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Radici

 

di Su Luvulesu

 

Il colle di Buoncammino, nel centro storico di Cagliari, è una zona invidiata da tutti i cagliaritani; dalla sua sommità si ha una vista mozzafiato sul golfo, si potrebbe definire un “ bonsai del Gianicolo”. L’antico castello sovrasta l’intera città, maestoso nella sua esteriorità, opprimente nelle sue budella interiori. Lì dentro si svolgeva la mia vita.Vi ero entrato quattro anni prima, dopo un lungo viaggio nel gabbiotto del furgone blindato, con le mani ammanettate dietro la schiena. Era durato così a lungo quello scomodo viaggio che mi sentii consolato quando i carabinieri aprirono il furgone per farmi scendere.Ero stato arrestato un pomeriggio d’autunno, mentre tornavo dalla transumanza delle vacche. Arrivato all’entrata del cancello dei pascoli in località “Janna e rughe” (“porta della croce” in sardo), un incrocio in cui confluiscono quattro strade, notai un folto gruppo di carabinieri che fermava le macchine provenienti da tutte le direzioni. Mi avvicinai molto lentamente e chiesi cortesemente di farmi passare per portare il bestiame verso il primo cancello all’angolo. Mi chiesero i documenti. «Non li ho con me», dichiarai e a voce alta pronunciai nome e cognome. «Un attimo, prego!» Due minuti d’attesa… e si precipitarono su di me: «Fermo! Nessuna mossa! » Mi infilarono le manette e mi trascinarono dentro il fuoristrada. Provai un senso di paura, ma dicevo a me stesso di non far trasparire nessuna emozione, immaginavo che mi volessero fermare per qualche reato, ma mi chiedevo quale. Comunque, ogni mia più pessimistica previsione: favoreggiamento, detenzione d’armi, abigeato, si rivelò presto una pia illusione. Salirono in sette, otto e mi portarono in caserma. Il giorno dopo ero in viaggio verso il carcere di Buoncammino a Cagliari. L’accusa: concorso in sequestro di persona a scopo di estorsione. La scorta dei carabinieri mi lasciò nella stanza dei nuovi giunti. I muri erano pieni di scritte e bestemmie degli ospiti che mi avevano preceduto. “Infame……, tua moglie mi faceva…… e adesso mi accusi.”, “Mario Fregabue, confidente del maresciallo Tagliagozzo, farai la fine di……… Sei una carogna.” Il labirinto del microcosmo carcerario iniziava a delinearsi. Le guardie e i ladri che in qualche misura si intersecano, confidenti, traditori, marescialli, ispettori, che lasciano testimonianza del risentimento e dell’odio all’entrata nell’inferno dei vivi: il collo di bottiglia dove lo sfogo umano si esprime nel modo meno dignitoso e l’animale ferito che sanguina lascia le tracce evidenti del veleno. Rimasi circa un’ora ad aspettare, facendo quattro passi avanti e quattro indietro dentro la stanza fredda e squallida. Non ebbi subito la percezione che in quelle poche righe c’era qualcosa di più di un semplice e volgare sfogo; con gli anni, ripensando a tutto quelle “testimonianze”, ho capito che in esse c’era la sintesi della storia della maggioranza dei carcerati d’Italia. Arrivò la guardia, dopo la lunga attesa gli chiesi come mai avevo dovuto aspettare tanto. Lui con la battuta pronta, che chi sa quante volte avrà detto: «Eh, Ferreli, ce n’hai di tempo d’aspettare...» Mi aprì il cancello e mi disse: «Spogliati nudo completamente!». Mi slacciai gli scarponi, mi tolsi i pantaloni. Lui, con meticolosità, controllò scarponi, pantaloni, maglia, calze, mutande. Rimasto nudo come mamma mi ha fatto, mi fece girare e piegare per due volte. Finita tutta l’operazione di perquisizione, mi disse che i lacci delle scarpe non li potevo tenere. Una volta rivestito, mi accompagnò all’ufficio matricola che distava cinque, sei metri: