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Gamines
di Leonardo De Pace Lòpez

 

Molte volte, da solo in cella  con i miei ricordi, guardo fuori dalla finestra ascoltando musica, quasi sempre il mio sguardo si ferma sui tombini dove i gatti si fanno gli agguati, i più piccoli per giocare, altri in attesa che esca la gattina in calore, altri ancora aspettando che fuoriesca il nemico per acciuffarlo... Movimenti rapidi, imprevedibili di piccole creature che compaiono all’improvviso per poi nascondersi da qualche parte… Proprio come quei poveri bambini che vidi spuntare all’improvviso da un tombino una sera di tanti anni fa. Bambini  che,  sputati dalla sfortuna, vivono proprio come animali, in un mondo sotterraneo, prigionieri senza condanna, scontando pur sempre il loro ergastolo, in silenzio, senza lamentarsi, perché non hanno altri punti di riferimento che gli permettano dei paragoni. Una condizione di sfruttamento selvaggio, al limite dell’immaginabile. 

Era la miglior offerta che avevo ricevuto per una doppia osteotomia e rinoplastica. Detto in parole povere, una chirurgia plastica al naso. Sì! A Bogotà avevo trovato, per mezzo di mia cugina, una neo laureata in pediatria, a un prezzo irrisorio, il presidente dei chirurghi plastici di Bogotà che mi operava per meno della metà di quello che aveva pagato mio fratello a Panama. Quindi feci disporre tutto da mia cugina e in quella stessa settimana partì. Lo stesso sabato sera che giunsi nella città, il dottor Mondragòn mi invitò a cena, innanzi tutto per farmi conoscere un po’ la capitale, cosa difficile da fare in una sola sera dovuto alle sue dimensioni, anche perché molte zone erano proibite dopo una certa ora, infatti dopo le dieci di sera, appena fuori centro, tutti i semafori vengono sincronizzati automaticamente sul giallo per evitare che gli automobilisti si fermino davanti a un semaforo rosso ed essere oggetto di una rapina o persino uccisi se oppongono la minima resistenza, in secondo luogo perché voleva ultimare i dettagli dell’operazione che si sarebbe effettuata due giorni dopo. Mi invitò, assieme a mia cugina, a un ristorante tipico brasiliano, Eu Rodisio, specializzato in tutti i tipi di carne cucinati alla griglia, dall’aragosta al T-bone steak, dalle costolette di agnello al polpo. Era ubicato dentro un grande parco in una zona esclusiva della città. Tutti questi aromi, uno più invitante dell’altro, accompagnati da una suggestiva musica a ritmo di samba, il tutto avvolto da una splendida illuminazione prodotta da riflettori predisposti a livello del suolo, che spuntavano dagli arbusti e diretti verso l’alto, intrecciandosi con la bruma che carezzava i grandi alberi di eucalipto completavano lo stupendo ambiente, che non rappresentava però la realtà di quella società. Questo ristorante rimaneva aperto sino alle prime ore del mattino, soprattutto i fine settimana, quando era frequentato dai gruppi di ragazzi dell’alta società bogotana all’uscita delle discoteche. 
Verso le 02:00 del mattino cominciarono ad arrivare i primi gruppi di ragazzi e ragazze, trasformando quell’ambiente quieto e squisito in una comune discoteca, però erano ben accetti perché facevano riempire le griglie con tutto quello che c’era e si scolavano quasi tutto il liquore disponibile. Dopo il loro arrivo fu quasi impossibile continuare a parlare. Comunque decidemmo di rimanere perché ero curioso di conoscere ogni sfaccettatura del paese che mi aveva visto nascere ma che non avevo mai apprezzato. All’alba di quel giorno, conobbi da vicino una cruda realtà di quella città, che, poi mi spiegarono, faceva parte della quotidianità di tutto il paese, cosa che mi sconvolse al punto che ancora oggi, dopo 15 anni, la ricordo con lo stesso stupore di quel giorno, e so per certo che non è cambiato nulla.
Dopo la cena e per sfuggire un po’ dalla baldoria ci spostammo a un altro tavolo, più prossimo all’immensa griglia, anche perché il fuoco della stessa ci riscaldava dal freddo che faceva, al quale non ero più abituato. Bogotà è situata su un altipiano a un’altezza di 2600 metri e di notte fa abbastanza freddo e per uno nato al livello del mare, come me, manca persino l’ossigeno.
