Il deserto e il labirinto del tempo |
La condizione segregativa del carcere, il continuo scontro con le strette limitazioni alle possibilità di scelta e di espressione di sé, le esperienze della dipendenza da altri sono una costante, sempre presente in una quotidianità che può assumere i caratteri dell'abulia e dello svuotamento. Oppure quelli del deserto e del labirinto (ricordo le pagine di Maria Zambrano, che parlano dell'esperienza del tempo dalla segregazione dell'esilio). Deserto perché il tempo ristagna "e il vivere si fa, a volte, irraggiungibile quanto il morire". (M. Zambrano, 2000) Labirinto perché le dimensioni del tempo (passato, presente e futuro) si trovano aggrovigliate, vanno e tornano, si ingarbugliano. Le trame passate soffocano i fili che tendono al futuro; o sono questi che non reggono (ancora) la ri-assunzione dei grovigli del passato, anche nel loro definire un pegno insieme a un terreno da riscattare, un terreno di riscatto.
E si ripropone ancora, la faglia del punto di partenza, quando ci fu da aprire gli occhi e respirare, fuori dal “riparo della verità materna”, nella “fame di tutto”. E nel rischio di non farcela. Non è ripetersi della nascita, la prima nascita è nascere senza passato, ma è piuttosto des-nacer, disnascere, ri-sentimento della vita (e sentire ancora l’originarietà). Attenzione e intenzione vengono mobilitate alla ricerca di realtà essenziali, si è gettati in vita e affidati. O lasciati: la coscienza può prendere la strada dell’origine o quella della discesa. Tempo ‘ulteriore’, pare suggerire la Zambrano, in quel fondo di “debolezza di cui avere cura dentro se stessi, dentro la propria vita”. Accettare di dover nascere, di non essere del tutto, di andare essendo. Col “rischio di essere altro da quanto intravisto”, di essere uno, solo, e farsi visibile a sé e agli altri. Identificando ciò che va perduto o è andato perso. Sì, occorre accettare d’essere o di esserci in parte, in alcune parti di sé, perduti. “Rescatar”: tornare a prendere, tirare allo scoperto ciò che era imprigionato (nell’angoscia o nell’illusione). Guardare nuovamente, attraverso quella perdita e quella frattura che l’evidenza della vulnerabilità mostra insuperabile (la sofferenza è lo specchio). Trovando tracce e consegne. Senza provare a negare o credere di poter abolire il patire. Ripensare la propria storia, sé, la propria immagine, le proprie risorse. E la loro possibile ridestinazione. Per altri. Ma occorre che da una condizione segregativa possa maturare una esperienza di avvicinamento a condizioni di bisogno e di limitazione, di dipendenza e non autosufficienza, di vulnerabilità. Preziosa occasione per una prova di sé, di nuovo inizio, di scoperta di risorse ancora possedute e d'una inedita e non ancora provata dimensione d'esperienza responsabile e dedicata . Da dedicare, da destinare di nuovo. In dignità. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
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