dovevano o no rispettarla. Intanto, arrivano le prime iscrizioni sul registro degli indagati della Procura di Roma nell'ambito dell'inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. L'accusa contestata è quella di omicidio preterintenzionale. Secondo quanto si è appreso, a rispondere della fine di Cucchi sono persone che hanno avuto contatti con lo stesso giovane pusher dal momento dell'arresto fino all'ingresso a Regina Coeli. Al vaglio dei pm Maria Francesca Loy e Vincenzo Barba ci sono oltre agli agenti della polizia penitenziaria anche dei Carabinieri. Nav






Caso Cucchi, il giallo dei referti
sulle cartelle cliniche correzioni e aggiunte
di CARLO PICOZZA e MARINO BISSO

Caso Cucchi, il giallo dei referti sulle cartelle cliniche correzioni e aggiunte
ROMA - Non c'è solo il giallo del pestaggio, con i rimpalli di responsabilità tra carabinieri e agenti penitenziari. Dietro la morte di Stefano Cucchi, spunta il mistero delle cartelle cliniche, con correzioni e precisazioni quasi a farle sembrare manomesse. Sono state "aggiustate"? E altre apparenti incongruenze sono nei moduli d'ingresso in carcere. Ora tutta la documentazione è nelle mani dei pm Francesca Loi e Vincenzo Barba che intendono disporre una perizia calligrafica sul copioso materiale clinico-carcerario. E c'è una nuova testimonianza che contraddice moduli, cartelle cliniche e quanti, responsabili della custodia o dell'assistenza sanitaria di Cucchi, dichiarano che il giovane rifiutasse contatti con la famiglia: una volontaria che lo ha visto poco prima che morisse venne pregata da Stefano di avvertire i familiari sul suo stato di salute e di chiedere loro di venire a trovarlo.

I due moduli. Su quello della Asl c'è solo il nome, mancano le risposte ai quesiti e la firma di Cucchi; in quello dell'amministrazione penitenziaria, invece, il detenuto avrebbe sottoscritto non voler tenere informati i familiari sul suo stato di salute.

Le cartelle "corrette". Aggiunte e precisazioni compaiono nella documentazione sanitaria. In un passaggio del diario clinico, i medici di Regina Coeli aggiungono con zelo, dopo aver scritto che Cucchi sarebbe "accidentalmente caduto per le scale", due parole: "in libertà". Come per sottolineare, che quelle "ecchimosi diffuse" se le sarebbe procurate fuori dal carcere.

Il diario clinico al Pertini. Le precisazioni le fanno anche i sanitari del Pertini. Il 19 ottobre, un medico annota in uno spazio angusto della pagina: "Paziente non accessibile al colloquio. Rifiuta la visita medica. Si sollecita consulenza ortopedica". E il 21, poche ore prima che Cucchi morisse, il medico di turno dopo aver rimarcato un "atteggiamento oppositivo e diffidente" del paziente che rifiuta cibo e idratazione per flebo, annota a margine della pagina: "Predispongo, in accordo con il direttore (dottor Fierro), relazione clinica da inviare domattina al magistrato". Scrive lì perché quello è lo spazio per gli "esami richiesti"? La sua firma sotto l'intero rapporto clinico (compreso l'annuncio di una relazione per il magistrato) lo lascerebbe supporre. Ma da lì a poche ore Stefano Cucchi morirà e il rapporto non verrà inviato.

Il decesso di Stefano. I medici forse non hanno colto la gravità delle condizioni di Cucchi: non chiedono al magistrato di autorizzare il trattamento sanitario obbligatorio per salvarlo. La fine di Stefano si consuma all'alba del 22 ottobre. "Vengo chiamata", scrive la sanitaria, perché "il paziente non risponde agli stimoli, trovo il personale infermieristico che ha già iniziato la rianimazione cardiopolmonare. Segni vitali assenti. Proseguo la rianimazione fino alle 6.40. Si esegue l'elettrocardiogramma. Si sospendono le manovre rianimatorie. Decesso, ore 6.45".

