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La vita attraverso il telefono
Dominique


Sono legatissima alla mia meravigliosa famiglia, lo sono sempre stata. Quando sono andata via da casa ho continuato a sentire le mie sorelle e mia madre tutti i giorni, anche più volte al giorno. Non ho mai nascosto la vita che facevo e loro, proprio per l’amore che ci lega, l’hanno accettata; allo stesso modo non hanno mai avuto motivo di dubitare del mio affetto.
All’improvviso le nostre telefonate si sono interrotte: la più grande tragedia della mia vita si è abbattuta su di me e mi ha segnata per sempre. Per un lungo periodo non hanno più avuto mie notizie, poi ho potuto riprendere i contatti, ma solo per una breve telefonata alla settimana.

Oggi è il giorno in cui posso telefonare, mi alzo dal letto e mi preparo, ma mi sento inquieta, penso al colpo che è stato per le mie sorelle e per mia madre dover scoprire il motivo per cui non mi facevo più sentire. Mi tornano in mente le scene dell’incubo che mi ha portato qui dentro. Non avrei mai potuto immaginare, andando ad aprire la porta di casa, che nella mia vita stava per entrare la disgrazia. E invece fu proprio così: quel 16 giugno del 2007 tutto sarebbe cambiato di colpo.
Non avevo mai visto prima quell’uomo che si presentò a casa mia, ma, dato il mestiere che facevo, era normale aprire la porta a uno sconosciuto. Lui però si rivelò subito diverso dalla solita clientela, voleva molto di più di ciò che erano le mie abituali prestazioni e protestava per il prezzo. Mi resi conto che dovevo mandarlo via, ma lui si mise a urlare rabbiosamente e io, che avevo bevuto un bel po’ per scacciare la malinconia che mi tormentava in quel periodo, mi misi a gridare a mia volta, poi cominciò ad alzare le mani e fu la rissa. A un certo punto presi il coltello dal cassetto della cucina che avevo alla mia sinistra, un coltello che non usavo mai perché non tagliava bene neanche il pane; volevo spaventarlo, cacciarlo di casa…. Quando lo vidi cadere a terra ferito, chiesi aiuto alla vicina, chiamai prima il Pronto Soccorso e poi la polizia…
Qui in carcere ho il tempo di pensare e ripensare a quel momento. Mi chiedo come sia potuto accadere… Chissà forse se non avessi bevuto… Ogni volta che vado a telefonare alla mia famiglia, mi tormenta il pensiero della mia vita rovinata e del dolore che ho provocato. So anche però che non hanno mai smesso di volermi bene e, nonostante la tragedia, sono state capaci di comprendere. È, infatti, la certezza del loro amore che mi dà la forza di andare avanti.
Oggi però sento che è una giornata strana, ho quasi il timore di andare a telefonare, ma ugualmente esco dalla cella e vado verso la cabina telefonica con mille pensieri in testa, anche se ancora non so che sto per ricevere una notizia che mi sconvolgerà, una notizia che per molti può essere, anzi è bellissima, ma per me in questo momento sarà causa di una dolorosa delusione.
Arrivo nella cabina, faccio il numero di casa mia e aspetto che l’agente mi dica che posso parlare. Mi risponde la mia amatissima mamma:
«Oh Jimmy, figlio mio, come stai?».
Incredibile: ancora mia madre non riesce a chiamarmi col mio nuovo nome, per lei sono sempre il suo unico figlio maschio, il primogenito, desiderato e viziato. «Mamma, ma non è possibile! Ancora continui a chiamarmi Jimmy… Comunque, dai, va tutto bene. Dimmi piuttosto delle mie sorelle, anzi delle mie bambine, cosa fanno, come si comportano?».
«Bene, bene… solo che… ehm… devo dirti una cosa che non ti farà piacere…».
«Che è successo, mamma? Che hanno fatto?».
«Riguarda Gina… È incinta».
«Cooosa? Incinta? Ma è ancora piccola! Deve finire gli studi…»
«Stai calmo, figlio mio. Lei non voleva che te lo dicessi, voleva aspettare che tu fossi fuori e più tranquillo…. È incinta di quattro mesi!».
Per un momento ho pensato: no, non è vero, Gina non può avermi fatto una cosa del genere, dopo tutti i discorsi, le raccomandazioni… E poi proprio lei, che ho accudito e fatto crescere come una figlia!
«Mamma, ma è proprio sicuro? Non sarà un errore?»
«Jimmy, è incinta, ti ho detto, ma tu devi stare tranquillo».
«Sì, tranquillo… Mamma, sono furiosa! Non voglio sapere più niente di Gina. Da questo momento per me non esiste più!».
Il tempo della telefonata sta per scadere, saluto mia madre e le chiedo di darmi la benedizione. Una tristezza profonda mi piomba addosso. Torno in cella e non riesco a pensare a nient’altro. È tutto un fallimento: come sorella, come figlia, come amica… il mondo mi crolla addosso e il dolore più grande è che non posso fare niente. La notte non riesco a dormire. “Gina, perché mi hai fatto questo? Tu, la più piccola delle sorelle, a cui ho fatto da madre , ora non sei più la mia bimba…”.  La mattina dopo chiedo una telefonata extra, voglio notizie più precise, voglio sapere tutto.