A questo stavo pensando quando, alcuni minuti dopo le 02:30 di quella domenica di febbraio, vidi muoversi il coperchio di uno dei tombini di drenaggio coperto di foglie, diagonale al nostro tavolo, e da lì spuntò un bambino di 4 o 5 anni, vestito con un completo di giacca e pantaloni come quelli che usava mio nonno in inverno a Milano. Era a piedi nudi, il pantalone, anche se legato con uno spago ogni tanto si abbassava, le maniche della giacca gli coprivano abbondantemente le braccia fuoriuscendo per lo meno di mezzo metro. I capelli lunghi e sudici gli nascondevano il volto unto e spaventato. Sì! Era molto impaurito perché, come scoprii poco dopo, era stato tirato a sorte tra i più grandi del suo gruppo per recarsi in quel luogo in cerca di cibo per i più piccoli. I “grandi”, anche se dimostravano molta disinvoltura e un’apparente sicurezza, restavano pur sempre dei piccoli e vulnerabili bambini che non sapevano nemmeno se quella sera sarebbero tornati con qualcosa da mangiare, ma sopratutto incolumi, senza qualche osso rotto, oppure feriti da un’arma da fuoco o accoltellati da qualche cuoco che li sorprendeva a rubare qualche pezzo di carne o una coscia di pollo.
Il dottor Mondragòn, appena lo vide, cominciò a far segno ai camerieri perché lo buttassero fuori. Uno di loro venne con una scopa e lo colpì in testa, un altro lo prese per un braccio e cominciò a trascinarlo. La cosa che mi sorprese fu che quel bambino non disse una sola parola, non si lamentò affatto per quello che gli stavano facendo, cercava soltanto di difendersi con le sue piccole braccia e tirava calci a vanvera riuscendo a volte a colpire anche i due camerieri fin quando riuscì a liberarsi da ambedue e corse subito verso la griglia e senza timore di bruciarsi prese vari pezzi, quasi rubandoli al fuoco, se li mise in tasca e fuggì. Io rimasi di stucco perché non avevo mai visto un bambino così piccolo guerreggiare con tanta tenacia senza lamentarsi. A quel punto cominciai a fare domande a tutti e due. Mia cugina mi spiegò che erano bambini abbandonati oppure orfani che si riunivano in gruppi e che vivevano sotto la città, nelle fogne, i più fortunati, o più forti, avevano il privilegio di abitare vicino alle caldaie che riscaldavano i grossi edifici, ma sempre sotto terra. Li chiamano Gamines.
Domandai al dottore se il governo stava facendo qualcosa per questi bambini prigionieri della loro sfortuna. Notai subito che non era un tema al quale volesse dedicare del tempo, preferiva parlare del mio intervento, di come l’avrebbe realizzato. A quel punto gli dissi che se quel bambino fosse tornato avrei voluto parlare con lui. Me lo sconsigliò, perché diceva che erano dei delinquenti nati, scorie della società, che non facevano altro che drogarsi con del mastice (colla per scarpe), che questi bimbi chiamavano boxer, non perché sapessero leggerlo dal recipiente, semplicemente perché quella marca ha come logo due cani boxer che si contendono una scarpa tra le loro zanne.     Un’oretta più tardi, quando il ristorante era strapieno di giovani della mia stessa età e con i quali ero riuscito a cominciare alcune corte conversazioni, senza mai però togliere lo sguardo dal tombino da dove era uscito quel bambino, notai che la griglia che lo copriva si spostava lentamente. Smisi di parlare con il gruppetto di ragazzi, con una scusa qualunque, e mi diressi verso il tombino cercando di non farmi notare però non ci riuscii e la mano che stava sbucando rientrò velocemente. Decisi allora di appostarmi ad aspettare. Per mia fortuna soltanto alcuni minuti dopo, ecco di nuovo la mano, questa volta però richiamai la sua attenzione parlandogli: «Sal de allì, no tengas miedo…».
A quel punto spuntò la faccia di un altro bambino, non era lo stesso che avevo visto un’ora prima, sembrava più grande. «Como te llamas?» Disse che si chiamava Mono e aveva 5 anni, mentre il bambino di prima si chiamava Pito e ne aveva 4. Poi mi domandò se ero poliziotto. Gli risposi con secco no!
Avrei voluto fargli tante domande, ma dopo quella fattami da lui mi trattenni, comunque il suo sguardo era altrove, i suoi occhi  si muovevano velocemente, sembrava che con uno stesse cercando i camerieri e con l’altro vigilasse la grigliata. Allora decisi di attirare la sua attenzione proponendogli un affare. «Yo te traigo de comer y tu hablas conmigo, està bien?»