generalità, impronte digitali, foto. Un’altra guardia mi lesse il capo d’imputazione e mi chiese se avevo problemi con dei detenuti. Finite le procedure burocratiche, mi accompagnò all’infermeria: di nuovo generalità, patologie eventuali…. Quindi nella sezione di ubicazione… Destinazione raggiunta! La cella n°2 al piano terra del braccio destro, sezione AS (alta sorveglianza), era lunga tre metri e larga due e mezzo, il tetto arcuato, il bagno lungo e stretto, il letto a castello; dalla finestra, l’alto muro di cinta impediva di vedere oltre, dando la sensazione di trovarsi in un fosso e facendo perdere la cognizione reale della posizione stupenda in cui ci si trova. E’ strano sentirsi sprofondare in un fosso nel colle più alto!La mattina alle 7 passava la guardia ad aprire i blindati; nel lungo e stretto corridoio della sezione era l’inizio del frastuono che cancelli, guardie, lavoranti, televisori rendevano assordante. Al suono della sveglia mi alzavo, mi radevo con le lamette usa getta - le uniche consentite - facevo colazione, mi preparavo per la giornata. Alle 8,30 la guardia apriva le celle per chi voleva scendere all’aria; dovevo essere pronto per il passeggio. Tra le alte mura perimetrali del cortile in cui si camminava avanti e indietro, ci si sentiva come dentro un grande vascone di cemento, le cui pareti rimandano frammenti di discorsi sempre uguali. Nelle belle giornate di sole qualche partita di briscola o tresette, e poi di nuovo in cella. Era settembre quando la guardia si affacciò allo spioncino: «Ferreli, dall’avvocato!»Era arrivato il momento di sapere: l’avvocato mi avrebbe riferito la data della fatidica udienza. Indossai frettolosamente una tuta, entrai nel bagno per darmi una sciacquata alla faccia, una sistematina ai capelli. Non più di cinque minuti. Mi affacciai al cancello: «Guardia, sono pronto!» La guardia mi aprì il cancello della cella, per uscire dalla sezione altro cancello, imboccammo a destra le scale che portavano all’atrio del braccio e, attraversato un lungo corridoio, girammo a sinistra per salire le scale di fronte alle celle d’attesa; lungo un altro corridoio si aprivano, una appresso all’altra, le salette dei colloqui con gli avvocati; in fondo, le due sale dove si tengono gli interrogatori dei magistrati. La guardia mi chiese il nome del difensore: avvocato V.. Lo vidi dentro la terza saletta. Ci salutammo affettuosamente - erano passati quattro mesi dall’ultimo colloquio - e ci sedemmo uno di fronte all’altro con il piccolo banco in mezzo. «Abbiamo buone notizie, caro Antonio,» mi disse sorridente, «l’udienza della Cassazione è stata fissata per il 24 novembre.»Un rapido scambio di ipotesi sul pronunciamento e ci salutammo. Mentre la guardia mi riaccompagnava in cella, calcolai i giorni dell’attesa: 2 mesi e 10 giorni, 70 giorni.Assoluzione o condanna, speranza o delusione, vivere o morire, accendere o spegnere… Ero arrivato al bivio: da una parte la libertà, dall’altra l’inferno, in cui sprofondare. Gli sbalzi di umore passavano dall’estasi euforica prospettando la libertà, alla profonda depressione col pensiero che sarei uscito vecchio da quel buco di cella.Le settimane che seguirono furono accompagnate dal pensiero costante di come sarebbe andata, cercavo di distogliere l’attenzione con la lettura o un po’ di ginnastica in cella, ma il chiodo era fisso. Anche durante il passeggio, mentre facevo avanti e indietro con Toninu, Mario e Sandro, ogni tanto mi sentivo dire: «Ma a che cazzo stai pensando?»