La volontaria che lo incontrò prima che morisse. Alle 19 del 21 ottobre, nove ore prima di spegnersi, Stefano Cucchi, ricoverato nel reparto di detenzione del Pertini, si rivolge a una volontaria, parla con lei, le dà il numero di telefono di sua sorella chiedendo di farle sapere che avrebbe voluto che suo cognato lo andasse a trovare. Due ore dopo la donna chiama Ilaria Cucchi: "Ho visto suo fratello", le dice, "ha il viso in condizioni pietose (il giovane era a letto, immobilizzato dalle fratture alle vertebre) e chiede se suo marito può andarlo a trovare". Forse Cucchi vuole confidarsi con il cognato, dirgli del pestaggio dopo che gli è stato negato di incontrare il suo avvocato e l'operatrice del Ceis diventata per lui un riferimento. "Ha tentato in tutti i modi", dice la sorella, "di avere contatti con l'esterno, con qualcuno fidato al quale consegnare la verità che altri, forse minacciandolo, non volevano fosse svelata".
La Repubblica  8.11.2009



Stefano Cucchi, quei 35 minuti di “mistero”

ROMA (8 novembre) - Trentacinque minuti di buio: poco più di mezz’ora da chiarire nella vicenda di Stefano Cucchi. Ecco la ricostruzione, così come l’ha illustrata al Senato il ministro Alfano. Una ricostruzione dove ci sarebbe un buco nero che va dalle 13.30 alle 14.05. Da quando, cioè, i carabinieri consegnano il giovane alla polizia penitenziaria.

Il ministro ripercorre luoghi e orari del 16 ottobre: Cucchi alle 12.50 è accompagnato in aula dai carabinieri, prima dell’udienza resta qualche minuto a parlare con il padre. I presenti non sembrano notare nulla di allarmante nelle condizioni di salute del giovane, né lui dichiara all’avvocato di aver subìto percosse. Dopo l’udienza, Cucchi è riportato nelle celle di piazzale Clodio. Qui i carabinieri lo consegnano alla polizia penitenziaria. Sono le 13.30 e, anche in questo caso, non sembra essere segnalata nessuna anomalia.

Ma alle 14.05 la penitenziaria chiama il medico dell’ambulatorio del Palazzo di giustizia che riscontra «lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore».

Cos’è accaduto in questi 35 minuti, tanto che gli agenti chiamano il medico? Cucchi ha diviso la cella con qualcuno? È successo qualcosa? Al medico che lo visita, Cucchi riferisce dolori all’osso sacro. Il dottore referta le ecchimosi e indica per la prima volta che il paziente ha male alla schiena. «Cucchi - dice ancora il ministro - rifiuta il controllo sanitario». Arriva a Regina Coeli e viene fotografato. Il medico riscontra «tumefazione del volto ed ecchimosi sacrale coccigea». Cucchi è portato al Fatebenefratelli, la radiografia evidenzia due vertebre fratturate. Cucchi spiega di essersi provocato il trauma la sera prima: «Alle 23». Prima dell’arresto, cioè. Due giorni dopo, al Pertini, dirà invece di esserselo procurato il 30 settembre.

Un’ora dopo l’arresto, Cucchi era andato con i carabinieri a casa dei suoi genitori, dove viene effettuata la perquisizione. Ma i sintomi di quel trauma evidentemente non sono visibili(lo afferma anche la madre), così come non lo saranno l’indomani all’udienza. Il primo riscontro è solo alle 14.05 quando Cucchi viene visitato dal medico chiamato dalla polizia penitenziaria.

P.Vu.
Il Messaggero 8.11.2009





Nuova ipotesi: concorso di colpe tra chi doveva curare Stefano e chi ne garantiva l'incolumità
ROMA (8 novembre) - Una cartella clinica nella quale è scritto che Stefano Cucchi rifiutava ogni giorno il cibo perché voleva vedere il suo avvocato, o almeno qualcuno di cui si fidasse. Con i segni in faccia, le vertebre lesionate, i dolori all’addome non voleva mangiare il trentunenne romano, e nessuno nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini gli dava ascolto. Cosa realmente lo abbia ucciso non è stato ancora accertato. La procura procede per omicidio preterintenzionale per l’ipotesi che un pestaggio possa averne provocato la morte. E per omicidio colposo, nel caso in cui il giovane sia stato curato male nel reparto del nosocomio sulla tangenziale.

