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Le parole legano e slegano

Incontrando le poesie e i racconti delle detenute e dei detenuti della casa Circondariale di Bergamo presentati al Concorso letterario “Pensieri ed emozioni” che ormai ha raggiunto la quarta edizione, si resta colpiti, si resta “senza parole”.
Ci sono parole che nascono nel silenzio. Le sole parole che cercano la verità, quella che noi siamo. Verità nella quale, per meglio dire , noi ci ritroviamo.
Quel silenzio a volte si dà quando “restiamo senza parole” di fronte alla bellezza, o a una nascita, oppure alla tenerezza dell’amore. Presi da un dono, o presi dalla cura.
Altre volte quel silenzio attraversa i nostri giorni come una lama: quella che lede o recide legami, fiducia, salute, ed equilibri. E soli, nel deserto in cui precipitiamo, le parole inaridite tengono tra i denti la paura, la colpa, o la desolazione.
Non è facile, allora, ascoltare di nuovo. Provare ancora ad ospitare parole, quelle di nascita, di bellezza, di fiducia. Non si sente più risuonare dentro di sé la nascita, e la bellezza, la speranza. Non la si sente più risuonare tra sé e l’altro: la relazione è muta, vuota: come tra cose.
Eppure l’unica cosa che resta da fare è ascoltare di nuovo.
Ascoltare di nuovo, attendendo altre parole, anche altre parole rispetto alla confessione che, magari, abbiamo sentito, e che ha legittimato la nostra condanna.
Nuovo ascolto, nuova pausa, nuova nascita della parola?
Nello spazio del lavorio della colpa, che è già pena, si può forgiare un a parola che crea altra nascita, altro radicamento..
Nello spazio di un riscatto, nell’avvio di una difficile riconciliazione con una fiducia originaria, forse di nuovo offerta, e possibile. Senza oblio di fuga, senza giochi di giustificazione. Ascoltare di nuovo, nel crogiolo del tempo.
Il tempo può a volte chiudersi, o disfarsi. Ne abbiamo rotto i fili dell’attesa, della fiducia, della promessa. Ciò che indicavamo a chi a noi si affidava, perché piccolo, o perché ci amava, è andato in dissolvenza. Nella rabbia come si può ascoltare? E cosa resta da fare per orientarsi se non ascoltare, guardare con attenzione, lanciare e ricevere richiami?
Le parole legano e slegano. A volte legano e slegano nello stesso tempo. Ammettono, confessano, accettano e, insieme, prefigurano, provano ancora una promessa buona. Scrive la Arendt in Vita Activa che “gli uomini non sono nati per morire ma per incominciare”. (1964) A volte avviene che si riesca a viverlo tra noi, e in noi. Slegando un altro dall’atto che ci ha portato offesa; slegando noi stessi dall’atto che ha offeso: così legandoci in una nuova possibilità.
Nella parole, quelle dette “in verità”, si conserva ed esprime ciò che rimane (per sempre) ma anche ciò che accade ogni volta. Sono parole al di là di  ogni calcolo, d’ogni economia di redenzione o di restituzione.
Parole come il dono, chiamate a fare l’impossibile. Se scrivo, se parlo, se agisco: “io ti devo”. E da qui posso provare a pensare di ancorare il poter essere, il mio poter essere, non più al passato che non passa ma al futuro, sull’a venire. E posso provare, così, a stare presso di me.
Le parole che legano e che slegano sono quelle che segnalano il “diventare guardare del nostro vedere”, come accompagna a provare Silvano Petrosino in Piccola metafisica della luce. Guardare che è segno della capacità di donne e di uomini di cogliere accogliendo, lasciando essere.
Guardare è rispondere. Emergono sempre, nelle nostre risposte,  anche cose di cui non riusciamo ad avere un sapere chiaro, “ciò che è proprio e ciò che non è proprio”: un fondo. Ed è sempre anche dramma. Ma se rispondi – e non reagisci, cioè non sei ciecamente concentrato su di te – allora il tuo cogliere le cose  e le persone è un accogliere. Il tuo dire è rendere grazie. E guardare è (anche sofferto e duro) salvaguardare, serbare, riguardare.  È anche un lasciare, ma un lasciare che non è un perdere, né un abbandonare.
“Lo sguardo non reagisce, non riflette: risponde”. Si può vedere (ancora), come per la prima volta, (ancora) come non era mai apparso prima. Il continuo emergere della vita, anche del buio che ci ha preso. Il buio dell’indistinto, del non indagato, del troppo facilmente giustificato, di una certa rapacità.
Nel buio si risponde (lo si può), si va incontro (si riesce a cercarlo), mentre nella tenebra non si risponde, si rinuncia al legame, ad ogni cura, d’altri e di se stessi. Una donna, un uomo, non risponde più.
Sui limitari della vita, quelli segnati da disperazione, o da abulia, o da violenza, cresce la distanza - a volte la separazione – tra i vissuti e le parole. E la parola va perduta perché è stata  impiegata per il possesso, per la falsificazione, o per la chiacchiera e la futilità. E resta esiliata, fuggitiva, disincantata, di convenienza. Il riscatto, la sua “redenzione”,  può darsi se prova di nuovo, la parola, a rendere dicibile, narrabile anche la reietta situazione umana. Se prova a mettersi come  seme, germinale e morente, sulla lingua stretta di terra non ancora riarsa dei vissuti nella prova.
Allora la parola, non più perduta, si fa aurorale: scrive Maria Zambrano che la vita ha bisogno della parola, della parola che sia il suo specchio, che la rischiari, che la potenzi, che la innalzi e,  al tempo stesso (ove necessario, e portandola in giudizio) che dichiari il suo fallimento. (2000) La parola trova il suo senso solo “nella simbiosi piena con la vita”. Questa parola a volte “turbina priva di nido” perché la vita si è fatta durezza e prova, restrizione o esilio, malattia o abbandono.
Solo se il mondo, le relazioni, gli ascolti si fanno nido abitabile, la parola trova il suo destinatario. La parola poetica è itinerante, esiliata. Entra dove la parola dei saperi e dei poteri non entra: entra nella notte della prova, nello sperdimento; e nella fragilità, nella semplicità, nell’amicizia. La parola poetica è decentrante, è amante, è legata alla misteriosità feconda del silenzio. Cerca l’innocenza, ha pudore, e nostalgia. È parola che scende, che di nuovo si piega, si curva sulla  vita, sulla storia di uomini e donne. Non argomenta, non prova a spiegare, a dimostrare. Parola che con pietas straordinaria entra nelle pieghe dell’ordinario quotidiano e svela ciò che può essere luce, che rende leggibile l’esperienza umana, anche la più contaminata.
Inedita bellezza e verità nella carne di una parola che si offre, che sta sulla soglia, che si nasconde nel silenzio. Come un “fiat”.





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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

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Voltaire

 


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