«No, niente niente…» era la mia solita risposta. Il 25 novembre Piero si affacciò allo spioncino del blindo. Come ogni mattina da tanti anni, nel lungo corridoio il lavorante Piero passava da una cella all'altra per distribuire vino e giornali. Tra me e lui c’erano delle particolari affinità culturali che ci rendevano “diversi” dagli altri. Provenendo entrambi dallo stesso mondo agropastorale barbaricino, ci bastava un’occhiata per capirci. Siamo nati in un’isola, ma il nostro mondo è un’isola sull’isola. Fin da bambino ho respirato aria di quella cultura chiusa e dura, ma con regole ferree, i “principi”, che un uomo mai può travalicare se vuole continuare a ritenersi tale. La fedeltà a un amico, la forza nell’affrontare le difficoltà, il sacrificio anche della vita per la difesa della famiglia sono sempre stati in cima alla scala dei valori. Ero stato forgiato da quelle regole che un noto intellettuale racchiuse in un editto chiamato Codice barbaricino, non scritto ma rispettato da tutto il mondo agropastorale del Nuorese. Quando udivo la voce di Piero sentivo qualcosa di familiare, un’identità comune ci legava.Arrivato davanti alla mia cella, si chinò un po’ centrando il piccolo sportello e strillò il buongiorno. Mi accostai alle sbarre, vidi la sua faccia allungata, barba brizzolata di pochi giorni, e il braccio teso che mi porgeva l'Unione Sarda. Presi il giornale, lo sguardo si fissò alla prima pagina… A caratteri cubitali: Ferreli condannato a 30 anni, definitivamente. Mi si gelò il sangue, sentii Piero che, guardandomi dritto negli occhi, diceva: «Stringhe sas dentese!». Non riuscivo a spiccicare parola, avevo la bocca impastata di saliva. Cominciai ad avvertire una vampata di calore dentro il corpo….. Tre passi avanti tre indietro: la cella si faceva più piccola, immaginavo gli anni, i giorni d’attesa tutti uguali, monotoni fino all’inverosimile.... Tre passi avanti tre indietro: la famiglia, i parenti, gli amici persi. Rivisitavo il passato, di una felicità assoluta ….. Tre passi avanti tre indietro: la paura di non farcela, di non riuscire a sopportare l’attesa. Avrei perso la mia dignità? Mi sarei arreso in un tragico e buio momento? No, non potevo cedere, dovevo dimostrare a me stesso e agli altri la mia forza interiore. Resistere, resistere… Ma come? Avrei dovuto impiegare il tempo con attività che danno un senso alla vita quotidiana: ginnastica per il corpo e lettura per la mente. Mi immaginavo i gesti che avrei compiuto. Ma com’era possibile fare cose della vita normale? La notte, sdraiato sul letto, parlavo a me stesso. Era come se esistessero due soggetti dentro la mia persona: uno pieno di paure, sconfitto, annullato, distrutto, che riteneva la strada più drastica quella più dignitosa; l’altro, l’orgoglioso Io, che non doveva mollare, perché c’è sempre un limbo della personalità di un uomo che mai nessuno può distruggere, dei valori che mai nessuno può sopprimere. Per un inconscio cinismo pensavo a chi si trovava in condizioni più tragiche della mia, ma non era questo che mi serviva per resistere. La mia forza non stava nel confronto con gli altri: era dentro di me e non dovevo permettere di annientarla. Un’idea cominciò a dominare i miei pensieri: la soluzione finale; sì, prima di toccare il limite massimo consentito, c’è sempre la soluzione finale … Mi possono spogliare di tutto, ma una parte di me resta invalicabile. No, l’annientamento totale non l’avrei mai permesso… Ma dov’è il limite invalicabile? Qual è il punto oltre il quale si comincia a rinunciare a se stessi? E’ meglio un passero in gabbia che un passero con le ali tagliate per sempre. Ma quali sono le mie ali? Le ali sono la dignità che un uomo deve sempre mantenere; ti puoi liberare dal carcere, ma se non hai la dignità non potrai mai essere libero…. E tuttavia, che cosa rimane della libertà