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La solitudine di chi si uccide nelle carceri europee

 

di Mauro Palma

Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti

 

Con qualche affanno l’Europa legge i dati dei morti all’interno delle istituzioni penitenziarie. In linea teorica e di principio non si dovrebbe morire in cella perché l’ultimo atto della propria esistenza dovrebbe essere libero. Ma, come è ovvio, questa è una posizione ideale anche perché pur in presenza di adeguata assistenza medica e di rapida capacità di intervenire l’imprevedibile è dietro l’angolo.

Diversa è la questione delle morti per suicidio. I numeri sono alti – troppo alti – in molti paesi, Italia inclusa, e chiedono attenzione e interventi progettuali volti alla loro drastica riduzione. La responsabilità è, infatti, duplice: da un lato quella generale dovuta alle drastiche carenze di un sistema che si riflettono sullo stato psico-esistenziale di chi lo abita, dall’altro quella specifica dovuta alla scarsa professionalità nell’individuazione di situazioni a rischio e nel mettere in atto una efficace prevenzione.

I fattori d’ordine generale, globale, chiamano in causa questioni quali l’attesa in un eccessivamente lungo periodo di limbo prima della sentenza definitiva, la spersonalizzazione all’interno di un luogo e di un sistema di cui non si comprendono le regole e i meccanismi – oggi per molti anche in senso strettamente linguistico – le condizioni materiali in troppi istituti ben al di là della soglia di tollerabilità, la solitudine affollata che caratterizza la vita quotidiana, le sezioni di isolamento o comunque speciali dove molto spesso si è collocati indipendentemente da qualsiasi valutazione sullo stato psicologico e sul rischio suicidiario.

Quelli di ordine specifico, invece, attengono alla scarsa qualità della formazione, alla sua impostazione basata su lezioni piuttosto che su concrete analisi di casi, sulla tendenza a racchiudere nell’opacità ogni evento critico che avviene in un istituto, suicidi inclusi, e a non ‘utilizzarli’ come occasioni per una produttiva riflessione comune su cosa non abbia funzionato, su cosa non si sia compreso; infine riguardano la mancanza di un lessico comune nelle fasi di analisi e accoglienza iniziale dei detenuti, nel senso di un comune protocollo che renda le valutazioni meno soggettive e più facilmente comunicabili all’interno dei gruppi di operatori, anche tra un istituto e un altro.

 Molti paesi europei si sono interrogati su come affrontare tale problema non dall’usuale e melenso punto di vista delle buone intenzioni, bensì su quella del mutamento sostanziale di alcuni criteri che organizzano la vita detentiva e alcuni nodi specifici che ne scandiscono la quotidianità. Alcuni anni fa (dicembre 2003) in Francia è stato pubblicato un rapporto preparato da un gruppo di lavoro presieduto da Jean-Luis Terra (www.sante.gouv.fr/htm/actu/terra/sommaire.htm ) che individuava alcune debolezze del sistema che hanno incidenza sulla triste realtà di una media di suicidi in carcere che è circa 20 volte quella nella società esterna.

I punti critici individuati riguardano la mancanza di un approccio di sistema al problema e di procedure e protocolli comuni per la valutazione de rischio di suicidio, la forte eterogeneità dei servizi di assistenza alla persona, e di quelli di supporto psicologico-psichiatrico in particolar, all’interno degli istituti penitenziari, l’erronea tendenza a pensare di poter affrontare il problema soltanto con una maggiore e più occhiuta sorveglianza, il simmetrico rischio di disattenzione alla situazione individuale nell’adottare misure di isolamento rispetto a un detenuto, la scarsa comunicazione tra gli operatori delle esperienze di eventi critici e, quindi, il loro non inserimento come elementi di formazione sul campo.

Analoghe sono state le valutazioni del servizio di esecuzione delle pene in Spagna che ha conseguentemente adottato – e con risultati positivi – un piano strategico per la drastica riduzione del fenomeno (2005, Panorama Marco de prevencion de suicidios, www.mir.es/INSTPEN/INSTPENI/Archivos/c-2005-14.pdf).

Punto determinante è innanzitutto stabilire degli obiettivi a medio termine del programma da attuare (per esempio la riduzione di due punti della percentuale dei suicidi rispetto alla popolazione penitenziaria entro due anni) e lavorare alla costruzione di una rete di informazioni e supporti che doti gli operatori di strumenti per affrontare collettivamente ed efficacemente il problema. Ovviamente nel contesto di una definizione progettuale della pena e del carcere che non sia ristretta alle esigenze securitarie, come sembra essere prevalentemente nel dibattito mediatico.

Anche l’Italia sembrerebbe avviarsi verso questo approccio sistemico – le iniziative di febbraio per la sensibilizzazione al tema vanno in questa direzione. Anche se il vento del dibattito politico e sociale sembra soffiare verso altre direzioni.

 

 

 

 
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