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1) A COSA SERVE IL CARCERE
[Il carcere come lo conosciamo risponde a esigenze razionali? Corrisponde alle necessità di una democrazia?]

Della Ratta – Nel Diritto Penale gli scopi della pena – badate: pena non solo carcere, perché, come nella storia le punizioni hanno avuto forme diverse, così altre se ne potrebbero trovare – sono: la retribuzione (al reato deve corrispondere una pena, secondo un criterio di proporzionalità); la prevenzione generale (per dissuadere la gente dal delinquere); la prevenzione speciale (per ridurre il rischio che il condannato commetta reati dopo l’espiazione della pena); la neutralizzazione (per impedire la commissione di reati durante l’espiazione); l’emenda (per indurre la revisione del proprio modo di ragionare). Oggi si tende a riconoscere maggior credito alla funzione di prevenzione generale, piuttosto che di retribuzione, perché quest’ultima si basa su un’illusione di giustizia della pena, mentre la giurisprudenza moderna propende per una concezione della pena “necessaria” più che “giusta”.
La Costituzione (la Legge fondamentale dello Stato) impone al legislatore di uniformare le leggi penali alla rieducazione, principio che, fra le finalità che abbiamo visto, è riconducibile alla prevenzione speciale. Ad esempio, la Corte Costituzionale (l’organo che controlla la corrispondenza delle leggi ai principi costituzionali) ha ritenuto legittimo l’ergastolo, che secondo alcuni è in contrasto con quel principio, a condizione che sia prevista la possibilità di estinguere la pena in caso di ravvedimento del condannato, e ciò è effettivamente previsto dall’art. 176 c.p. (liberazione condizionale), che si può applicare anche alla pena dell’ergastolo.
Ora, soffermiamoci sulla pena che, in base alla funzione retributiva, prevede la detenzione per periodi di tempo diversi in luoghi reclusi dalla struttura sostanzialmente uguale. Perché, ad esempio, non sono stati concepiti spazi diversificati a seconda del condannato e del tempo da trascorrervi e, invece, si è scelta come unità di misura il tempo? In realtà, questa scelta si è determinata storicamente per motivi più tecnologici che razionali: il penitenziario, nel corso della storia, è risultato essere il luogo in cui si sono condensati modelli adottati in altri contesti istituzionali, come la caserma, la scuola, l’ospedale ecc.; rispondeva meglio cioè alle esigenze pratiche di custodia e massimo controllo. Lo “spazio” è stato considerato una dimensione fissa: celle uguali per tutti, con tempi da trascorrervi diseguali a seconda del reato. Quindi storicamente l’unità di misura privilegiata per applicare il criterio retributivo della pena è il tempo. Ma il tempo è anche connesso con la nostra interiorità, regola il rapporto dentro/fuori e ha la dimensione dell’irreversibilità, quindi la privazione del tempo va a toccare l’interiorità degli individui.

Tommaso – Visto questo discorso sul carcere, allora si potrebbero seguire dei criteri più logici, per esempio non sarebbe sbagliato applicare un principio di selezione: suddividere gli spazi in base all’età o ad altri criteri che rispettino le caratteristiche delle persone.

Antonio – La carcerazione significa pagare per un reato commesso e se vengo incarcerato vuol dire che sto pagando il mio debito con la società, però questo non dovrebbe significare che perdo il diritto a venire rispettato come essere umano. Invece quello che accade è che dentro il carcere diventi solo un caso giudiziario, un numero di matricola o una patologia, non sei più considerato una persona. Allora, mi chiedo, sono solo io ad avere dei doveri?

Francesco - Io so che in Europa ci sono modi diversi di applicare le pene, c’è una maggiore oggettività. Da noi invece è tutto più incerto, le cose vanno diversamente a seconda del giudice che uno ha, del carcere in cui viene rinchiuso, dell’educatore che ti segue e così via.

Della Ratta -  Il concetto di “debito con la società” rientra nel principio della retribuzione della pena, per cui il carcere viene visto come il prezzo per il reato commesso; la frase tipica che viene spesso pronunciata dal detenuto: “io ho pagato il mio debito” rivela un’adesione a quel principio e, in generale,  alla considerazione del carcere come qualcosa che riguarda la società non lui (aspetto che la concezione della retribuzione ha in comune con la prevenzione generale). È più utile invece, anche per rispettare il principio della finalità rieducativa della pena, spostare la riflessione su come funziona la pena – visto che la si deve applicare –, e su quali concreti effetti di prevenzione speciale essa abbia. Ma questo implica il superamento della visione solo retributiva della pena, anche perché la detenzione ha, per così dire, effetti collaterali molto seri e potenzialmente criminogeni: l’allontanamento dalle famiglie, la perdita di relazioni sociali ecc.
L’Italia, che ha un ordinamento molto avanzato, si dice che sia il Paese di Beccaria (che parlava di funzione di deterrenza delle pene, miti e certe, presupponendo la responsabilità individuale delle scelte) ma anche di Lombroso (secondo cui il delinquente è determinato socialmente e addirittura fisiologicamente). E oggi, anche qui in questa aula, continuano a confrontarsi due visioni della pena: quella dell’oggettività e quella della considerazione della persona.
Abbiamo parlato delle funzioni della pena per la società, ma c’è un’altra domanda importante: a cosa serve il carcere per il detenuto? Il carcere sottrae tempo, ma lo dà anche. Se siamo la storia di noi stessi, un senso dobbiamo trovarlo. Non esiste una contrapposizione netta: liberi o prigionieri; si può essere più o meno liberi fuori, così come più o meno consapevoli dentro. A che deve servire questo tempo?
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61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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