di un uomo che sa di dover passare trent’anni della sua vita rinchiuso in una cella? Privato del mio tempo, dei miei spazi, delle mie abitudini, cosa sarebbe restato di me? Forse i ricordi… E il futuro, così lontano e indefinito, sarebbe potuto diventare speranza? Dove sta l’essenza di un uomo? Un uomo ha un’anima e un corpo, il corpo si può torturare, mutilare, privare della libertà, ma l’anima non è fisicamente definita, e per questo è inviolabile se resisti alla pressione e alle debolezze del corpo. Sì, deve essere questa l’essenza di un uomo.….. Ero appena rientrato dal passeggio quando arrivò la guardia: «Ferreli, si prepari la roba: è in partenza.»Era il 17 aprile del 1997, dopo quattro anni e mezzo di permanenza stava iniziando il primo trasloco da condannato definitivo. Entrai in ansia: non sapevo quale fosse la destinazione, in chi sa quale carcere mi avrebbero portato. Paura dell’ignoto! Strano - vero? - che un carcerato abbia l’ansia della partenza; razionalmente verrebbe da pensare che un carcere valga l’altro. Invece non è così: il trasferimento accentua quel senso di smarrimento che mai ti abbandona durante la detenzione. Anche quando è il detenuto stesso a presentare domanda di trasferimento da un carcere particolarmente duro, nel momento in cui arriva la guardia e gli intima di prepararsi la roba, lui sente l’ansia dell’ignoto: dove lo porteranno? come si troverà? Ogni cambiamento spezza quella sporca monotonia che ti crei all’interno del guscio, accentua o, meglio, rende visibile la tua totale dipendenza. Tu non sei padrone di niente, vivi con un perenne senso di precarietà addosso….Il mio amico Toninu mi aiutò a mettere nei sacchi neri le mie cose personali; dopo un quarto d’ora la guardia aprì il cancello: «Andiamo, Ferreli!»«Un minuto, appunta’, ho quasi finito.» Quando ci salutammo, io e Toninu sapevamo che non ci saremmo più rivisti, ma nessuno dei due aveva il coraggio di dirlo o farlo capire con i gesti. Con Toninu avevo diviso tutto per mesi e mesi: dolori, ansie e momenti euforici. Mangiavamo, dormivamo, scherzavamo e bisticciavamo in quel buco di cella che era diventata la nostra casa.Mi caricarono sul furgone, direzione: porto. Arrivati alla banchina, il capo scorta disse ai suoi colleghi che andava a timbrare i biglietti. Solo in quel momento ebbi la certezza che stavamo partendo per ‘il continente’.Nel furgone in coda a tutti gli altri automezzi aspettavo di essere imbarcato. Mi fecero uscire proprio mentre il portellone della nave iniziava a chiudersi. Ammanettato, con due borsoni sulle spalle, salii lungo una stretta scaletta che usa il personale addetto, senza guardarmi attorno. Mi fecero entrare in un sarcofago di lamiera, con sei brande a castello; una persona di grossa stazza farebbe fatica a girarsi lì dentro, e una alta toccherebbe il soffitto con le mani. I motori della nave andarono al massimo. Ancora non sapevo la destinazione. Iniziai a capire il panico che prova un claustrofobico; un incidente, e faccio la fine del topo, pensai.Dopo circa un’ora chiamai la guardia: «Devo andare in bagno, mi apra!» Due passi a sinistra e trovai subito il bagno. Rientrando nella cella di lamiera chiesi quanto durava la traversata. La guardia, mentre mi richiudeva, rispose: «Arriviamo domattina alle 9,30.»A Civitavecchia, insieme a me, salirono nel furgone due ragazzi di Olbia. Dopo un’ora di viaggio entrammo nel caotico traffico di Roma. Arrivammo in via R. Majetti. Una sbarra bloccava la strada, il capo scorta scese e consegnò i documenti all’agente dentro la garitta. Dopo venti minuti di sosta, arrivò l’ordine di proseguire. Oltrepassato il primo cancello, la scorta depositò le