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La nebbia si dirada
Matteo Cateni
Non riesco a vedere niente della strada intorno a me, le manette mi stringono ai polsi, vengo letteralmente sballottato a destra e a sinistra da una moltitudine di braccia che spingono e tirano verso opposte direzioni. Fa freddo in questo posto, a giudicare da come mi gira la testa dovremmo essere a una considerevole altitudine. Gli odori che giungono dalla strada mi invadono appena scendo dalla camionetta, sono di cibi che non conosco, che probabilmente non ho mai assaggiato, sembra che qualcuno stia cucinando in mezzo alla strada.
Gli uomini che mi spingono parlano spagnolo, un dialetto locale, che ieri notte, nella caserma della Narcotici a tratti mi sembrava incomprensibile, nonostante conosca abbastanza bene il castigliano. Sudo anche se fa freddo, lo stomaco mi si contorce, i dolori dell’astinenza da eroina si cominciano a sentire, starnutisco a ripetizione, tante volte di seguito che mi manca il respiro. Conosco bene l’astinenza e so quant’è dura da affrontare, persino quando sei nel letto di casa tua e c’è qualcuno che ti aiuta e sostiene moralmente e fisicamente. Come farò a sopravvivere chiuso in una cella di un carcere sudamericano insieme a chissà quanti altri detenuti, e magari senza neanche un bagno a disposizione? Come farò quando i dolori veri si presenteranno?
L’ingresso del carcere assomiglia a un vero e proprio tunnel scavato all’interno di un grosso edificio, al termine del quale c’è una piccola porta a sbarre che dà sul cortile. Mentre attraverso il tunnel noto delle persone assiepate vicino alla porticina, da lontano non riesco a distinguerne i contorni, la paura quasi mi paralizza, le mani si contraggono in uno spasmo, sono così preso dall’angoscia che anche i dolori per un attimo scompaiono, per lasciare il posto al terrore. Finalmente oltrepasso la porta, vengo sospinto dagli agenti verso una casetta rossa con le finestre a vetri, esattamente al centro di un cortile circondato da alte pareti di pietra grigia; dentro c’è un poliziotto che mi chiede le generalità. Ogni tanto passa qualcuno fuori che mi guarda e mi dice qualcosa che non capisco. Rispondo a tutte le domande del poliziotto, e stranamente mi sento tranquillo dentro quella specie di ufficio, che mi protegge da ciò che aspetta all’esterno. Vorrei prolungare il più possibile quel momento, rimandare ancora quello in cui dovrò affrontare la realtà del posto in cui mi trovo. Il paradosso è che per la prima volta in vita mia la presenza di un poliziotto mi tranquillizza e mi fa sentire protetto. Mentre questi pensieri attraversano velocemente la mia mente, il poliziotto mi fa cenno che sono terminate le formalità di rito e prendendo le chiavi mi dice di seguirlo.
Sono molte le celle che si affacciano sul cortile, tutte hanno le porte a sbarre e dentro sembra che ci siano tanti carcerati. Strano che con tutta quella gente ci sia un poliziotto solo preposto alla sicurezza. Mentre passiamo un coro di voci si leva dalle celle: offese, insulti rivolti alla mia persona. Non sempre capisco, molti si sbracciano dalle inferriate, urlano alla guardia di mettermi lì dentro ché c’è posto, altri fanno pesanti apprezzamenti a carattere sessuale su di me, altri ancora si limitano a gesti e linguacce.
Sembra tutto assurdo, questo posto è un girone infernale, sembra di essere entrato nel film Fuga di mezzanotte, non riesco a credere che stia capitando a me, non è possibile, devo svegliarmi da questo fottuto incubo, ma la cosa più agghiacciante è l’essere assolutamente cosciente che sì, è proprio tutto vero.
