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Intervista a Pisapia
Così vogliono far non funzionare la giustizia di Andrea Boraschi
 
Giuliano Pisapia, avvocato penalista, è stato parlamentare indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista (1996 – 2006), Presidente della Commissione Giustizia della Camera nella XIII legislatura. È stato, poi, Presidente della Commissione del Ministero della Giustizia per la riforma del codice penale.
 
Si discute, di legislatura in legislatura, di riscrivere il codice penale, di rivoluzionare la politica penale che in Italia appare sempre più inefficace e inefficiente. Lei presiedeva una commissione ministeriale, nell’ultimo governo Prodi, impegnata proprio su questo fronte. Cosa eravate riusciti a produrre?
Avevamo concluso una revisione profonda della parte generale del codice, e predisposto una legge delega per il parlamento, preparando anche un articolato. Il nostro lavoro era all’ordine del giorno per l’esame in commissione Giustizia, al senato. Voglio dire che avevamo anche rispettato una tempistica positiva: altre commissioni, in passato, avevano affrontato la revisione del codice penale ma impiegando 5 anni di lavoro, sottoponendo il testo al parlamento solo a fine mandato quando non vi era più tempo per legiferare. Nel nostro caso anticipare i tempi non è bastato. La revisione nella quale eravamo impegnati poggiava comunque su alcuni elementi qualificanti, su cui c’era ampia condivisione: abolizione di qualsiasi tipo di responsabilità oggettiva; eliminazione delle misure di sicurezza; eliminazione della distinzione tra delitti e contravvenzioni, che è una distinzione falsa. Oggi le contravvenzioni sono la forma di sanzione per tutti quei reati, che magari suscitano riprovazione nell’opinione pubblica, altrimenti non sanzionabili. Ma non esiste una vera differenza tra ammenda e multa, o tra arresto e reclusione. La contravvenzione comporta una pena meno pesante, ma è anche uno strumento che ingolfa oltremodo i tribunali e che di norma finisce in prescrizione al secondo grado di giudizio. Più genericamente, volevamo uscire dalla logica della pena draconiana come deterrente (abbiamo le pene più alte d’Europa); una pena che quasi sempre assume carattere pecuniario o carcerario. E che non funziona: per dare un’idea, solo il 3% delle pene pecuniarie viene effettivamente pagato e, negli ultimi 10 anni, sono stati erogati circa 850.000 anni di carcere mai scontati.


Cosa ne è di tutto questo lavoro?
Il progetto di revisione del codice cui lavorammo è stato recepito nel programma Pd e presentato in parlamento, seppur con alcune modifiche. La principale riguarda l’abolizione dell’ergastolo, che avevamo previsto e che oggi non è più contemplata. Se solo si applicasse la formula cui pensammo, cancellando le contravvenzioni, si otterrebbe un abbattimento dei reati puniti con pena detentiva di circa il 40%. Vuol dire ridurre i tassi di carcerizzazione, decongestionare il sistema penitenziario, decongestionare i tribunali. Più in generale, avevamo ben chiaro come la necessità fosse quella di depenalizzare un’ampia fattispecie di reati di scarso o nullo impatto sociale. La tendenza e l’orientamento dell’opinione pubblica, tuttavia, erano in direzione contraria; dunque ricercammo l’accordo su strumenti che funzionassero in chiave deflattiva rispetto al meccanismo penale. Era nostra intenzione dare maggior rilievo a elementi quali l’irrilevanza del fatto, la condotta occasionale o la tenuità del fatto; o, ancora, la non procedibilità in caso di attività riparatorie; e aumentare i reati perseguibili per querela, con strumenti tesi ad evitare che la remissione diventasse uno strumento ricattatorio. Insomma, una serie di accorgimenti per disingolfare i tribunali e abbattere l’impunità dei reati, senza per ciò fare ricorso solo al carcere. Preso atto del fallimento totale in cui versa il nostro sistema giustizia, volevamo dare corso a un modus operandi opposto, efficiente, garantista senza per ciò essere indulgente.


Pensa che questa linea abbia qualche chance di essere ripresa da altri testimoni politici?
A sentir quello che i parlamentari sostengono nei dibattiti pubblici si; a vedere come votano in aula no. Quando esprimono il loro voto sono facilmente vittime di una disinformazione diffusa – basterebbe conoscere i tassi di recidiva per chi è stato detenuto in carcere per comprendere come quel meccanismo sanzionatorio non fa che riprodurre crimine – e risentono dell’emotività dell’opinione pubblica e di certe campagne medianiche. Finiscono per credere che inasprire le pene voglia dire esercitare una deterrenza efficace. Tutti gli ultimi provvedimenti, non solo di questo governo, consistono nell’aumento di pene e nell’introduzione di nuovi reati: è una tendenza che porta inevitabilmente all’inefficienza della giustizia e all’impunità diffusa. Basti pensare al reato di permanenza clandestina varato dall’attuale governo: avevano previsto inzialmente 4 anni di reclusione, poi s’è capito che tutto ciò avrebbe paralizzato i tribunali e le sovraffollato carceri, esponendo milioni di italiani all’accusa di favoreggiamento; allora la sanzione per quel reato è divenuta una contravvenzione penale, da 1.000 a 10.000 euro. Appare assurdo voler risolvere un problema sociale con uno strumento penale; ancor più appare deprecabile la discriminazione che colpirebbe persone che, con la loro permanenza irregolare nel nostro paese, non ledono alcun bene giuridico, non causano danno ne pericolo. È uno di quei casi in cui la responsabilità oggettiva, che volevamo cancellare, diviene reato. Il tutto mi fa pensare che si voglia non far funzionare la giustizia, o più semplicemente che si dia una risposta sbagliata a un problema reale.


Davvero crede che qualcuno intenda sabotare il funzionamento della giustizia in questo paese?
Non c’ho mai creduto: da quando ho letto alcune norme del pacchetto giustizia - ad esempio riguardo al rapporto di maggiore autonomia della polizia rispetto ai pubblici ministeri, o per quanto previsto in caso di sospetto sull’imparzialità giudice, o ancora in riferimento alla crescente e ipertrofica introduzione di nuovi reati, così che non si possano celebrare processi – penso che possa esserci una volontà indirizzata a impedire il funzionamento regolare della macchina processuale.


E a sinistra come si reagisce a questa tendenza?
Non c’è nessun contrasto reale: c’è chi, concordando con alcune correnti della magistratura, ritiene che la priorità per una giustizia migliore sia fare di tutto per accelerare i  tempi processuali, anche a scapito delle garanzie per l’imputato. E c’è chi crede – una minoranza, invero - che senza riforma del codice e senza riforme costituzionali – penso alla separazione delle carriere – efficienza e giustizia finiscano col divergere. Mi sorprendo a dirlo e mi amareggia: l’unica forza politica che oggi sembra tenere in considerazione tanto le esigenze del sistema processuale e penale quanto quelle della persona appare l’Udc. La sinistra è vittima dell’uso bieco che ha fatto Berlusconi della questione giustizia; oggi si è ridotta a seguire acriticamente le indicazioni della magistratura, senza proporre alternative, esprimendo solo contrarietà.

 

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il 7/2/2014


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Voltaire

 


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