Sembra, però, di poter intravedere una sorta di concorso di colpe nelle responsabilità tra chi avrebbe dovuto curarlo e chi garantirgli l’incolumità. Il diario infermieristico del 21 ottobre, giorno precedente al decesso, rileva: «Visti gli esami ematochimici eseguiti, si propone nuovamente al paziente la reidratazione endovenosa, ma il paziente rifiuta perché vuole prima parlare con il suo avvocato o con l’assistente della comunità Ceis di Roma».

Rifiutava i trattamenti, anche di alimentarsi e di effettuare un’ecografia all’addome. Per questa ragione i medici avevano deciso di scrivere al magistrato, per avvertirlo che stavano gestendo un caso critico, ma poi non è stato fatto. Così come non sono stati chiamati i familiari, né il difensore d’ufficio.

Alla fine, comunque, le ore in cui si sa meno di quanto stava accadendo a Cucchi sono quelle trascorse nei sotterranei di piazzale Clodio, nel palazzo accanto agli uffici i pubblici ministeri che indagano sulla sua morte. Perché a mezzogiorno del 16 ottobre, dopo aver passato una notte nella camera di sicurezza della caserma dell’Arma a Tor Sapienza, il giovane ha cominciato a lamentare un disturbo. Erano le cinque di mattina, e subito dopo rifiutò la visita perché diceva di sentirsi meglio. E così sembrava, se anche al giudice e al pm che lo hanno processato per quei due grammi di hashish che aveva venduto a venti euro, è apparso in buona salute. Di sicuro c’è che in quell’occasione vide il padre, al quale non disse nulla su eventuali maltrattamenti. Dopo il processo e la conferma della misura cautelare, verso le 13,30 venne riportato nel bunker di piazzale Clodio, in attesa di essere condotto a Regina Coeli.

«Arrivò malconcio - ricorda il direttore del carcere - al punto che fu necessario chiederne il ricovero». Morirà qualche giorno dopo. Una perizia sta cercando di accertare se si è trattato di mancata assistenza da parte dei medici oppure delle lesioni.

C.Man.
Il Messaggero






Il corteo per Cucchi tra le tensioni
Bottiglie e urla contro la polizia
Cassonetti bruciati e petardi contro la polizia. La sorella: «Non può essere la violenza a farci giustizia».

ROMA - Momenti di tensione al corteo di sabato a Tor Bella Monaca per ricordare Stefano Cucchi, il ragazzo morto il 22 ottobre all'ospedale Sandro Pertini a sei giorni dall'arresto per detenzione di stupefacenti. La manifestazione organizzata da alcuni centri sociali della Capitale per chiedere «Verità e giustizia per Stefano Cucchi» si è mossa al grido di «assassini» rivolto verso la Polizia. «Giustizia per Stefanino» è stata la frase più volte ripetuta dagli amici più cari. Su uno striscione la scritta: «Non si può morire così. Basta vite spezzate dalla violenza dello Stato». Alcune bottiglie di vetro sono state lanciate contro le camionette delle forze dell'ordine da un gruppo di manifestanti. Centinaia i partecipanti tra i quali ragazzi, immigrati e gente di quartiere. Tra i presenti l'assessore regionale Luigi Nieri e il consigliere provinciale Gianluca Peciola.

IL CORTEO - Il corteo partito dal parco degli Acquedotti Alessandrini è passato in via Ciro da Urbino, dove il giovane abitava. Proprio in questa strada i manifestanti hanno incontrato una fila di torce disposta fino al portone di casa di Stefano Cucchi. I condomini del palazzo hanno posto uno striscione con le foto del giovane morto il 22 ottobre e la scritta «Stefano, il tuo sorriso rimarrà impresso per sempre nei nostri cuori». Lo slogan che ha accompagnato tutta la manifestazione è stato preso in prestito da una canzone di Fabrizio De Andrè: «Non la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l'anima a forza botte». Il corteo si è poi diretto di nuovo verso via dell'Acquedotto Alessandrino dove si è sciolto.


