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Una perdita di tempo
di Stefano Anastasia

Il carcere, si sa, è una perdita di tempo. Lo è strutturalmente, per finalità istituzionale. Lo scorrere del tempo segna l'andamento della pena e la prima regola da imparare per sopravviverle è quella della pazienza. Avete presente il detto “chi ha tempo, non aspetti tempo”? Beh, in galera è tutto il contrario: chi ha tempo, aspetti, che tanto non c'è nulla da fare. Quando poi il lento scorrere del tempo della pena si somma alla farraginosità di una struttura burocratica, i secondi possono dilatarsi in minuti, i minuti in ore, le ore in giorni, mesi, anni. Non succede niente, tanto il fine pena è lì, tra cinque, dieci, quindici anni, e perchè affrettarsi a rispondere a un quesito, a soddisfare un piccolo diritto, così piccolo di fronte a quella aspettativa della scarcerazione, che tanto è così lontana nel tempo?
Il 9 luglio scorso, su queste pagine, avevamo già scritto di Pino, un ragazzo siciliano, condannato per un grave delitto, che alcuni anni fa era riuscito a essere trasferito al Nord per seguire un corso di studi. La famiglia, per stargli vicino e sostenerlo, l'aveva accompagnato, prendendo stabilmente la propria residenza a Padova. Ma il trasferimento era solo temporaneo. Temporaneo quanto può essere un trasferimento in carcere: quindici giorni o cinque anni, fa lo stesso.
Pino aveva chiesto l'assegnazione definitiva a Padova, e l'Amministrazione ha cominciato la sua valutazione. Quattro anni (quattro!) dopo il suo arrivo in Veneto, la Direzione generale competente acquisisce un parere negativo della direzione del carcere: motivi disciplinari. Pochi giorni prima di sostenere gli esami di maturità Pino torna ad Augusta (Siracusa), “sua sede di assegnazione”. Quattro anni di “percorso trattamentale” buttati per un incidente.
Pino sa bene che, per gli usi e costumi penitenziari, lasciato un istituto per motivi disciplinari, non ci torni, se non hai santi in paradiso. Il percorso padovano ormai è chiuso per lui. Chiede allora semplicemente di poter andare in un posto non troppo lontano da Padova, dove ormai vive la sua famiglia, e magari in un Istituto dove possa proseguire gli studi. Norme e buon senso dicono di sì, che un'Amministrazione accorta e sensibile dovrebbe accogliere una simile richiesta: le relazioni familiari e l'istruzione sono cose fondamentali per uno che è entrato in carcere poco più che ragazzo, se ne potrebbe fare una vita diversa. E invece no, ma non è un “no: no!”, piuttosto un “no: boh ...”: «allo stato è in via di valutazione una istanza tesa a ottenere il trasferimento in un istituto del Nord Italia» ci scrive gentilmente il Direttore generale competente, «in attesa di ricevere la documentazione necessaria alla corretta valutazione della richiesta». Tal quale la cortese risposta che ci era arrivata nell'ottobre dello scorso anno. Intanto Pino ha passato il suo primo anno ad Augusta, a mille chilometri dalla sua famiglia. Tanto il fine pena è lontano …

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il 7/2/2014


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Voltaire

 


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