Lui fece un cenno con la testa per dire di sì, poi però mi fece una domanda che, da una parte mi stupì, dall’altra mi fece capire fino a che punto erano costretti a spingersi per poter sopravvivere. «Que, si no eres policia, entonces que… eres maricòn?» Pensava che fossi omosessuale e gli chiedessi delle prestazioni sessuali in cambio di cibo. Sinceramente mi prese in contropiede, quindi per non fargli capire il mio imbarazzo gli dissi di aspettarmi lì senza muoversi, che sarei andato a comprare qualcosa. Allora mi diede un’altra delle sue risposte disarmanti: «Tu eres bien huevòn, vas a gastar dinero por una cosa que tarde o temprano me voy a llevar. Mira que no nesecito que me compres nada, no nesecito de tu dinero para vivir…». In poche parole mi stava dando dello stupido perché avrei speso dei soldi per qualcosa che prima o poi lui avrebbe comunque rubato e che non aveva bisogno dei miei soldi per vivere. Andai comunque a prendergli della roba da mangiare.
Nel frattempo il dottor Mondragòn e mia cugina mi cercavano. Mi trovarono davanti alla griglia comprando cinque piatti diversi di carne. Approfittai delle loro braccia perché mi aiutassero a portarli, solo che non sapevano per chi era tutta quella carne, fin quando non mi inchinai davanti al tombino. Il dottore mi chiese se ero impazzito e cominciò a guardarsi intorno per vedere se qualcuno ci stava osservando: era preoccupato di cosa potessero pensare tutti quei figli di papà se lo vedevano dare del cibo a un Gamin. Mia cugina invece si mostrò più solidale, anche per via del suo lavoro che la metteva in contatto tutti i giorni con bimbi di quella età, si inginocchiò con me per passargli i piatti. A quel punto mi sedetti accanto al tombino e cominciai a fargli domande. Mia cugina al principio si alzò e si mise a parlare con il chirurgo anche per farmi da scudo, e rendermi invisibile agli occhi dei camerieri, i quali ogni tanto giravano tra la folla domandando se desideravamo qualcos’altro. Io parevo un ubriacone, seduto per terra che parlava da solo.
Questa piccola creatura, che indossava indumenti simile a quelli di Pito, si sistemò tutta la carne nelle tasche della giacca e dei pantaloni, quella che non riuscì a ficcare dentro se la mangiò, praticamente bollente. Mentre si leccava le dita, cominciò a raccontarmi dei suoi piccoli amici e come facevano per sopravvivere nella fogne di Bogotà. Cose veramente degradanti per un essere umano. Quando faceva molto freddo si ammucchiavano praticamente uno sopra l’altro per riscaldarsi, con la conseguenza, però, che qualche bambino a volte moriva asfissiato. Dovevano mantenersi sempre uniti perché altri Gamines più grandi, di 10 o 15 anni, di altri quartieri, li prendevano e li vendevano a delle persone cattive, come le chiamava lui, che li tagliavano a pezzi. Capii subito che si riferiva a trafficanti di organi. Mi raccontò che una volta si perse Yiyo, che aveva come lui 5 anni, e fu trovato due giorni dopo dentro un cassonetto con la gola tagliata e tutta la pancia aperta, vuota, e anche senza occhi. Lo raccontò con tanta freddezza, che persino per uno come me, che aveva visto la morte sotto diverse forme, era difficile da capire. Infatti è un mercato molto remunerativo da quelle parti, e molte volte mantenuto in segreto dalle stesse autorità. Gli feci la domanda classica sulla mamma, se la conosceva o sapeva dov’era, ma il suo silenzio fu più rimbombante di una campana. La seguente domanda fu se aspirava colla, mi rispose di no, poi però, quando gli rifeci la domanda diversamente, se aspirava boxer mi disse di sì, che era facile da rubare ed era utile per attenuare la fame e non soffrire il freddo, ma anche per togliersi la paura di rubare intontendosi a tale punto da non sentire le botte che ricevevano o le coltellate. A quel punto mi fece vedere il suo coltello, era un mini rambo con una lama di 20 cm. Era incredibile che un bambino di 5 anni potesse parlare con tanta disinvoltura della sua tragica vita e gestirsela, forse, meglio di alcuni adulti. A un tratto mi disse che doveva andare perché i suoi amici lo stavano aspettando per mangiare, però sarebbe tornato perché la notte era ancora lunga e il momento della chiusura era quello migliore per rubare coltelli e qualche bottiglia di Agua Ardiente (un tipico liquore colombiano, con sapore ad anice, che raggiunge alte gradazioni).
