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Prigioni mortali
Rosy Bindi
Ho letto d’un fiato, e con grande emozione, questo importante libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri appena pubblicato dal Saggiatore.
A cominciare dal titolo, tratto da quella struggente ballata di De André che nella nostra adolescenza ci introdusse di colpo – e quasi a tradimento, attraverso la musica – alla condizione annichilente del carcere, ogni pagina del libro, ogni ritratto umano, ogni racconto di morte dovuta a incuria, indifferenza o prepotenza all’interno di istituzioni chiuse, scuotono la nostra coscienza di cittadini e interrogano con urgenza la politica.
Colpisce, prima di tutto, la testimonianza meticolosa di episodi terribili che sono passati quasi inosservati attraverso la macchina dell’informazione, prova evidente – come notano gli autori – di una rimozione di massa della situazione carceraria e di altri ambienti di esclusione sociale. Un catalogo che racconta di donne e uomini abbandonati, vilipesi, calpestati fino alla morte proprio in quegli ambienti e da quelle persone che hanno il compito di prendersene carico, nelle carceri, negli ospedali psichiatrici o nelle caserme.
Ma è un catalogo che ha anche il merito di non alzare un grido generico contro le istituzioni o le forze dell’ordine, ma di ricercare semplicemente la verità, indagando nei rapporti di dominio e di potere che, in mancanza di regole certe e di concreta vigilanza, possono sconfinare nelle irregolarità e nell’abuso del più forte nei confronti dell’indifeso. Sono descrizioni letterariamente forti negli accenti e impressionanti nelle immagini.
Dico immagini anche se nel libro non c’è una sola fotografia, ma è come se ce ne fossero cento. Perché la scelta di descrivere fino al dettaglio più sgradevole le fotografie che danno testimonianza delle violenze o dell’abbandono ha un impatto fortissimo, e si pone come la più eclatante delle prove.
È andata così per Stefano Cucchi, grazie alla forza e alle scelte coraggiose della sua famiglia. È adesso così, grazie alle scelte e al lavoro di Manconi e Calderone, anche per Nanni De Angelis terrorista di destra, Katiuscia Favero ladra di un orologio, Eyasu Habteab contrabbandiere di immigrati, Giuseppe Uva, Marco Ciuffreda, Francesco Mastrogiovanni e molti altri. Queste persone fragili e spesso colpevoli, condannate o in attesa di giudizio per fatti gravi o per furtarelli, a volte mentalmente confuse, non sono facili da dimenticare.
Il corpo martoriato e esposto, a partire da quello del Cristo, è la più potente delle denunce. E il corpo di questi morti, trasmesso così crudamente agli occhi della mente da queste pagine, ci costringe a vedere le cose nella loro dura realtà.
Una realtà che ci chiama soprattutto a misurare il livello della nostra civiltà. La presa in carico della devianza e della fragilità, la funzione della pena e la rieducazione, l’intangibilità fisica e psichica delle persone sono infatti uno degli indici del funzionamento di una comunità, prima della politica, al di qua della politica che può cambiarne o aggiornare le regole.
Nella storia nazionale è soltanto con la repubblica, che la rieducazione diventa principio costituzionale. L’idea rieducativa deve guidare il giudice e la pena detentiva va organizzata in modo tale da non rappresentare un castigo maggiore di quello che già si realizza nella privazione della libertà. Il recupero e il reinserimento sociale del condannato è un compito inscindibile della sanzione penale.
Ma a più di sessant’anni di distanza possiamo dire di aver rispettato quel principio? Da strumento di controllo e di recupero il carcere è diventato sempre di più il luogo della pura reclusione. E nella segregazione senza scampo diventano più facili spazi di impunità e di sopruso, denunciati anche dal numero impressionante di suicidi degli ultimi anni. In istituti sempre più sovraffollati, dove sono spesso azzerati i livelli minimi di dignità umana, questi continui suicidi – quasi tutti di giovani reclusi, in gran parte extracomunitari – sono insostenibili per una democrazia.
Nella sua intensa introduzione Gustavo Zagrebelsky cita Pietro Calamandrei e l’impegno della classe dirigente del dopoguerra, che aveva conosciuto di persona il carcere fascista, a umanizzare il sistema penitenziario. Quell’impegno è in gran parte fallito e sono restate inascoltate altre denunce e altre voci.
Permettetemi di ricordare quella di Giovanni Paolo II, terzo papa ad entrare in un carcere dopo dopo Giovanni XXIII e Paolo VI, che invocando un'amnistia o almeno un indulto per la popolazione carceraria così si esprimeva a proposito della detenzione: «La pena non può ridursi ad una semplice dinamica retributiva, tanto meno può configurarsi come una ritorsione sociale o una sorta di vendetta istituzionale. La pena, la prigione hanno senso se, mentre affermano le esigenze della giustizia e scoraggiano il crimine, servono al rinnovamento dell’uomo, offrendo a chi ha sbagliato una possibilità di riflettere e cambiare vita, per reinserirsi a pieno titolo nella società ».
Era il 2000, l’anno del Giubileo, e l’indulto fu varato dal governo di centrosinistra sei anni dopo, tra infinite polemiche per lo più strumentali. Questo libro ci ricorda che ancora oggi nulla è cambiato. Anzi, nell’assenza di una politica riformatrice e in una situazione di perenne emergenza, possono aumentare spazi dove il diritto è bandito e il sopruso vince sul rispetto della persona, minando le fondamenta stesse del patto di cittadinanza.
Chi leggerà questo libro e – come me – conosce bene Luigi Manconi, uno dei suoi autori, non potrà che convenire che ci voleva la passione politica e l’abnegazione umana di Luigi, la sua costante attenzione ai temi dell’esclusione e dell’emarginazione, per realizzare un lavoro di questo impatto emotivo e di questa rilevanza politica.
Europa quotidiano 19 maggio 2011
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Voltaire

 


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