L'appuntamento Matteo Cateni Quito – Avenida Amazonas, 11 luglio h. 21:30 Mi trovo qui all’angolo di una grande strada, di una città che conosco appena, di un paese che si trova esattamente dall’altra parte del mondo rispetto a dove vivo. Sono qui e aspetto, fumo avidamente una Marlboro risucchiandone il fumo fino al filtro, e aspetto lei, lei che ancora però non si è fatta viva. Cammino nervosamente avanti e indietro ripercorrendo la medesima linea retta da diversi minuti, in questo angolo di strada, e spero che presto arrivi questo benedetto taxi che ponga fine a questa smania che ho dentro perché è in questo preciso momento che ho riposto tutte le mie aspettative, i miei sogni, le mie speranze. Per mesi il mio cervello ha lavorato costantemente per mettere a punto quest’ultimo atto che forse porrà fine ai miei problemi: il momento dello scambio. Fa freddo stasera, del resto siamo a circa 3000m. di altitudine e le sere qui sulle Ande Ecuadoriane sono piuttosto gelide, ma io sinceramente neanche lo sento perché è troppa la tensione che mi scorre dentro ed è come se avesse creato una sorta di scudo termico sulla superficie del mio corpo. I miei occhi vagano per tutta la lunghezza della strada, passando in rassegna ogni veicolo, ogni centimetro di marciapiede e persino i due lampioni che forniscono gli unici punti luce della via, sperando invano di intravedere la mia amica. M'innervosisco sempre di più, non riesco a trovare pace, del resto c’è troppo in ballo stasera, c’è il mio futuro, la mia vita, e non posso, non devo abbassare la guardia. Ma perché diavolo non è ancora arrivata? Eppure gli accordi per stasera erano precisi: doveva semplicemente scendere al terminal di Quito e prendere un taxi... Non ci vuole poi tanto, oltretutto le mie indicazioni erano perfette, come sempre, non scherzo mica io su queste cose!. Non mi piace per niente questo ritardo, forse sto diventando paranoico, mi sudano le mani che sfrego nervosamente sui pantaloni, ma com’è possibile che non è riuscita a trovare un taxi al terminale, e poi con tutti i soldi che le ho lasciato ci si poteva comprare pure una macchina nuova, altro che taxi. Questo fatto di aspettare di notte qui da solo, praticamente in mezzo alla strada è pure pericoloso, la polizia potrebbe insospettirsi o addirittura a qualcuno potrebbe venire in mente di rapinarmi, anche se mi rendo conto che per un rapinatore vestito così non sarei una preda appetibile. A un tratto, proprio a pochi metri da dove mi trovo, un taxi passa velocemente e io finalmente riesco a scorgere la mia amica, la riconosco subito, anche perché i miei cinque sensi si sono decisamente acuiti e il mio corpo intero sembra essere proteso verso lo svolgersi di questa situazione. All’improvviso tutto sembra muoversi al rallentatore, come in una lenta ed eterna moviola, le luci della strada assumono tonalità psichedeliche, e dentro di me una miriade di pensieri vorticano pericolosamente bloccandomi per un attimo che sembra lunghissimo e rendendomi incapace persino di muovere le gambe. Il taxi si ferma e lei scende sbattendo la portiera, poi di scatto gira la testa, come se già  sapesse che io mi trovo esattamente dietro di lei. Ci guardiamo e la sua faccia appare stanca, spossata, le occhiaie tradiscono una notte insonne, mi domando perché, visto che le avevo consigliato di venire fresca e riposata, ma in fondo non sono sicuro di leggere bene quello che c’è dietro il suo sguardo... Però c’è qualcosa che dentro di me dice di stare attento, di sospettare, di dubitare, ma lo ignoro. Mi viene incontro nervosamente con passo deciso e mi rivolge un breve saluto: «Hola, como estas?». E mentre mi guarda fisso negli occhi, riesco per un attimo a scorgere sul suo viso un accenno di paura, una specie di smarrimento misto a terrore che percorre sotto forma di scariche elettriche i suoi lineamenti. Da qui in avanti tutto succede troppo in fretta, lei si sfila meccanicamente il pesante zaino da campeggio che porta sulle spalle e senza aggiungere altro me lo passa, mi volto e me lo assicuro sulla schiena. Mi sento sperduto, tutto precipita intorno a me, non sento più neanche i suoni che produce la strada con il suo incessante via vai di veicoli. Cammino dritto davanti a me, senza una direzione precisa, come ipnotizzato mentre una strana e nuova consapevolezza serpeggia dentro la mia mente, nonostante ci sia ancora una parte dentro di me che seguiti ostinatamente a ignorarla.    Faccio altri passi in avanti senza rendermi conto che lei ormai non è più accanto a me, sul lato destro del marciapiede la porta di un edificio di diversi piani si apre di scatto e ne esce un uomo che punta una pistola dritto sulla mia faccia. Guardo quest’uomo, la faccia tesa in una strana smorfia, che mi urla di non muovermi, di stare calmo e alzare le mani... So bene che è finita, che sono nei guai fino al collo, ma nonostante ciò c’è una parte di me che ancora rifiuta l’evidenza del fallimento. Vorrei scappare lontano, vorrei poter tornare indietro nel tempo, vorrei essere a casa in una calda serata familiare, sentire l’odore di mia figlia…. Alzo le mani in segno di resa, cado in ginocchio sul gelido suolo del marciapiede, dei brividi mi attraversano il corpo, sento delle mani che mi arpionano le braccia, mi afferrano, mi strattonano... Dentro di me qualcosa lentamente sta morendo e niente ha più importanza.  |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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