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La pena e la Costituzione

di Ernesto Maria Ruffini

In questi giorni in cui si ricorda la Costituzione e si riconoscono in essa le fondamenta della nostra storia repubblicana, tra i tanti articoli della Carta costituzionale vorrei ricordare quello che riscuote il minor interesse almeno fino a quando si ha la fortuna di non doverne invocare l’applicazione: l’articolo 27.
Non è possibile in queste poche righe analizzare l’articolo nella sua interezza, ma tra i suoi commi vorrei ricordare quello che forse interessa ancor meno, perché sembra dover riguardare gli altri e non noi che abbiamo la fortuna di stare fuori dalle carceri: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Poco meno di tre righe, che devono essere considerate un esempio della grandezza della nostra Costituzione e, purtroppo, anche una testimonianza della sua distanza dalla realtà attuale delle nostre carceri. Una distanza che impone di considerare ancora attuale e vivo il dettato costituzionale.
Quelli che erano gli auspici dei padri costituenti non sono riusciti a tradursi in realtà concrete, o almeno non completamente.
Ma quali erano quegli auspici, quelle speranze, quelle visioni che durante i lavori dell’Assemblea spinsero i costituenti a redigere questo comma?
Alcuni di quegli uomini avevano avuto in sorte di provare sulla propria pelle, durante il periodo della dittatura fascista, cosa volesse dire essere carcerati, restare dietro le sbarre quando le porte vengono chiuse. Memori di quelle esperienze vissute fianco a fianco con “criminali comuni” vollero offrire il loro contributo in sede costituente per costruire una nuova società anche partendo dagli ultimi tra gli ultimi.
Le pene e le carceri di allora non sono certo quelle di oggi, ma quelle di oggi non sono ancora quelle che auspicavano i costituenti.
Rileggendo gli interventi che vennero svolti nell’Assemblea Costituente, mi rendo conto di dover lasciare loro la parola perché meglio delle mie riesce a offrire il clima, le speranze e le ragioni che si vivevano in quel periodo di rinascita. Una rinascita che passava anche dalle carceri.
Durante il dibattito furono diversi gli interventi. Lelio Basso affermava che “chi ha esperienza di vita carceraria, fatta come carcerato, sa che occorrerà del tempo prima di riuscire ad infondere nei nostri ordinamenti carcerari questo spirito di rieducazione”.
Bettiol, invece, rilevava che “la pena particolarmente nel momento della sua esecuzione, deve essere tale da non avvilire, da non degradare l’individuo”, tenendo presente “che anche l’uomo più malvagio può riabilitarsi” e che, in tale prospettiva, occorreva “riformare il sistema carcerario in modo di non ostacolare la riabilitazione dell'individuo”, ma allo stesso tempo constatava le “situazione dei nostri stabilimenti carcerari, in cui, in condizioni inumane, trova esecuzione la pena.” 
Preziosi riconosceva la grandezza dell’idea di dire “nella nostra Costituzione che il condannato deve essere trattato in modo tale da poter essere successivamente — se si tratta soprattutto di un delinquente occasionale — riassorbito dalla società; le carceri non debbono diventare le università del delitto, di tutti i delitti, ma debbono essere un luogo dove il reo possa racchiudersi in se stesso, pentirsi del delitto e trovare quelle possibilità, attraverso le innovazioni che si potrebbero apportare nel nuovo ordinamento carcerario, che non gli facciano invece — come avviene oggi — odiare la società che sembra far di tutto per respingerlo da sé.”
Leone rilevava che “l’ansia di tutte le coscienze civili e cristiane” è quella di “stabilire che la pena debba sollecitare, agevolare, favorire, realizzare, se volete, il fine della rieducazione morale, del ricupero morale del delinquente”. Infatti, affermava che “la pena, se obbedisce a criteri di giustizia, deve anche obbedire a criteri di carità, di fraternità. Ed è bene che la società, nel momento in cui toglie il più alto bene al cittadino, quello della libertà, gli possa tendere la mano caritatevole, perché sia ricuperato, restituito al consorzio umano; e sia ricuperato non solo il delinquente occasionale […] ma anche il delinquente per tendenza, anche il delinquente più feroce, perché, per noi cristiani, l'anima è un bene che può essere sempre recuperato e la coscienza umana può sempre risollevarsi alla visione dei problemi soprannaturali. Non vi è creatura umana che possa subire da parte della società una condanna fine a se stessa, che pertanto ripudi ogni riflesso di rieducazione.”
Trimarchi sottolineava l’esigenza di “vedere umanizzata la pena, di vedere attuato nel sistema penitenziario italiano un trattamento più umano, più confacente alla dignità della persona umana che viene
Fusco, infine, domandava che “per davvero l’articolo che riguarda il trattamento umano da fare ai condannati” fosse tale “in maniera efficiente, non in maniera soltanto empirica ed astratta”, perché “non si può raggiungere una rieducazione del reo, se non lo si mette in una condizione in cui egli non senta ogni giorno la desolazione e l'asprezza di un sistema carcerario che in Italia deve essere modificato alle fondamenta. condannata.”
Questo era il clima che ha portato alla stesura dell’articolo 27. E’ certamente insolito ricordare la Costituzione che fonda la nostra società attraverso quel singolo articolo che si occupa di quelli che non si sono dimostrati parte integrante della stessa società.
Ma a ben vedere anche questo articolo dimostra la grandezza e la lungimiranza della Costituzione, che anche sotto questo profilo merita di essere strenuamente difesa.

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