Arriviamo alla cella dove dovrò passare la notte. La guardia apre la porta, ormai si è fatto scuro e non si riesce a vedere niente all’interno, la porta si apre e io entro. Cerco di guardare attorno a me: nonostante avverta la presenza di molte persone, non riesco a vedere niente. La guardia dietro di me chiude la porta sbattendola e gira la chiave nel lucchetto. Mi sento in trappola, le gambe sono rigide, i muscoli tesi pronti a scattare, sulla schiena scivola un rivolo di sudore acido, la mascella si contrae fino a farmi stringere i denti, serro anche i pugni… Vorrei essere lontano da qui, a casa mia. Sento un rumore: qualcuno sta avvitando una lampadina e subito una luce si accende. Quello che vedo è veramente surreale: ammassate lì dentro ci sono per lo meno una ventina di persone, la maggior parte con la pelle scura, sono vestite di stracci, il corpo segnato da cicatrici profonde, tagli netti che passano da una parte all’altra del torace. Sul pavimento decine di coperte, le pareti annerite come nelle miniere di carbone, in un angolo brandelli di scarpe ammucchiate, dalle quali sale un odore nauseante. Mi guardano, mi studiano, in piedi, addossati alla parete, non so che cosa succederà, vorrei pensare che sono pronto a tutto, ma non è così, vorrei solo scappare il più lontano possibile e a stento cerco di trattenere i tremiti.
Un ragazzo dalla fronte segnata da una grossa cicatrice, con addosso solo un paio di jeans logori mi si avvicina e indica le mie scarpe, mi guarda negli occhi e mi dice di levarmele e consegnargliele immediatamente. Nei suoi occhi brilla una strana luce e mentre mi parla un inquietante sorriso si disegna sul suo viso. Cerco di tirare fuori il mio spagnolo migliore e qualche parola di slang imparata in Colombia, e gli dico che non ho intenzione di dargli proprio niente. Il ragazzo mi afferra alla gola e stringe, io cerco di divincolarmi, poi gli sferro un calcio nelle parti basse e appena si piega lo stendo con una testata. Gli altri mi guardano stupiti, si mettono in mezzo e soccorrono l’amico. Sembra che per ora sia finita qui, anche se ne dubito.
Si apprestano a dormire. Uno mi dice che per sdraiarmi non c’è posto, devo dormire in piedi, potrò sdraiarmi domani. Resto in piedi appoggiato alle sbarre della porta. Un signore che avrà l’età di mio padre, dai lineamenti marcatamente indios, mi porge un pentolino ammaccato dicendo che lo deve tenere chi sta vicino alla porta per mandare via i grossi topi di fogna che cercano di entrare.
Il resto della notte è stato il momento più brutto della mia vita. I dolori mi hanno distrutto il sistema nervoso, pensavo che sarei morto e ho giurato a me stesso che, se fossi sopravvissuto, non avrei mai più toccato droga in vita mia.
Finalmente è arrivata l’alba e sono riuscito a chiudere occhio semi-seduto. Quando mi sono svegliato mi sono accorto che le scarpe non erano più ai miei piedi, ma il giuramento, quello non me l’avevano rubato. I giorni successivi sono tutti una replica del primo, ogni giorno che sorge penso che i dolori siano passati, ma non è mai così, anzi, ogni giorno sto peggio. Dentro di me, però, sento una strana nuova forza di volontà che mi permette di resistere.
Dopo una settimana che sono qua dentro scoppia una rivolta: un gruppo di detenuti si rifiuta di entrare nelle celle e cominciano a lanciare sassi ed escrementi verso l’entrata, e il poliziotto all’entrata deve far intervenire da fuori l’antisommossa. Accade tutto velocissimamente, le grida, il fumo dei lacrimogeni, l’odore acre degli escrementi, dopodiché perdo i sensi scivolando nell’oblio, per mancanza di aria nei polmoni.
Mi sveglio in un ospedale fatiscente, dove rimango per una notte, poi vengo caricato su una jeep e portato davanti alla porta di un altro carcere che sembra più grande del precedente. Ancora non posso saperlo, ma questa sarà la mia casa per i prossimi tre anni.
La notte passata in ospedale mi ha un po’ rinfrancato, i dolori dell’astinenza si stanno finalmente affievolendo e mi sento meglio anche mentalmente. Sono piuttosto contento di essere vivo.
