Vorrei dirti che non eri solo |
Vorrei dirti che non eri solo
Ilaria Cucchi Giovanni Bianconi Rizzoli, 2010
Prefazione di Giovanni Bianconi
Roma, agosto 2010La morte di Stefano Cucchi è un delitto di Stato. Comunque sia andata. All'inizio i pubblici ministeri che indagavano su quel decesso hanno ipotizzato l'omicidio, preterintenzionale e colposo. Poi si sono corretti contestando una serie di altri reati, dalle lesioni alle omissioni, dal favoreggiamento fino all'ab¬bandono di persona incapace di provvedere a se stessa. Cambia poco. Anche se tecnicamente il termine "omicidio" è scomparso dai capi d'imputazione, quella vicenda non è stata né un suicidio né una di¬sgrazia, bensì la conseguenza di comportamenti altrui che hanno spezzato la vita di un giovane uomo, tossicodipendente e detenuto. Dunque resta un delitto. E "di Stato", indipendentemente dalle responsabilità dei singoli, se mai verranno accertate. Perché Stefano Cucchi è morto mentre era custodito dalle istituzioni e da suoi rappresentanti. Dall'arresto fino all'ultimo respiro è passato attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. Strutture pubbliche nelle quali non era padrone di se stesso. Dal momento in cui è uscito di casa con le manette ai polsi, responsabile del suo destino è diventato lo Stato; anche di una fine arrivata in modo assurdo e ap¬parentemente inspiegabile. I delitti di Stato sono difficili da risolvere. Di solito restano avvolti nel mistero, tra dubbi non chiariti e domande senza risposte. Tutto si confonde in una nebulosa dove ogni protagonista chiamato in causa può invocare giustificazioni malferme o ambigue ragioni, che lasciano nell'incertezza ciò che davvero è accaduto. È arduo riuscire a diradare le nebbie e distinguere i fatti quando lo Stato è chiamato a inqui¬sire e giudicare se stesso, con il rischio di cedere a indulgenze o inciampare in ostacoli frapposti da qualche sua struttura. Nel caso specifico, già non è semplice stabilire un nesso consequenziale tra una condotta e un evento, tra i comportamenti delle diverse persone che hanno avuto a che fare con quel singolo detenuto e la sua morte. Quando poi condotte e soggetti sono più d'uno, e possono avvalersi dell'alibi della burocrazia che quasi sempre viene invocato all'interno delle ri¬spettive istituzioni d'appartenenza, tutto diventa più complicato. Ne deriva che è difficile arrivare alla verità sulla morte di Stefano Cucchi, nonostante sia giunta in un breve arco di tempo e non siano molte le perso¬ne che hanno avuto a che fare con quel corpo resti-tuito nelle terribili condizioni che tutti hanno potuto vedere, per decisione e determinazione della sua famiglia. Non c'è quasi nulla che non appaia illogico e tra¬gicamente grottesco, in quello che è successo prima, durante e dopo la fine dì Stefano. Ecco perché è im¬portante conoscere le motivazioni e le singole pieghe della battaglia avviata dalla famiglia Cucchi, di cui Ilaria è diventata il simbolo; ed ecco perché ho accet¬tato la richiesta di aiutarla nella ricostruzione e nel racconto dì questa storia. Non si può rimanere indifferenti di fronte a un delitto di Stato che avrebbe rischiato dì restare non solo impunito, ma addirittura sconosciuto se la mamma, il papà e la sorella della vittima non avesse¬ro deciso di combattere un minuto dopo aver appre¬so che Stefano era morto; in un ospedale-prigione dove si trovava da giorni, senza che loro riuscissero a sapere perché. Non sarebbe stato il primo caso a rimanere chiuso nel cassetto dei segreti di Stato — non quelli formalmente apposti, con tanto di timbro a suggello di qualche grande intrigo, bensì quelli mai dichiarati, che diventano tali nel disinteresse genera¬le, su piccole e disgraziate vicende di anonimi citta¬dini- né probabilmente l'ultimo. Ma proprio perché stavolta s'è accesa una luce, e s'è avviato un percorso anche giudiziario, questa storia può forse aiutare a spezzare una lunga catena, conosciuta solo in parte. C'è un altro aspetto che rende particolarmente significativa la battaglia di Ilaria Cucchi e quel che re-sta della sua famiglia. Lei e Ì suoi genitori sono persone che - come tanti, come la grande maggioranza degli italiani, comunque la pensino - hanno sempre avuto fiducia nelle istituzioni, nei suoi rappresentanti e gestori. Hanno sempre pensato che, pur con tut¬te le sue disfunzioni e inefficienze, la macchina statale fosse dalla loro parte. Sono sempre stati cittadini esemplari, sotto questo punto di vista. All'improvviso, però, la Cosa Pubblica che ha inghiottito Stefano è diventata una controparte, ostile e chiusa a protezione di se stessa. E loro, rimanendo cittadini esemplari anche nel dolore e nell'ingiustizia subita, hanno scelto di pretendere che quella stessa Cosa Pubblica facesse giustizia di ciò che è accaduto. Senza strepiti, ma senza sconti. Che ci riescano, è interesse di tutti. In ogni caso resteranno un monito per lo Stato di cui sono parte, che ha preso vivo un loro congiunto e gliel'ha ricon¬segnato cadavere, e per tutti coloro che a quello Sta¬to appartengono, rappresentanti o semplici rappre¬sentati, amministratori o amministrati. Anche per questo vale la pena conoscere la storia raccontata da Ilaria Cucchi. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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