armi in portineria ed entrammo all’interno. Il furgone si fermò di fronte all’ufficio matricola. La guardia aprì lo sportello: «Ferreli, è arrivato. Si trova a Rebibbia. Deve scendere!» Dopo avermi scaricato, il furgone con gli altri ragazzi proseguì per altra destinazione. Liberato dalle manette, fui portato in una cella di attesa. Fotografie, impronte, perquisizione, controllo medico ecc. Dopo cinque ore la guardia mi accompagnò nel reparto di assegnazione G12 secondo piano, sezione C, cella n°17. … E ricominciò la nuova trafila delle “domandine”, degli orari, delle attese…. La vita carceraria scorre con i suoi tempi, in perenne attesa……..che qualcosa possa migliorare. Hai fretta che trascorra la vita, lo stato d’animo oscilla come i titoli borsistici, e intanto passano gli anni… In attesa di che? Mi domandavo nei momenti lunghi e bui di riflessione. Ormai da un anno sono fisso nella cella n° 17, della sezione B, del reparto G8.Sono le nove. La guardia del piano mi dice di recarmi all’atrio, dove un suo collega mi dice di aspettare l’agente che deve accompagnarmi nell’ufficio Matricola.Quando l’impiegato dell’ufficio matricola ha svolto le ultime procedure burocratiche, mi chiede se conosco tutte le prescrizioni che devo rispettare; rispondo di sì, e dentro di me esplode una vampata di caldo: ce l’ho fatta!Per anni ho lottato con me stesso, anni di attesa con il solo obbiettivo di resistere, e ora in fondo al tunnel finalmente vedo la luce. Il guscio si è rotto e l’uccellino è rinato. Inizia una nuova vita!Quando varco quell’enorme cancello, mi giro a guardare intensamente il noto muro di cinta, che tanto mi aveva tormentato con la speranza di poterlo scavalcare. Che strano mi pare! Mi chiedo: ma sono io che sono passato sotto o è lui che mi è passato sopra? Mentre attraverso la strada, le macchine sfrecciano, ho la paura di un bambino e la coscienza di un vecchio. Un signore col sorriso sarcastico mi dice: «Che fai, non attraversi?»Libero finalmente! I cancelli, le grate, le guardie, la cella cubica e spettrale sono svaniti nel nulla. È un sogno? No, è la realtà…. Ma come può essere? Un’ora fa: “Lì non puoi andare”, “È chiuso”, “Ti faccio rapporto”, “Vai in cella”, “Vai all’aria”, “La doccia adesso è chiusa”. Un’ora dopo: libero, all’aria aperta…, posso prendere il treno, l’autobus, andare dove voglio. Camminando lungo la Tiburtina, arrivo alla fermata della metro Rebibbia, direzione Termini. Il treno fino a Civitavecchia. Il sogno finalmente si è avverato, la libertà è arrivata. Prendo il traghetto Civitavecchia – Olbia e l’autobus per Nuoro. Dopo tre ore di viaggio, campi coltivati, sugherete, greggi di pecore, comincio a sentire gli odori della giovinezza… e i tremolii delle gambe, estasiato e incredulo: un ragazzino quando si abbuffa di cioccolata. L’autobus, fermandosi in tutti i paesini della costa, arriva a Siniscola e inizia a inerpicarsi sulla montagna della catena montuosa del Montalbo, dove cinghiali, mufloni, volpi, pernici la fanno da padroni. A un chilometro dall’entrata nel paese chiedo all’autista la cortesia di fermarsi, non voglio scendere nella piazza centrale, voglio gustarmi l’ingresso, entrare a piedi e vedere i cambiamenti, camminando come se fosse un sogno. Tante volte ho avuto paura di non farcela, i ricordi si sovrappongono in un groviglio inestricabile, come se avessi avuto due vite ben definite, distinte e separate, che adesso per incanto si sono annullate entrambe. I terreni circostanti mi sono familiari, ma il cuore del paese lo sento lontano. Ho desiderato tanto questo momento, per anni è stata la flebo che mi ha tenuto in vita e adesso che sto ritornando c’è qualcosa