Da quello che mi diceva, con molto distacco e spudoratezza, emergeva che questi bambini erano tutto, tranne quello che realmente erano. Non avevano orari precisi per dormire, però preferivano farlo di giorno per diverse ragioni, una perché la mattina è meno fredda, secondo perché di notte è più facile rubare, aiutati dall’oscurità, inoltre di giorno le persone li maltrattavano perché erano costretti a chiedere elemosina e la gente li cacciava, molte volte con veri e propri colpi, oppure chiamava la polizia perché li rinchiudesse in qualche orfanotrofio e cose del genere, se non cadevano prima nelle mani degli squadroni della morte che andavano in cerca proprio di loro, perché li consideravano una minaccia morale per la società. In alcuni di questi squadroni si trovavano dottori, avvocati e molti commercianti, che si dicevano i più colpiti da questa piaga sociale.
Per fortuna questi figli del mondo conoscevano benissimo tutta la città, quella sottostante più che altro, potendo raggiungere qualunque luogo in molto meno tempo che chiunque in macchina nella parte alta e così sfuggire a qualsiasi agguato o inseguimento. L’unica cosa che dovevano trovare era un tombino “perché giù non ci sono semafori, né rotonde, né ponti, né sensi unici …”, mi disse quel bambino, dovevano soltanto stare attenti ai grandi topi di fogna, loro coinquilini, e a qualche serpente capitato per caso in cerca d’acqua.
Alcuni anni dopo appresi dai giornali che avevano arrestato in quella stessa città un tizio che era stato anch’egli un Gamin, ed era riuscito a tirare su, con dei fondi statali, una associazione benefica con delle case di accoglienza per questi bambini delle fogne. In diverse città del paese aveva aperto dei punti di raduno, dove i bambini potevano sostare il tempo che volevano senza sentirsi obbligati a rimanerci, e potevano avere due pasti caldi al giorno e un luogo asciutto dove dormire. Forse era realmente nata come una nobile iniziativa, però con il passare del tempo altri interessi erano entrati in gioco e con essi grandi quantità di denaro, così alcune di queste case di accoglienza cominciarono a trasformarsi in scuole del crimine. I bambini venivano selezionati in base alle loro abilità, all’età e al colore della pelle. Molti erano utilizzati nel traffico di droga locale, usando mezzi di trasporto molto versatili e adatti alla loro corta età. Biciclette e motorini, questi erano i mezzi più comunemente utilizzati per muoversi liberamente attraverso i piccoli vialetti, dove si smerciava ogni tipo di sostanza tossica: cocaina, marijuana ed eroina; ma anche per poter sfuggire più velocemente agli sporadici interventi della polizia antidroga, che il più delle volte si venivano a sapere con alcune ore d’anticipo, grazie alle talpe infiltrate, sulle quali faceva affidamento l’organizzazione del gruppo. Molte volte però questi ragazzini venivano sfruttati proprio per la loro abilità di muoversi attraverso le fogne, quindi li usavano per spostare grandi quantitativi di droga sotto la città, praticamente inosservati. I ragazzi più piccoli, ovvero i più svegli perché avevano fatto meno uso di droghe, erano destinati alle consegne delle note di riscatto nei sequestri, perché passavano insospettati e riuscivano a intrufolarsi in luoghi inauditi, senza essere visti quando le passavano sotto la porta o attraverso il finestrino di una macchina. Le ragazze le selezionavano per la loro bellezza e le addestravano nell’arte della seduzione, per poi mandarle in luoghi clandestini di prostituzione infantile. E, per concludere tragicamente, i bambini con difetti incurabili come mongolismo, autismo e altre patologie venivano venduti all’industria del traffico di organi. In poche parole niente era lasciato al caso, non si trascurava nulla, tutti erano utili, in un modo o nell’altro.
Tutto questo mi provoca un enorme disagio e tantissima nausea perché sono convinto che il fatto di essere delinquenti non ti permette di scavalcare alcune barriere morali alla base di ogni essere vivente che voglia classificarsi tra gli umani. Perché quello che ti insegnano quando fai parte di un equipaggio: “donne e bambini vanno salvati per primi” dovrebbe valere in ogni ambito. La donna, perché tutti abbiamo origine da essa, dal più bravo al più cattivo, i bambini perché rappresentano il futuro e anche loro hanno diritto a lasciare il loro segno in questo mondo.


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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
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Voltaire

 


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