LA FAMIGLIA - «Tutte queste manifestazioni d'affetto ci scaldano il cuore. Chiediamo dignità per la morte di Stefano». Queste le parole di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, che si è unita al corteo insieme ai genitori, Giovanni e Rita, scesi da casa quando i manifestanti hanno raggiunto via Ciro da Urbino. «Mio fratello non è un eroe ma una vittima - ha continuato Ilaria - ma questo non giustifica quello che gli è accaduto e perciò chiediamo giustizia. Nonostante gli sbagli e le fragilità non meritava di finire così in solitudine la sua breve vita. Quello che chiediamo è che altre persone non debbano passare quello che ha passato Stefano». In risposta agli episodi di violenza durante il corteo la famiglia ha espresso solidarietà verso la polizia: «Non può essere la violenza a farci giustizia, siamo addolorati per quanto accaduto durante la manifestazione».

L'INCHIESTA - Mentre si cerca di far luce sulle ferite riportate da Stefano Cucchi, i legali della famiglia, Fabio Anselmo e Dario Piccioni, hanno acquisito dalla procura le cartelle cliniche del giovane. «Ci sono incongruenze - hanno notato - il 16 ottobre il medico del carcere disse che aveva difficoltà di deambulazione, quello del Fatebenefratelli che invece era impossibilitato a deambulare. C'è poi il parere dell'ortopedico del Pertini per il quale, tre giorni dopo, le condizioni generali del ragazzo erano molto scadute rispetto all'età. Stefano aveva l'azotemia alta, forse problemi ai reni. Ci chiediamo: perchè non è stata disposta una consulenza psichiatrica visto che rifiutava le cure?»


07 novembre 2009(ultima modifica: 08 novembre 2009)   Corriere della Sera






Il prezioso esempio di Ilaria Cucchi


Lo Stato deve a Ilaria, la sorella di Stefano Cucchi, una spiegazio­ne. Una spiegazione perché la morte del fratello è ancora avvolta nel mistero e la famiglia e l’opinione pubblica vivono an­cora nell’atroce sospetto che qualcuno non stia dicendo la verità su una vicenda allarmante. Un ringraziamento per la di­gnità di una donna profondamente ferita nei suoi affetti, una cittadina esemplare che non ha esitato a esprimere il proprio rincrescimento per gli atti di violenza che ieri hanno mac­chiato a Roma una manifesta­zione, sacrosanta e legittima, a favore della verità. Il lancio di bottiglie, i casso­netti rovesciati, i fazzoletti che coprono i volti di chi vuole tra­sformare una dimostrazione in un’occasione di guerriglia, tutto questo Ilaria Cucchi non lo conside­ra un gesto di solidarietà, ma un «gesto sconsiderato». Riti violenti che non han­no niente da condividere con l’impegno di una famiglia, ma a questo punto di tut­ta una comunità nazionale, tenuta al­l’oscuro sulla sorte del proprio figlio arre­stato non in una feroce dittatura, ma in una democrazia che non prevede la tortu­ra, il pestaggio, la sopraffazione su chi vie­ne fermato in possesso di sostanze stupe­facenti. È stata la famiglia di Stefano Cuc­chi a rompere il muro di omertà. Sono sta­ti loro a diffondere le foto agghiaccianti di Stefano. Lo Stato ha risposto in modo contraddittorio, non fornendo una rispo­sta convincente, ma anzi ufficializzando una ricostruzione piena di lacune e di pun­ti oscuri.

La famiglia Cucchi ha tenuto du­ro. Ma appare ancor più istruttiva la lezio­ne di Ilaria Cucchi che si rivolge ai manife­stanti per dissuaderli da gesti inutili, cari­chi di una violenza dannosa anche per chi non sopporta che nelle carceri italiane un ragazzo possa mori­re senza capire ancora perché, in quali circostanze, con quali responsabilità. Quello di Ilaria Cucchi è un esempio raro: anche per que­sto lo Stato le deve delle scu­se, delle spiegazioni e dei rin­graziamenti. Marcare un confi­ne netto tra la solidarietà, la denuncia, l’in­dignazione civile e la pratica della violen­za costituisce una prova non solo della se­rietà di una famiglia che vuole sapere co­me sono andate le cose. Ma anche della solidità culturale di una battaglia che non può essere ridotta a pretesto di un attacco cieco allo Stato in quanto tale. Questa è la lezione di Ilaria Cucchi. È bene che lo Sta­to se ne accorga.

Pierluigi Battista
08 novembre 2009   Corriere della Sera
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Voltaire

 


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