Come fare un film sul carcere di Wilma Labate Nel 1996 due amici, ex detenuti politici, mi fecero leggere una storia che avevano scritto in carcere, dopo essere stati condannati a trent’anni.
L’unica reazione immaginabile, per una pena così pesante, era la disperazione, loro invece dopo il processo se ne tornarono in cella e cominciarono a scrivere. Il farmaco si rivelò efficace: la scrittura diventò un impegno quotidiano, ottimo metodo di contrasto alla stasi avvilente della detenzione e l’esercizio della creatività, con risultati felici, li rese più forti. La storia fu letta anche fuori e diventò strumento di comunicazione col mondo esterno. Fortunatamente quella pena fu sensibilmente ridotta, dopo sette anni i miei amici uscirono e tentarono invano di convincere i produttori cinematografici a realizzare un film, tratto da quella bella storia. Dopo qualche anno, stanchi di promuovere da soli l’iniziativa, mi chiesero di farmene carico. Nel mio ambiente si dice che se dietro un bel copione non c’è il regista, quello rimane nel cassetto, così, forse grazie alla mia caparbietà, il film si fece, anche per il coraggio di un produttore indipendente. “La mia generazione” è la storia del viaggio di un detenuto politico da un carcere speciale del sud a Milano, dove vive la sua compagna. A bordo del cellulare blindato, che attraversa tutta la penisola, con lui c’è l’ ufficiale dei carabinieri che ha il compito d’indurlo a pentirsi e fare i nomi dei complici. Ancora oggi se penso alla trama, così come l’ho riassunta, mi sembra un miracolo aver potuto girare un film ambientato in un cellulare. Oggi non ci riuscirei e non solo per motivi estetici e produttivi. Cominciai il lavoro cercando la solidarietà di attori forti: Silvio Orlando, l’ufficiale; Claudio Amendola, il detenuto; Francesca Neri, la compagna del detenuto. Erano entusiasti di fare il film, pieni di coraggio e spirito civile, anche questo oggi sarebbe più complicato. Ricordo una discussione con l’allora produttrice “di punta”, una ricca e potente, che mi offrì un contratto per ben tre film, a patto di cedere il progetto a un uomo, un manico, come diceva lei, ben più adatto di me a una storia di genere carcerario. Ancora, secondo lei, la scelta del cast era sbagliata: Amendola avrebbe interpretato meglio il carabiniere e Orlando il detenuto. Tenni duro, me n’andai col mio copione sotto il braccio, pensando che se avessi seguito il suo consiglio e invertito i ruoli degli attori, avrei fatto un telefilm. Venne il momento della ricerca del carcere in cui girare la prima parte. Ne visitai moltissimi, Rebibbia prima di tutti, e poi carceri in provincia, in città, al nord e al sud, un lavoro durato mesi, stressante e faticoso, affollato di incontri con direttori, pratiche burocratiche dai tempi biblici, visite al ministero di Grazia e Giustizia, colloqui con sottosegretari, una dimensione inimmaginabile. Girai a Paola, presso Cosenza, in un carcere speciale in riva al mare. Il direttore ci ospitò volentieri, forse affascinato dal carrozzone che il cinema si porta dietro. Di quei mesi, perennemente in giro a visitare istituti di pena, ricordo molte cose, emozioni fortissime di cui non parlo per pudore e rispetto di chi ci vive. Solo una cosa, l’odore, inconfondibile e uguale, al sud e al nord. Un odore penetrante che, tornando a casa, speravo di dissolvere lavando gli abiti, i capelli, il corpo. Ancora oggi, dopo oltre dieci anni, lo saprei riconoscere fra mille altri, ne ricordo distintamente l’intensità e l’angoscia che procura. Il film finisce con il furgone che inverte la rotta e riporta indietro il protagonista che sceglie di non parlare. L’uscita in sala ebbe una certa risonanza, ho vinto premi, ho partecipato a festival, sui giornali se n’è parlato per oltre un anno, tante polemiche, qualche riconoscimento, molte dichiarazioni di condanna. Dopo tanti anni non è ancora stato pubblicato il dvd de “La mia generazione”. Dopo, come si dice tra noi cinematografari, la mia carriera non ha avuto sconti. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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