Il nuovo penitenziario in effetti è molto più grande dell’altro (solo dopo ho capito che era un semplice Transito giudiziario) e offre molti più servizi, come docce, bagni ecc. Mi rendo subito conto che è molto pericoloso, ogni angolo è controllato da una banda e se non mi affilierò a una di queste sarà difficile per me sopravvivere qua dentro.
L’occasione si presenta quasi subito. Vengo avvicinato da un energumeno tutto tatuato che mi prende per la gola e mi dice che devo dargli dei soldi se voglio arrivare a domani. Soldi non ne ho, anche se volessi darglieli, ma lo convinco a lasciarmi e gli dico di aspettarmi ché gli avrei portato i soldi dopo dieci minuti. Dopodiché, scosso e tremante salgo su nella mia cella a pensare sul da farsi. Mi confido con un ragazzo con il quale avevo fatto conoscenza appena arrivato e mi spiega che se pago dovrò farlo tutti i giorni regolarmente. Mi convinco, mi faccio prestare un coltello perché a mani nude quello mi farebbe veramente male. Ritorno, mi avvicino al tizio che è di spalle, senza pensarci troppo gli infilo tutta la lama nella coscia destra e lo lascio lì mentre grida e si dimena. Salgo nel mio padiglione, sono scosso da tremiti, pallido e angosciato, soprattutto ho paura di quello che succederà adesso. Ma subito vengo accolto dagli altri con abbracci e pacche sulle spalle. Sembrano tutti molto contenti per quello che ho fatto, mi dicono che mi sono fatto rispettare e che adesso faccio parte della loro banda.
In effetti la mia vita migliora notevolmente in tranquillità e ora posso pensare a riprendere il controllo di me stesso. Comincio facendo un po’ di sport alla mattina insieme a un altro ragazzo: corse, piegamenti alla sbarra, mi sono anche organizzato per cucinare perché quello che passa l’amministrazione è veramente immangiabile.
La mia mente assomiglia a un paesaggio di campagna avvolto nella nebbia che pian piano, giorno dopo giorno, si dirada lasciando spazio ai contorni delle cose, agli odori, ai colori che sembravano dimenticati.
Mi sorprendo del fatto che riesco a formulare pensieri intelligenti, della voglia che ho di parlare dopo che per tanto tempo sono stato chiuso in me stesso. Man mano che il tempo passa il paesaggio è sempre più nitido, arriva persino a risplendere il sole sulla campagna, e riacquisto fiducia in me stesso. Certo i problemi qua dentro non mancano, devi stare sempre all’erta, attento a quello che dici, a quello che fai e soprattutto con chi parli, però adesso sento che non c’è cosa che non possa fare, che non possa affrontare.
Intanto ho preso contatti con l’ambasciata per ottenere l’estradizione e finire la condanna a casa mia, per stare vicino a mia figlia, che nel frattempo sta crescendo e che non più visto, e alla mia compagna, con la quale ho recuperato un doloroso strappo, chi l’avrebbe detto quando quest’incubo è iniziato? Ci siamo parlati tramite lettera e si è convinta che quello che stavo vivendo sarebbe sicuramente stato un forte deterrente all’uso di droga, quello che l’aveva portata a lasciarmi.
È incredibile come vadano le cose! Adesso, nonostante sia chiuso qua dentro, mi sento bene, sono quasi riuscito a riprendere in mano la mia vita, cosa che avevo cercato di fare annaspando verso soluzioni sempre più improbabili per diverso tempo prima di essere arrestato.
Ho cambiato la prospettiva, adesso vedo chiaramente ciò che è importante e ciò che non lo è, riesco a capire quali sono le persone che davvero mi vogliono bene e quelle che invece per una vita mi hanno sfruttato perché gli facevo comodo. Ho anche deciso di smettere di trafficare droga, ancora non so che cosa farò, di cosa mi potrò occupare, ma sento un tumulto di energie che mi brucia nelle vene, e so che posso fare molte cose belle, a cominciare dal rendere felice la mia famiglia.
Il futuro è incerto, ma ho deciso che voglio proprio godermi questo paesaggio di campagna illuminato dal sole primaverile, con tutta la calma del mondo.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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