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Lampedusa
La Rivolta dei Ragazzi

Flavia Paone
Quando arriviamo davanti alla Casa della fraternità, a questa palazzina bassa della Caritas che da settimane è diventata l’alloggio di gran parte dei minori approdati a Lampedusa, quasi non capiamo cosa stia succedendo.
E’ il primo pomeriggio di un caldo inizio di primavera, al molo di Cala Pisana la nave Excelsior sta imbarcando i 1.700 tunisini che lasceranno l’isola, la situazione sembra essersi finalmente sbloccata. Qualcuno è già sul punto di tirare un sospiro di sollievo, in una terra dove manca l’aria da mesi, da quando è iniziata l’emergenza e questo lembo di terra è rimasto solo a fronteggiare la miseria e la speranza di migliaia di migranti.
E invece ci troviamo lì, dietro quella rete verde che recinta la palazzina e il prato trasformato in tendopoli da chi dentro non ha trovato posto per dormire, e davvero,  non crediamo ai nostri occhi. C’è un gruppo di ragazzi, saranno dieci, venti al massimo, che escono ed entrano dall’ingresso dell’edificio,  portando fuori i materassini di gomma, loro letti da settimane. Perché vivono lì dentro, in un unico stanzone, con un unico bagno. In alcuni giorni ci hanno dormito anche in 200. Mentre ammucchiano i materassini in un angolo sentiamo rumori di calcinacci, di vetri infranti, forti e continui. Sembrano i rumori di un cantiere in costruzione. E invece di distruzione, si tratta, di furia disperata. Sono loro, i ragazzi, che rompono le finestre, si attaccano all’anta della porta, tirano calci, usano pietre. Ci guardiamo attorno, a destra, a sinistra. Non c’è nessuno che sia pronto a intervenire, nessuno che accenni a una reazione, nessuno che tenti di placarli. Abbandonati a loro stessi, sembra un destino scritto in queste vite di ragazzi che quando sbarcano a Lampedusa vengono identificati come “minori non accompagnati”.
Mentre siamo lì si avvicina un isolano, si aggrappa con tutte e due le mani alla rete che ci divide da loro e dice: “Riprendete tutto con la telecamera, fatelo vedere quello che fanno. Uno li accoglie e questi sfasciano tutto. Sono dei pezzi dei di merda.”
Intanto un gruppo si stacca, si dirige verso il cancello d’ingresso del vialetto, lo blocca con una grossa pietra. C’è una ragazza con una casacca rossa di “Save the children” che in un ottimo francese li avverte che si sta mettendo male, che hanno dovuto chiamare i carabinieri, che è meglio piantarla. Con un gesto quasi eroico li sfida, cerca di aprire il cancello, ma loro glie lo richiudono in faccia, la tengono fuori. Un uomo che è lì fuori ci dice: “Vedrete che adesso gliele danno di santa ragione”. Cerchiamo un’altra visuale e poi ce lo troviamo davanti: il fuoco, alto, che danza e riempie il cielo di un fumo nero pece. Hanno dato fuoco ai materassini ammucchiati.
E’ quello il momento in cui si capisce che non è un capriccio, che non è una semplice protesta, che non c’è nulla di casuale in quello che sta accadendo. E soprattutto, è quello il momento in cui si capisce che bisogna intervenire. Gli adulti forzano il blocco, vanno dentro a prenderli uno ad uno, li fanno uscire tutti. Un ragazzo viene portato a spalla da due persone, si sente male e poco dopo crollerà sull’asfalto come un sacco. I più calmi vengono separati dai più aggresive, che invece si riversano per strada. Si trovano davanti una quindicina di carabinieri, che intanto hanno tirato fuori scudi, caschi e manganelli.
I ragazzi gli vanno addosso, rompono gli spazi in cui i due schieramenti di solito si fronteggiano. I carabinieri li respingono, qualcuno viene spintonato. I minori si ricompattano ed è quasi un lampo, un’idea che balena in una testa e poi in un’altra: pietre. Raccolgono le più grandi che trovano e le lanciano. Si sente il “toc” secco del masso sugli scudi antisommossa. Una pietra colpisce un carabiniere a un piede, ma non c’è nessuna reazione delle forze dell’ordine, che evitano il peggio e stanno lì a farsi insultare. Insultano anche noi, che siamo dal loro lato, ci intimano di spegnere la telecamera, ci spintonano, ci minacciano.
Non hanno facce da ragazzi. Hanno 15, 16, 17 anni ma nulla della dolcezza della loro età. Sono persone cresciute in fretta e indurite troppo, che hanno visto la rivoluzione di Tunisi, i fucili, la povertà, il barcone e il mare alto che lascia segni profondi.
La calma torna solo dopo decine di minuti, quando un funzionario delle forze dell’ordine si avvicina per parlare. Li fa sedere a terra, spiega loro che ci sono troppi migranti sull’isola, che per questo le operazioni di imbarco sui traghetti vanno a rilento, perciò non è ancora arrivato il loro turno.
Sì, solo questo vogliono: partire. Loro che per legge dovrebbero godere di un trattamento particolare, loro che per legge dovremmo tutelare, loro che per buon senso avremmo dovuto far partire per primi da Lampedusa, sono invece ancora qui.
Ce lo dicono loro stessi, che vogliono andarsene, perché quando la rivolta si spegne cercano le telecamere per spiegare le loro ragioni, ancora pieni di rabbia.
“Non ci sono docce, non ci sono bagni qui, non c’è cibo, non mangiamo da tre giorni”, urla uno. “Vogliamo andare in Sicilia, in Italia, Lampedusa è uno schifo, siamo qui da due settimane. Tornare in Tunisia no. Vogliamo partire perché non ce la facciamo più” aggiunge un altro, che ha sangue su tutto il petto segnato dai tagli che si è procurato con i vetri del centro. “A nessuno importa nulla di noi, ma almeno lasciateci salire su un traghetto”, concludono, mentre in gruppo intonano “Allah è grande”.
04-04-2011
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