che sento lontano.Nella periferia alcune villette rendono evidenti i cambiamenti del lungo tempo trascorso. Vorrei arrivare in sordina, attraversare il paese senza essere riconosciuto e abbracciare mia madre, ma conoscendo la tradizione e solidarietà con il vecchio galeotto, so che appena qualcuno mi riconoscerà, si daranno voce che sono tornato. E così accade: si avvicinano centinaia di persone, parenti, amici, conoscenti, ragazzi curiosi di vedermi. Si potrebbero dividere in tre categorie: le persone che hanno un rapporto vero di stima, quelle che lo fanno per dovere di tradizione culturale e sociale, e coloro, infine, che hanno una sorta di curiosità e ammirazione verso chi non ha avuto paura di trasgredire, di infrangere la legge, qualità che da noi viene chiamata “balentia”.Entro a casa e tutto mi sembra più piccolo. Io sono al centro delle attenzioni e delle domande, tutte rivolte al passato. Né mio padre - che pensa che posso iniziare da dove ho interrotto, come se fossi una spina - né i vecchi amici - che trovo tutti grassi, pelati, invecchiati - immaginano minimamente che quello che conoscevano non esiste più: è un altro uomo, che ha lasciato il passato e non vede il futuro. Il passato è dolore e sofferenza, il presente non mi appartiene, lo sento lontano, e il futuro non lo vedo. Chi sono realmente? Pensavo di essere andato via a testa alta, di non aver perso niente, di essere uscito indenne dal labirinto infernale. Ma, se non mi riconosco in quello che ero, sono un naufrago in balia delle onde, con il passato che mi opprime sotto il suo lacerante peso, senza rendermene conto. Tanta forza mi avevano dato i ricordi, ero uscito dal tunnel pensando che l’obbiettivo fosse resistere. Arrivato alla meta, però, scopro che l’innesto con il passato non può essere fatto perché la pianta, senza che me ne accorga, si è trasformata; devo di nuovo appoggiarla alla terra e aspettare che attecchiscano le radici.Voglio staccarmi dal contesto del vivere quotidiano, dalle “beghe di condominio”; voglio nutrirmi appieno, gustarmi l’orgia della vita, dall’alto, senza programmare il futuro. Forse è la stessa emozione che prova un miracolato.La mia prima sera finalmente a casa. Dopo una lunga conversazione, mia madre mi accompagna in camera e con molta premura e delicatezza, come se stesse rivolgendosi a un bambino, mi assicura di aver rifatto il letto con meticolosa pignoleria, con i ricordi del passato…, quando da ragazzo lasciavo tutto in disordine. Le do un bacio sulla fronte, me la guardo con profonda intensità, la vedo vecchia e più piccola. Mi fa tenerezza, e in quell’istante provo un terribile imbarazzo per quella sua premura e un profondo senso di colpa, per tutta la sofferenza che segna il suo corpo. Le do la buonanotte. La mattina, quel letto che il tempo trascorso peregrinando da una cella all’altra mi aveva fatto scordare, non lo sento più familiare; la stanza in cui sono cresciuto mi appare estranea, un violento distacco ha reciso il cordone… Mi vesto, faccio colazione. A mia madre dico di non aspettarmi a pranzo perché vado a farmi una passeggiata. Mi metto gli scarponi di montagna, mi incammino verso la vetta del monte dove voglio passare una giornata in completa solitudine, sdraiarmi in mezzo al bosco, sentire gli uccelli, i cinghiali, i mufloni, il fruscio del vento. Solo finalmente…. dopo tanti anni di solitudine…


(tratto da L'attesa. Racconti dal carcere, Herald, Roma 2004)

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il 7/2/2014


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" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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