I giorni successivi sono stati lunghi, ho iniziato a dirmi che dovevo accettare che Gina non fosse più la mia bimba, ma non riuscivo a mandar giù la cosa, la delusione era troppo grande. Quando è arrivato il turno della telefonata ero nervosa, ma volevo parlare con mia sorella. Sapevo che le mie parole potevano ferirla, ma dovevo sentirla. Mi ha risposto Veronica, la sorella più piccola, poi ho salutato mia madre e le ho detto di farmi parlare con Gina. «Mi raccomando, non trattarla male!», mi ha detto prima di passarmela.
«Ciao, vita mia, come stai?», mi dice con la sua vocina tenera.
«Beh, non troppo bene. Ho saputo tutto e non posso essere contenta… Ma ormai è successo, non si può fare niente».
«Senti, se sarà una femmina la chiamerò Vanessa, come te».
A queste parole la mia rabbia è svanita per un attimo: «Allora chiamala Lindsay Vanessa».
«Sì, e sarà bella come te».
Dentro di me s’agitava un miscuglio di sentimenti diversi: da una parte continuavo a essere arrabbiata e delusa, dall’altra pensavo con tenerezza alla creatura che doveva nascere. Per fortuna la telefonata stava finendo, così ci siamo salutate. Nei mesi seguenti il mio umore non era buono, pensavo a quello che mi aveva portato in carcere, alla lontananza dai miei affetti più cari, e una profonda tristezza ha accompagnato le mie giornate. Però non ho mai smesso di telefonare e di chiedere come procedevano le cose per la mia sorellina. Intanto si avvicinava il momento del parto.
Un giorno mia madre mi dà la notizia: «Gina ha partorito. È un maschietto e sta bene».
«Non mi interessa il bambino,» le dico con durezza «voglio solo sapere come sta la mia bambina!».
«Non parlare così, è tuo nipote! Gina sta bene, è stata forte ed è andato tutto bene. Ma ricordati che il bambino è tuo nipote».
Sono ritornata nella mia cella piena di pensieri. Quella che per molti è la notizia più bella del mondo per me è un motivo di dispiacere; era nato un bambino, mio nipote, ma non mi veniva di fare salti di gioia. Mi sono sdraiata sul letto, ho immaginato le mie sorelle e mia madre contente e indaffarate, ho ripensato a quello che mi ha detto mia madre al telefono e mi è ritornata in mente un’altra telefonata, di molti mesi fa… quando finalmente avevo potuto chiamare la mia famiglia. Non potrò mai dimenticare la voce di mia madre: «Oh Jimmy, sei tu, finalmente! So che sei in prigione, ma dimmi, è vero quello che mi hanno detto le tue amiche?».
«Mamma, sono in carcere perché ho ucciso un uomo».
Dopo un attimo di silenzio mia madre si mise a piangere. Un pianto disperato, povera mamma, come quello di tanto tempo fa, quando, a quattordici anni, le dissi che il suo Jimmy, il primogenito, l’unico maschio di casa, tanto amato e desiderato, da quel momento cambiava nome perché gli piacevano gli uomini. Ora il motivo era diverso, molto più grave, ma il pianto che sentivo a telefono era lo stesso. Mi sono sentita la persona più cattiva del mondo e non potevo fare nulla, mia madre non la potevo consolare. Era successa una cosa terribile. Subito dopo prese il telefono Gina: «Vanessa, non è vero, dimmi che non è vero…»
«No, Gina, è vero: ho ucciso un uomo, ma non volevo farlo…».
Le spiegai qualcosa e lei dopo con una voce piena di dolcezza: «Ormai è successo. Devi stare tranquilla e pensare che noi ti vogliamo bene. Io resto sempre la tua “piccolina”, aspetto quando uscirai e tornerai da noi».
Come posso ora essere arrabbiata con lei? Io che ho fatto soffrire le persone che amo di più al mondo, perché so che è così, anche se loro non me lo fanno pesare. E dunque sono proprio una grande egoista a pensare alla mia delusione perché la mia sorellina ha fatto una cosa sbagliata. Certo, avrei voluto per lei una vita diversa, quella che io non ho avuto, una vita soddisfacente, di cui essere orgogliosi. Avrei voluto essere lì con lei per condividere i momenti importanti, non a migliaia di chilometri di distanza. E invece sto chiusa qui dentro e mi sento esclusa… Ma che c’entra questo con la rabbia? Che diritto ho di sentirmi delusa, io?
E così, un po’ alla volta, ho iniziato a pensare in modo diverso a questo nipotino. E quando mi hanno mandato la sua fotografia mi sono detta: quando uscirò voglio godermi questo bambino e stare insieme alla mia bella famiglia che è la cosa più preziosa che ho.

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il 7/2/2014


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