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De André e il male del mondo
di Fabio Fazio
Fabrizio De André ha conosciuto la prigione per essere stato prigioniero lui stesso e per avere sempre e instancabilmente frugato nella prigione in cui sono rinchiusi i nostri pensieri Quella prigione fatta di convenzioni e di debolezze che ci impediscono di essere liberi, quella prigione dalla quale in nome dell’Anarchia De André è sempre fuggito. Ma lui, la prigione, quella vera, l’ha cantata tante volte e molte sue canzoni hanno la cella come ambientazione e molte altre, molte di più, riguardano i prigionieri, i colpevoli, quelli cioè che abitano le celle o che potrebbero abitarle. Ma per De André la cella non è un luogo chiuso, non è l’altrove, non è il confino ma al contrario è un confine. Le canzoni che riguardano assassini, ladri, vittime e prigionieri sono cantate esattamente sulla soglia della cella con lo sguardo che la oltrepassa continuamente per indagare colui che sta dentro e quelli che stanno fuori. Chi sta dentro è lo specchio di colui che sta fuori. E nel superamento di questo limite invalicabile c’è tutta la grandezza di De André: la sua capacità anzi, la sua volontà, di guardare oltre, di non fermarsi alle apparenze per cercare di afferrare quel destino che ha portato un essere umano dietro alle sbarre reali o metaforiche che contengono il suo errore e il suo male. Per De André la cella è trasparente.
Ma chi il male lo procura e chi lo subisce non è affatto uguale e non è davvero il caso di cadere nella tentazione di credere che l’omertà del Pescatore sia una sorta di complicità con l’assassino. C’è semmai il convincimento che al male non si deve aggiungere male e che la comprensione valga più del perdono. Chi compie il male diventa vittima di se stesso: questo ci dice De André. Non solo e non tanto perché verrà privato della libertà, ma perchè quella libertà se l’è giocata lui stesso nel momento in cui ha compiuto il male. Si è giocato la propria umanità e dunque nessuna punizione potrà essere utile a chi, come l’assassino del Pescatore, ha ben chiara la propria condizione che addirittura lo porta a chiedere perdono e a ottenerlo nella forma più alta che l’uomo ha saputo inventare. Quella dello spezzare del pane e dell’offrire il vino. L’omertà del Pescatore restituisce all’assassino la propria appartenenza al genere umano: il Destino in fondo ha assegnato i ruoli all’uno e all’altro senza preavviso e il sorriso alla cui ombra il Pescatore si addormenta ignorando la domanda che gli rivolgono i gendarmi è forse anche il sorriso di chi è consapevole di averla scampata bella. Il Destino infatti per questa volta lo ha risparmiato: al Pescatore è andata meglio, ha avuto la parte migliore della storia. Di nuovo il confine dunque, quello del Caso e della sorte su cui è tracciato il recinto della cella.
Nelle celle di De André abita Geordie che verrà impiccato con una corda d’oro per avere rubato sei cervi nel parco del re; Michè che aveva ammazzato per amore e che per amore preferisce uccidersi piuttosto che rivelare all’amata la ragione del suo crimine; il brigadiere che ha in custodia Don Raffaè più ancora dello stesso Don Raffaè e l’impiegato con tutta la sua storia.
C’è poi una canzone del 1970, Il Testamento di Tito, in cui viene analizzata la Legge suprema, quella dei comandamenti. Bisogna leggersela in solitudine, in silenzio, per poter percorrere fisicamente il confine di cui abbiamo parlato e che è riassunto nella strofa in cui si canta il settimo comandamento. Laddove nel guardare la fine di quel nazareno De André anche qui come sempre e ancora una volta, sposta lo sguardo su chi sta accanto a quell’uomo inchiodato a una croce per scoprire che un ladro muore allo stesso modo dell’innocente: un verso che ci porta come d’incanto al finale della canzone per offrire a noi tutti una soluzione, l’unica soluzione possibile. Quella “della pietà che non cede al rancore” e con cui De André definisce l’amore.

 

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